LA MORFOGENESI DELLE POLITICHE SOCIALI E IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NELL’ITALIA DEL SECONDO DOPO GUERRA
2.6. La questione generazionale, le partnership pubblico-privato e l’impresa sociale.
La trattazione riguardante gli ultimi dieci anni sarà diversa rispetto a quelle redatte precedentemente. Non è, infatti, ancora possibile capire quale strada prenderà il cambiamento sociale: ci sono segnali di morfogenesi e di morfostasi, sia dal lato strutturale che da quello culturale. Il “decennio berlusconiano” (2001- 2011) non è stato sicuramente caratterizzato per l’attenzione alle tematiche del welfare. L’ottica principale è stata il contenimento della spesa, senza un disegno complessivo sulle politiche sociali. I vari Libri bianchi (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 2003, 2009), così come i vari Documenti di programmazione economica sono rimaste enunciazioni discorsive, a cui è mancata la parte applicativa. I riferimenti culturali alla centralità della famiglia, al principio di sussidiarietà, all’auto-organizzazione della società e del mercato sono risultati lettera morta. Infatti, da un punto di vista esclusivamente statale il decennio non può che essere descritto come morfostatico. Sennonché, alcuni fattori esterni ed alcuni interni stanno rivoluzionando lo scenario: il fallimento della riforma del 2000, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, i sempre più stringenti patti di stabilità, la possibilità per il Terzo settore di diventare impresa sociale, la divaricazione tra Nord e Sud Italia, le questioni sociali (bio-politiche, generazionali e demografiche) hanno fatto crescere negli osservatori l’idea di una svolta morfogenetica seconda la logica delle opportunità. Alla fine di questo decennio:
1. Nel sistema previdenziale è stato completato il passaggio al sistema contributivo, garantendo contenimenti di spesa sul sistema pensionistico pubblico e uno sviluppo (incentivato) della previdenza privata , inoltre si è
innalzata nuovamente l’età pensionistica e si sono resi più omogenei i trattamenti categoriali diversificati.
2. L’assistenza si è sempre più localizzata a livello micro, con una vicinanza stringente tra amministrazioni comunali ed enti del Terzo settore: il principio di sussidiarietà orizzontale ha assunto via via un’importanza maggiore ed è stato attuato nella pratica, secondo modelli territoriali differenziati.
3. La sanità ha visto svilupparsi, in un quadro fortemente eterogeneo, un “federalismo regionale” che tende ad accentuare l’importanza della privatizzazione del rischio finanziario dell’assistenza sanitaria e la libertà di scelta degli utenti-consumatori.
Se il comparto previdenziale e quello sanitario hanno trovato una loro forma regolativa (un mix di pubblico e privato, di stampo nazionale il primo, in un mix di statale e regionale il secondo), ciò non è ancora avvenuto per il settore socio- assistenziale. Anzi esso sembra essere sempre meno ancorato a politiche nazionali e sempre più “praticato” a livello locale. Il fallimento del tentativo riformistico della Commissione Onofri, così come della legge 328 sembrano indicare questo: il coinvolgimento di livelli di governo (centrale, regionale e locale) portatori di interessi e visioni differenti, l’eterogeneità esistente, l’esperienza passata dicono di un sistema difficilmente regolabile dal centro.
Dal punto di vista strutturale, l’ultimo decennio ha visto avvicendarsi alla guida del Paese, in tre legislature, cinque governi (Berlusconi II, III e IV, Prodi II, Monti): tre di centro-destra, uno di centro-sinistra e uno tecnico. A parte l’attuale, da troppo poco tempo in carica, nessuno di questi sarà ricordato in futuro come un governo riformatore delle politiche sociali. Il cambiamento più importante del decennio, dettato dai processi politici-amministrativi, è stata la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Con la Riforma Biagi (l.30/2003) l’intenzione era quella di aumentare in tempi brevi il numero delle persone occupate regolarmente anche in continuità con la riforma Treu degli anni Novanta (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 2001): la moltiplicazione dei contratti di lavoro e il nuovo ruolo dei servizi di collocamento dovevano portare alla luce sacche di lavoro giovanile, femminile e anziano sino ad allora rimaste nel “nero”. La situazione attuale dice
! 147
qualcosa di diverso: si è strutturato in Italia un sistema duale nel mercato del lavoro. C’è una categoria, i lavoratori deboli (per lo più i giovani), che sperimentano la flessibilità del mercato, ossia possono essere facilmente assunti e licenziati, e c’è un’altra categoria, i lavoratori forti (per lo più gli adulti), che hanno buone forme di tutela nel lavoro e nell’uscita dal lavoro. A questo si deve aggiungere un trattamento economico (e in futuro pensionistico) impari: rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato, quelli a termine hanno un reddito che è circa tre quarti e il reddito dei collaboratori a progetto scende addirittura sotto i due terzi. Sempre su questa frattura generazionale insiste un altro problema connesso con le riforme pensionistiche degli anni ’90: il grado di copertura della pensione obbligatoria rispetto al reddito del lavoro è in netta diminuzione (tabella 20).
