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Il modello corporativo, la categorizzazione dei bisogni e l’emergere dell’associazionismo.

LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA

2.2. Il modello corporativo, la categorizzazione dei bisogni e l’emergere dell’associazionismo.

«Conosce la teoria del calabrone? È molto istruttiva. Esaminando l’anatomia di quest’insetto, gli studiosi di scienze naturali hanno affermato, tutti d’accordo, ch’esso non può volare. Pesa troppo, ha le ali troppo piccole e deboli. Eppure, smentendo tutti gli studiosi d’ogni specie, il calabrone vola. Lo stesso avviene per il capitalismo italiano».

Eugenio Scalfari, Rapporto sul neocapitalismo in Italia, Bari 1961.

L’Italia si presenta alla sfida repubblicana con un passato a forti tinte chiaroscure: l’assistenza era stata in parte sottratta alle istituzioni religiose tramite la legge Crispi del 1890, segnando una forte contrapposizione tra la Chiesa cattolica e il fronte liberale; il fascismo aveva controllato e represso ogni realtà auto-organizzata e aveva fondato un ordine corporativo sin dal 1927. Gli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale furono segnati da una certa continuità con il periodo precedente, per ciò che riguarda le politiche sociali. La funzione assistenziale era rimasta inalterata rispetto al periodo fascista, vincolandosi ad un ordine di stampo corporativo. In particolare si sorreggeva su tre pilastri: l’assistenza pubblica (Stato, Regioni, Provincie, Comuni, Consorzi di enti locali), l’assistenza istituzionale (Enti e associazioni nazionali, Enti comunali di assistenza, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, Patronati scolastici, Enti e associazioni assimilati a Ipab) e l’assistenza privata (Enti e associazioni giuridicamente riconosciuti, Istituti ecclesiastici, enti di culto e associazioni ecclesiastiche concordatarie, Enti e associazioni giuridicamente non riconosciuti). Il sistema era:

• frastagliato, in quanto composto da un numero eccessivo di istituzioni erogatrici;

• disorganico, in quanto non afferente ad un unico ministero con competenza negli “affari sociali”;

• particolaristico, in considerazione dei regimi occupazionali e delle differenze reddituali.

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Gli studiosi sottolineano la conservazione del sistema di politiche sociali ante- guerra: in Italia dopo il 1945 continuavano «le erogazioni di tipo beneficenziale, lo sviluppo di enti nazionali e locali, la categorizzazione dei bisogni e dell’utenza» (Bassanini et alii 1977, 50). Lo Stato sociale italiano era destinato a restare inalterato rispetto al passato (Ferrera 1984, Silei 2004a):

1. Il sistema previdenziale prevedeva la copertura per sei rischi principali (pensioni, malattia e maternità, infortuni e malattie professionali, disoccupazione, tubercolosi, assegni familiari): tali rischi erano coperti da schemi assicurativi, gestiti da una serie di enti collegati al settore occupazionale tra cui quelli creati dal regime fascista nel corso degli anni Trenta (Inps, Inail, Inam).

2. La sanità restava quasi esclusivamente in mano al settore privato ed era regolata dal sistema delle Casse mutue. Gli ospedali avevano la forma giuridica delle Istituzioni Pubbiche di Assistenza e Beneficienza, sotto il controllo dello Stato, ma con ampia autonomia organizzativa ed economica.

3. L’assistenza sociale era affidata, a livello nazionale, provinciale e comunale, in parte al settore pubblico e in parte al settore privato, soprattutto alle istituzioni legate alla Chiesa cattolica.

Assistenza, previdenza e sanità restavano fortemente separate ed inoltre si accentuavano tendenze a frammentare soggetti, politiche e prestazioni.