2008 2020 2030 2040 2050 2060
Pensione obbligatoria 78,4 72,3 67,8 63,4 62,4 61,4
Pensione obbligatoria + Pensione complementare
78,4 76,5 75,6 74,7 76,5 75,3
Tabella 20 – Tasso di sostituzione lordo (%) previsto per un dipendente privato che si ritira a 65 anni con 40 anni di contribuzione
Fonte: MEF (2010, 161-162)
Le giovani generazioni versano più contributi previdenziali rispetto ai loro padri (dopo la Riforma Dini) e percepiranno (in futuro) prestazioni pensionistiche inferiori. Dal punto vista economico, pensionistico e contrattualistico il sistema italiano scopre nel primo decennio del nuovo secolo una nuova frattura: tra padri e figli. Oltre le dualità Nord-Sud, oltre il discrimine tra garantiti-esclusi e tra contribuenti-evasori, oltre le disparità familiari e lavorative donna-uomo, nasce la questione generazionale. Altra tendenza da sottolineare per capire i meccanismi di regolazione del welfare è la risposta data alla discesa del tasso di sostituzione lordo. Due potevano essere le vie: puntare sulla previdenza privata complementare o aumentare la contribuzione alla previdenza pubblica. La Riforma Maroni-Tremonti (l. 243/2001) ha optato per la prima strada tramite la formula del “silenzio assenso” per il trasferimento del Tfr maturato alle forme pensionistiche complementari e con le agevolazioni fiscali per favorire il loro sviluppo. La previdenza italiana continua, quindi, sulla strada dell’intreccio
pubblico-privato: una pensione pubblica nazionale almeno minima per tutti e una pensione aggiuntiva privata per chi può permettersi di investire una parte delle proprie entrate in fondi complementari41. A mio parere, il sistema multipilastro italiano sembra avviarsi verso una lunga transizione, il cui esito potrebbe essere un universalismo pensionistico di base e due pilastri privati forti. Nel lungo periodo è impensabile continuare a versare oltre il 30% del proprio stipendio in contributi previdenziali pubblici: il dogma della libertà di scelta, la necessità di rendere competitivo il mercato del lavoro e la questione generazionale agiranno come motivazioni dei futuri aggiustamenti.
Il 2001 segna anche la fine delle riforme organiche del Sistema Sanitario Nazionale: l’art. 117 della Riforma Costituzionale pone la tutela della salute come materia concorrente tra Stato e Regioni. Si riconosce, così, una potestà legislativa e regolamentare regionale, all’interno di un quadro normativo statale di principi fondamentali che stabiliscano standard e livelli omogenei di prestazioni e servizi. Il processo di regionalizzazione del Ssn è continuato lungo tutto il decennio secondo una forma particolare: lo Stato è riuscito, con il sotto-finanziamento ex ante del Ssn e le integrazione ex post, a ricavarsi un forte ruolo ed un ingente potere “della borsa” «riproponendo la strategia di “federalismo asimmetrico” praticata nei primi anni ‘80» (Taroni 2011, 57). Si assiste, quindi ad un doppio binario: il potere della borsa è rimasto al governo centrale e la potestà legislativa concorrente si è sempre più estesa a favore delle Regioni. L’unica istituzione di compensazione è rimasta la Conferenza Stato-Regioni che utilizza la prassi della negoziazione fra le parti, determinando «relazioni di natura contrattuale fra i livelli di governo che delineano una sorta di “federalismo degli esecutivi”» (Ibidem, 65), con tratti di opacità per una democrazia rappresentativa. I tentativi di riforma del sistema sanitario italiano del decennio, tutti falliti, hanno ruotato attorno alla costruzione di un modello istituzionale multipilastro: accanto al sistema pubblico che avrebbe dovuto perdere alcune funzioni di base (per esempio i settori a basso costo di ingresso come l’assistenza specialistica ambulatoriale) si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
41 Altri temi importanti per il sistema pensionistico sarebbero da trattare per le loro implicazioni sociali: i coefficienti di trasformazione, l’innalzamento dell’età pensionabile, la tenuta dei conti del sistema contributivo nel lungo periodo a fronte dei cambiamenti demografici ed economici. Qui si voleva solo mettere in luce due tendenze del sistema: il suo passaggio verso una forma regolativa mista e l’emergere della questione generazionale.
! 149
sarebbero affiancati nuovi (in verità vecchi) soggetti come le mutue collettive e le assicurazioni individuali. La ri-definizione dei Lea avrebbe dovuto garantire la copertura minima universalmente riconosciuta ai cittadini dallo Stato, lasciando lo spazio per l’espansione del mercato e del Terzo settore. Questo processo riformatore non avvenne, anzi le nuove politiche sanitarie incentrate sui Piani regionali di rientro hanno concentrato ancora di più le relazioni pubblico (statale)- pubblico (regionale) sugli aspetti finanziari, rendendo ancora più evidente «il contrasto fra il centralismo della pratica e la retorica federalista della politica» (Ibidem, 66). Eppure a livello delle micro-pratiche territoriali, il tema delle mutue collettive sta riemergendo come forma innovativa di welfare aziendale, categoriale o di comunità. L’attuazione, più che l’idea, di un sistema sanitario multipilastro sarà una realtà nei prossimi anni, e potrebbe presentare notevoli diseguaglianze (aziendali, categoriali e territoriali), se non ci sarà una regolazione perequativa (che si può ipotizzare non solamente pubblica).
Nel campo socio-assistenziale, gli interventi politico-amministrativi sono stati di poco rilievo, parziali e di impronta non promozionale (il bonus bebè, la social card per gli anziani, i bonus energia, gas, etc.). Nel decennio trascorso l’élite di governo ha continuato a concentrare l’attenzione sul breve periodo. «L’assenza di un disegno di medio termine si è inscindibilmente intrecciata con la diffusione di quella che Bosi (2007) definisce la logica dei “piccoli +”: non definire priorità e disperdere i finanziamenti disponibili in tanti rivoli. Assegnare poche risorse a molte istanze permette a chi governa di affermare che si occupa di tanti problemi senza migliorarne veramente nessuno» (Gori e Madama 2007, 7). La focalizzazione sul breve periodo ha teso a privilegiare gli interventi di sostegno monetario, in particolare le agevolazioni fiscali, immediatamente tangibili anche come fattori di consenso. Si è così rinunciato a sviluppare servizi alla persona, operazione assai più lunga, articolata e incerta. Con questa impostazione la riforma del 2000 è sostanzialmente fallita: fattori endogeni ed esogeni ne hanno segnato l’inefficacia. Da un punto di vista esterno, il ciclo politico centrale e regionale non ha considerato la spesa assistenziale come una priorità nazionale; la crisi economica ha drenato risorse al comparto favorendo le misure di sostegno all’occupazione; il patto di stabilità interno è stato molto vincolante per le
amministrazioni locali, ingenerando di fatto il blocco del turn over dei dipendenti pubblici. Da un punto di vista endogeno, un «elemento importante che emerge dall’analisi dell’applicazione della riforma del 2000, riguarda la discrepanza fra le tecnologie della governance e la complessità del sistema, riconducibile alla presenza di attori pubblici e privati non legati da relazioni di tipo gerarchico. Concetti come programmazione e valutazione sono stati introdotti nel governo delle politiche sociali parallelamente al consolidamento del welfare state. La cultura del governo che ha accompagnato tale evoluzione è stata influenzata dai processi gerarchici, dal paradigma razionalistico e, parallelamente, dalle dinamiche di negoziazione informale che caratterizzano la pubblica amministrazione» (Bertin e Fazzi 2010, 14).