Il Terzo settore, che sarà istituzionalizzato solo nei primi anni ’90, non era ancora presente, anche se era possibile rintracciare una cooperazione primo- moderna e i germi iniziali dell’associazionismo sociale. Come ha sostenuto Prandini (2010a), mentre le élite culturali non vedevano l’auto-organizzarsi della società civile, la politica e la religione ne fecero una propria propaggine, tanto che i gruppi dirigenti di quelle che oggi si chiamerebbero organizzazioni di terzo settore spesso venivano dalle fila dei partiti, dei sindacati o dalle esperienze ecclesiastiche. Questi gruppi dirigenti erano in «contiguità culturale e [in] stretti rapporti sociali con le élite socio-politiche»: c’era la volontà esplicita delle forze politico-culturali di far gemmare al proprio interno «movimenti e forme cooperative isomorfiche» (Ibidem, 96).

Morfostasi: dal secondo dopoguerra agli anni Cinquanta PES

Proprietà emergenti di secondo ordine: da compatibilità necessarie a incompatibilità necessarie

Logica situazionale: da protezione a compromesso PEC

Non è presente una chiara e rilevante riflessione culturale

Tabella 11 – Morfostasi (1945 – 1962)

A livello strutturale, il periodo che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni Cinquanta può essere descritto come morfostatico. Gli anni dal 1945 al 1947 si caratterizzarono per la presenza di governi di unità nazionale, sotto la guida, prima, dell’azionista Ferruccio Parri e, poi, del democristiano Alcide De Gasperi. Secondo alcuni storici del welfare, in particolare Ignazio Masulli, quelli furono gli anni delle grandi attese riformistiche, della forza del movimento contadino nelle campagne meridionali, dell’unità del blocco Pci-Psi- CGIL. Attese che vissero il loro momento propositivo nella Commissione D’Aragona 14 , istituita nel 1947 e fortemente influenzata dal dibattito internazionale ed in particolar modo dal Piano Beveridge. La Commissione, che aveva il compito di studiare la riforma della previdenza sociale, assunse a propria guida un “criterio generale di sicurezza sociale da garantire a tutta la popolazione”, con lo scopo di riconoscere ampi diritti di cittadinanza sociale, di superare il corporativismo e l’assistenzialismo di stampo fascista, di creare un sistema universalista su base contributiva15. La previdenza sociale era intesa come lotta contro la povertà, con l’obiettivo della liberazione dal bisogno. Buona parte della storiografia parla degli esiti della Commissione D’Aragona come di una “occasione mancata” per la modernizzazione del welfare italiano. Analizziamone i motivi. Un primo limite è fatto risalire, da Ferrera e da Girotti, alla mancanza di tempo e di mezzi della commissione che comportò a una vaghezza di fondo nelle

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14 Ludovico D’Aragona (1876-1961) fu esponente di spicco del movimento socialista prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, segretario generale della Cgdl, e due volte ministro della Repubblica. Milanese di origine, più volte consigliere comunale e provinciale, fu membro di svariati consigli d'amministrazione (INPS, INAIL, Cassa maternità, Commissione per la introduzione della assicurazione malattia, Ufficio internazionale del lavoro).

15 Parallela alla Commissione D’Aragona, lavorava dal 1945 la “Commissione per lo studio dei problemi del lavoro”, presieduta da Antonio Pesenti, che, nell’ambito dei lavori preparatori al testo costituzionale, si occupò delle questioni della protezione sociale.

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soluzione proposte. Altra tegola ad una via italiana all’universalismo fu la situazione economico-sociale post bellica: i governi centristi si focalizzarono più sulla stabilità economica che su una riforma ad alto impatto di spesa. A queste considerazioni generalmente condivise, si aggiunge la disamina dei rapporti di scambio e di potere dell’epoca: il gruppi corporativo più forte dopo il 1948 – quello cattolico – costruì una politica sociale clientelare per contenere le eterogeneità del suo blocco sociale di riferimento (imprenditori, coltivatori diretti, artigiani, operai, sindacati, anziani, assistenti sociali, etc.).

Secondo gli storici di impronta marxista, come il già citato Masulli, alle 88 mozioni della Commissione si contrapposero i ceti economici dominanti, la Banca d’Italia, la Confindustria e quegli economisti liberali con ruoli di governo, come Einaudi e Corbino, che: 1) rifiutavano la partecipazione in economia dello Stato; 2) volevano aumentare l’influenza dei gruppi capitalistici; 3) favorivano i ceti medi (impiegati, professionisti, commerciati, artigiani, contadini). Secondo tale critica, il loro obiettivo ultimo era il consolidamento e l’estensione del consenso di quegli strati sociali verso la Democrazia Cristiana e i partiti ad essa collegati. Per questi storici, la «ricostruzione in Italia prese, quindi, fin dall’inizio, un andamento decisamente liberista e contro corrente rispetto al modello keynesiano che ispirava la ricostruzione di altri paesi» (Masulli 2003, 77). Per un’altra parte della storiografia del welfare italiana, di impostazione socialdemocratica, dai lavori della Commissione D’Aragona nacque, come ha sottolineato Silei, un “dibattito infinito”, che seppure non portò mai ad una riforma complessiva del sistema, contribuì comunque ad estendere la protezione sociale e la sanità a diverse categorie di lavoratori. Inoltre, gli storici come Silei e Girotti annotano come le proposte universaliste della Commissione non potessero attecchire perché:

1) l’Italia, diversamente dalla Gran Bretagna o dalla Svezia, era ancora un paese a forte vocazione agricola, con un numero di lavoratori dipendenti meno accentuato e un’economia non ancora fordista.

2) Il sistema politico, in particolar modo il partito di maggioranza relativa, la Dc, aveva tutto l’interesse a mantenere lo status quo, rinsaldando la propria base corporativa e non producendo politiche redistributive verticali (dai ceti più

abbienti a quelli più poveri): consolidare la classe media e gestire il consenso tramite logiche spartitorie erano gli scopi della dirigenza politica di allora. 3) I partiti della sinistra, nel secondo dopo guerra, non avevano un’attenzione

elevata per i temi dello Stato sociale, che anzi erano demandati al sindacato. La stessa CGIL unitaria, però, non vedeva di buon occhio lo sviluppo di un welfare universalistico: con le coperture assicurative, previdenziale e assistenziali estese anche ai commercianti e agli artigiani sarebbe uscita indebolita la classe operaia.

A partire dal IV governo De Gasperi venne sancita la rottura tra le forze che fecero la resistenza, e si affermò una stagione politica i cui governi furono denominati “centristi” (1947-1962). A tali governi partecipavano la Democrazia Cristiana, i liberali, i repubblicani e i socialisti di Saragat. L’egemonia democristiana si basava su un blocco sociale eterogeneo: il capitalismo industriale e finanziario italiano, una larga parte dei ceti medi e un’estesa rappresentanza delle classi lavoratrici. Il “particolarsimo clientelare” (Paci 1984) era lo strumento più semplice per amalgamare gli interessi di questo pluri-verso. I governi centristi garantirono all’Italia un grande sviluppo economico, sulla scia della congiuntura internazionale e soprattutto grazie al Piano Marshall. Il Piano prevedeva aiuti in natura: ogni paese doveva preparare piani di sviluppo quadriennali, da cui ottenere liste di beni che gli Stati Uniti reperivano e inviavano ai governi coinvolti. Questi li rivendevano sui mercati interni, ritiravano quindi moneta che poteva essere spesa per i progetti concordati con la European Cooperation Agency. Fu in questo modo che l’Italia investì «in campo infrastrutturale e delle industrie di base allo scopo di modernizzare il paese e avviarlo su produzioni di massa nei settori che già avevano avuto tanto successo negli Stati Uniti: acciaio, automobili, termoelettricità, petrolio, chimica» (Zamagni 2007, 120). E i risultati furono lusinghieri: fu il periodo del “miracolo economico”. Gli anni trainanti, quelli dal 1959 al 1963, videro l’Italia crescere come la Germania Ovest: più 6% il prodotto interno lordo, più 11% le esportazioni, una crescita del settore industriale del 9%. La causa primaria di questo “balzo in avanti” è da attribuire, secondo gli storici dell’economia, all’«americanizzazione» dell’Italia: «il più grande disincentivo a realizzare prima questa transizione era dato dalla ristrettezza

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dei mercati italiani, ed europei in generale, ristrettezza che il grande processo di espansione europea innescato dal piano Marshall e dalle tappe dell’integrazione economica avevano non solo allentato, ma del tutto rovesciato» (Ibidem, 128).

I governi centristi si limitarono, nel campo sociale, ad alcuni ritocchi rispetto all’ordine liberale e fascista ereditato dal passato. La riforma più importante di quegli anni fu sicuramente legata alla previdenza sociale, ossia l’introduzione progressiva di un finanziamento a ripartizione accanto a quello classico a capitalizzazione. Come ha sottolineato Silei, tale scelta era destinata a modificare in profondità l’approccio alle politiche sociali: «il bilancio a capitalizzazione va d’accordo con un carattere previdenziale o addirittura assicurativo delle prestazioni: ma il bilancio a ripartizione va d’accordo con un carattere assistenziale, poiché la prestazione previdenziale è misurata contabilmente secondo i requisiti contributivi (tempo durante il quale sono stati versati i contributi, loro entità) mentre la prestazione assistenziale è misurata secondo il bisogno» (Silei 2004b, 132). Con Ferrera, possiamo affermare che nonostante l’esiguità delle riforme, fu proprio l’introduzione dei minimi nella riforma pensionistica a orientare il sistema italiano verso la nozione di sicurezza sociale. L’azione fu comunque frammentata e disorganica, includendo via via sempre più gruppi e categorie nella protezione sociale: i coltivatori diretti (1957), i pescatori (1958), gli artigiani (1959), ed infine i commercianti (1969)16.

In campo sanitario l’attività fu ancora più complessa: il “sogno” di una riforma universalistica si infranse soprattutto per l’impatto che avrebbe avuto in termini finanziari. Solo nel 1958 venne istituito un apposito Ministero della Sanità, la cui competenza sino ad allora era rimasta, come in epoca liberale e fascista, sotto il Ministero dell’Interno. Eppure la legislazione e l’impianto complessivo della struttura sanitaria, imperniato su una galassia di mutue, non cambiarono rispetto al passato. Paradigmatico fu il modo con cui si ottenne la riforma del 1958: «Le organizzazioni di rappresentanza dei medici, che in passato si erano fortemente

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16 Masulli elenca le gestioni autonome in campo pensionistico al 1966: i lavoratori del mare, i dipendenti dei servizi del trasporto, delle esattorie, dei servizi telefonici, delle aziende elettriche, delle aziende del gas, dello spettacolo, gli impiegati agricoli, gli agenti e rappresentanti del commercio, i giornalisti, i coltivatori diretti, i mezzadri e i coloni, i pescatori, gli artigiani, le ostetriche, i dottori commercialisti, i ragionieri e i periti commerciali, gli avvocati e i procuratori legali, le casalinghe, i commercianti (Masulli 2003, 154-155).

opposte a qualsiasi tentativo di riforma, dopo aver ottenuto nel 1955 una serie di importanti concessioni in termini economici, normativi e di partecipazione diretta alla gestione del sistema, finirono con l’accettare i cambiamenti» (Silei 2004b, 139). Il paradigma dello scambio di opportunità era, sin dagli inizi, uno dei fenomeni portanti delle riforme.

Dal punto di vista quantitativo, fu proprio durante la stagione dei governi centristi che la spesa per la sicurezza sociale salì ad un livello comparabile agli altri paesi europei (si veda tabella 12). Anche sul versante qualitativo, la spesa italiana per la sicurezza sociale crebbe negli stessi settori delle nazioni guida continentali: molto per i segmenti vecchiaia, malattia e maternità, poco per il comparto sanità e assistenza.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, prevalsero anche all’interno della Dc e del governo le componenti più interventiste e sociali che vedevano nella politica di programmazione e di intervento dello Stato nell’economia il motore per combattere la disoccupazione e la miseria. Punto fondante di questo percorso fu lo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955- 1964, più conosciuto come Piano Vanoni. Come già per la linea liberista dei governi degasperiani, anche per il nuovo corso, che avvicinerà negli anni Sessanta democristiani e socialisti, il fare politica sociale passava attraverso politiche economiche. Come ha sostenuto Ranci: «In questa fase si ritiene, sostanzialmente, che i problemi sociali dell’Italia non siano altro che l’effetto di un ritardo storico e sociale e che la questione sociale troverà soluzione attraverso la modernizzazione economica e la democratizzazione del paese» (Ranci 2004, 13). Nei primi decenni pos-bellici si erano privilegiate le scelte di politica economica rispetto a quelle di welfare.

Anno Francia Germania Gran Bretagna Italia Svezia 1951 11,6 13,3 8,5 7,8 8,6 1953 12,4 14,4 8,9 10,0 9,7 1955 12,9 13,8 9,1 10,2 10,8 1957 13,3 15,6 9,3 10,8 11,5 1958 13,2 16,6 10,2 11,9 12,1 1959 13,3 16,1 10,4 12,3 12,2 1960 13,2 15,4 10,4 12,0 12,2

Tabella 12 – Spese per la sicurezza sociale in percentuale del Pil (1951-1960) Fonte: Silei (2004a)

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A livello culturale, negli anni Cinquanta non è ancora sviluppato un pensiero sociale italiano nelle università o nelle scuole di istruzione professionale. Anche a livello politico non è presente una chiara e rilevante riflessione. «Allo scarso interesse della comunità scientifica si accompagna un immobilismo generalizzato del dibattito pubblico e delle policy» (Ibidem). Eppure durante le prime legislature della Repubblica si erano confrontate due idee molto diverse: una socialdemocratica e una cattolica. Il luogo di competizione era la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria (Camera dei deputati 1953, Braghin 1978). La prima linea era impersonificata da Ezio Vigorelli, milanese, presidente dell’Anea (Associazione Nazionale Enti di Assistenza), futuro presidente della Commissione ed autore del volume L’offensiva contro la miseria. Idee ed esperienze per un piano di sicurezza sociale scritto nel 1948. La seconda aveva il suo difensore in Ludovico Montini, fratello maggiore del cardinale Giovanbattista Montini, presidente dell’AAI (Amministrazione Aiuti Internazionali). La prima impostazione era di stampo beveridgiano: sottolineava l’urgenza di intervenire nella giungla assistenziale italiana e promuoveva la costituzione di un Ministero della Sicurezza sociale che integrasse assistenza e previdenza. All’epoca, in Italia la responsabilità primaria dell’assistenza ricadeva sul Ministero degli Interni, in un’ottica di difesa poliziesca dell’ordine. Il progetto di Vigorelli «prevedeva che il nuovo ministero avesse come emanazione in ogni provincia un ufficio di Assistenza sociale, che a sua volta doveva trasmettere le direttive ministeriali agli Eca, i quali assumevano il ruolo di organi locali del ministero della Assistenza. In pratica veniva disegnato un sistema organizzativo a tre livelli nel quale gli Eca vedevano crescere il loro potere, diventando il vero braccio dello Stato in campo assistenziale» (Fiocco 2003, 2). La seconda direttiva tendeva a valorizzare, in chiave sussidiaria, la storia italiana fatta da innumerevoli interventi caritativi della Chiesa. Per Montini l’Italia non doveva proporsi le mete del Piano Beveridge, piuttosto avrebbe dovuto aiutare gli enti di assistenza, rispettando la libertà di organizzazione presente nella società civile. «Vigorelli auspicava un intervento diretto dello Stato in campo assistenziale e guardava al modello delle socialdemocrazie europee; Montini difendeva il ruolo millenario della Chiesa e

sosteneva che l’Italia dovesse conservare le sue specificità senza rincorrere esempi stranieri. Il confronto tra queste prospettive sarebbe proseguito in seno alla Commissione d’inchiesta sulla miseria, dove i due avrebbero ricoperto le cariche rispettivamente di presidente e vicepresidente» (Fiocco 2003, 3). Una terza posizione era scaturita in seno al sindacato, dopo il Congresso nazionale della CGIL del 1949. Si trattava del Piano del Lavoro: esso, più che delineare riforme di struttura, impostava politiche keynesiane (la nazionalizzazione dell’industria elettrica, l’istituzione di un ente di bonifica per le trasformazioni agrarie, la costituzione di un ente nazionale per l’edilizia popolare, la realizzazione di opere pubbliche); più che concentrarsi sulle tematiche assistenziali e previdenziali, riproponeva l’idea di una ripartenza economica che avrebbe permesso di risolvere i problemi sociali.

Il primo periodo analizzato, che va dal secondo dopo guerra a tutti gli anni Cinquanta, è quindi morfostatico: le relazioni tra le strutture sistemiche al tempo T1 sono interne e necessarie, le istituzioni si rafforzano e si richiamano reciprocamente, tutti hanno qualcosa da perdere dal disgregamento, mentre i cambiamenti che potrebbero portare benefici sono poco visibili. In particolare, lo Stato e la Chiesa cattolica rappresentano sia l’ambiente rilevante sia i maggiori attori del sistema di politica sociale: la dinamica dei rapporti è essenzialmente di reciproca solidarietà. Lo Stato, costruito e governato dai democristiani, è sostenuto dalle attività caritative della Chiesa, e basa una buona parte della sua legittimazione verso l’esterno sull’opera dei religiosi, in particolare dopo il disonore della Seconda Guerra Mondiale e la perdita di credibilità dovuta al fascismo. Inoltre, la stessa attività politica del principale partito di maggioranza si fonda sull’organizzazione ecclesiale, specialmente sui Comitati Civici improntati sull’Azione Cattolica. La stessa Chiesa cattolica trova un argine nella lotta contro l’ateismo comunista nell’unità delle forze di governo, che a loro volta legittimano l’opera della Chiesa concedendole un’ampia possibilità di azione nel campo assistenziale, sanitario e scolastico. A ciò si deve aggiungere un’importante variabile ambientale: l’Italia non è il tipico caso di legami sistemici di stampo fordista. Un’economia fordista matura ha bisogno di relazioni industriali

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istituzionalizzate e di uno Stato che prevenga i conflitti tramite le politiche sociali. Ciò avveniva in altri paesi europei, come la Gran Bretagna, ma non in Italia. Questo spiega anche il fatto che ci sia discrasia temporale tra il modello italiano di politiche sociali e quelli liberale inglese o corporativo tedesco o socialdemocratico svedese. Il cosiddetto Trentennio Glorioso dello Stato sociale (1945-1975) è vissuto in Italia solo per gli ultimi dieci anni: il nostro paese, infatti, ha avuto uno sviluppo tardivo nel campo economico e quindi anche nelle politiche sociali, imperniato più sul ruolo concessorio dello Stato verso la Chiesa, che sulla relazione necessitante tra Stato e mercato (modello universalista) o tra mercato e Stato (modello occupazionale). Questa relazione interna e necessaria tra Stato e Chiesa crea una logica situazionale della protezione: le posizioni, i ruoli, le istituzioni che danno vita a situazioni categoriali e particolaristiche riproducono il sistema associando premi al mantenimento dello status quo e sanzioni al mutamento.

Figura 8 – Sequenza morfostatica (1945-1962)

Al tempo T1 la morfostasi ingenerata da queste relazioni posiziona alcuni gruppi corporativi in una situazione favorevole: i medici, gli industriali, i coltivatori diretti sono alcuni degli esempi di gruppi organizzati di interessi

(SS) Stato e Chiesa: sistema corporativo (SC) Spinta europea all’universalismo T1

IS) Riproduzione del sistema: medici, industriali, dipendenti pubblici, coltivatori diretti…

S-C) Senza sviluppo

T2 T3

Re-inclusione dei gruppi di interesse nelle dinamiche necessarie di struttura e cultura (fronte mutualistico)

T4 Compromesso Protezione

materiali che riescono a sfruttare le opportunità in cui li pone la relazione necessaria tra Stato e Chiesa. La loro interazione con il sistema politico o