Nome Fondo 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
Fondo per le politiche della famiglia
346,5 186,6 185,3 51,5 32,0 21,2 23,3
Fondo pari opportunità 64,4 30,0 3,3 17,2 10,5 11,6 12,8
Fondi politici giovanili 137,4 79,8 94,1 12,8 8,2 7,2 7,9
Fondo infanzia e adolescenza
43,9 43,9 40,0 39,2 40,0 40,0 40,0
Fondo per le politiche sociali 929,3 583,9 435,3 273,9 70,0 44,6 44,6
Fondo non autosufficienza 300,0 400,0 400,0 0,0 0,0 0,0 0,0
Fondo affitto 205,6 161,8 143,8 32,9 0,0 0,0 0,0
Fondo inclusione immigrati 100,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0
Fondo servizi infanzia 100,0 100,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0
Fondo servizio civile 299,6 171,4 170,3 110,9 68,8 76,3 83,8
TOTALE 2.526,7 1.757,3 1.472,0 538,3 229,4 200,8 212,3 Numero indice (2008=100) 100,0 69,6 58,3 21,3 9,1 7,9 8,4 Tabella 21 – Fondi statali di carattere sociale (Bilancio di previsione dello Stato - milioni di euro) - Aggiornamento Legge di stabilità 2012
Fonte: Nens.it !
Alla riforma delle politiche socio-assistenziali difetta, quindi, non solo una spesa per trasferimenti in cash dal livello centrale – realtà su cui tutti gli
! 151
osservatori concordano – ma soprattutto una razionalità nuova, capace di cogliere l’auto-organizzarsi della società e saperlo valorizzare in un’ottica unitaria, di equità ed efficienza. Gori (2010), seppur con una prospettiva di analisi diversa, coglie questo nodo parlando di una stagione incentrata sul «programmatore fiducioso»: introdotta una norma, l’attuazione verrà da sé. La stagione berlusconiana si conclude con il quasi azzeramento dei fondi nazionali per le politiche sociali (si veda tabella 21) e con la delega per la riforma dell’assistenza (Ddl 4566 “Riforma fiscale e assistenziale”), che ha come primo obiettivo quello di fare cassa, originando risparmi sul fronte assistenziale per 4 miliardi entro il 2012 sino ad arrivare a 20 miliardi di euro nel 2014.
In questo quadro improntato al solo contenimento delle spese, il Terzo settore e le imprese di mercato hanno, invece, operato in controtendenza. Sempre di più, queste realtà hanno assunto e stanno assumendo un ruolo da protagoniste nel sistema di welfare. I temi del decennio, infatti, hanno visto crescere una nuova imprenditorialità sociale attenta ai bisogni del territorio. La conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, i servizi per l’infanzia, il welfare aziendale, il passaggio da servizi per il disagio a servizi di promozione e sostegno all’agio sono stati i campi di sperimentazione in cui Terzo settore ed imprese for profit hanno distinto la loro azione: un’azione privata, ma sociale, sussidiaria e a supporto delle famiglie. Tali processi innovativi sono maturati anche dal punto di vista quantitativo: tutte le Regioni presentano un incremento tra il 10 e il 50% delle forme di impresa sociale, in particolar modo al Sud (Istat 2007b, Montemurro 2010). Ancora oggi però circa il 25% delle risorse per il welfare locale viene impiegate dai Comuni attraverso affidamenti diretti a cooperative sociali e ad associazioni, in assenza di gare pubbliche o di procedure negoziate o di coprogettazione. Come hanno sottolineato Fazzi e Longhi (2009), in un sistema di Terzo settore in cui le risorse derivano per più del 50% da rapporti di lavoro con il pubblico, oggi la principale difficoltà riscontrata dai dirigenti del non profit è il reperimento economico dei mezzi di sostentamento delle imprese sociali. Il rischio per il Terzo settore è ancora una volta di rintanarsi in una logica isomorfica, da “cinghia di trasmissione”, nei confronti degli amministratori locali.
Nord e Sud del Paese, che rende possibile l’idea che in Italia esistano due sistemi di welfare separati (Ascoli 2011):
• Il «welfare del Nord» è simile al welfare continentale «categoriale- corporativo»: un importante settore di servizi, «cresciuto in modo non irrilevante negli ultimi trent’anni, con una qualità nettamente più elevata dei grandi sistemi universalistici costruiti nel periodo precedente (istruzione e sanità), con una tentata modernizzazione dei servizi socioassistenziali» (Ibidem), con burocrazie pubbliche e governi locali attrezzati ad affrontare le nuove sfide del decentramento, con un peso crescente del Terzo Settore, delle Fondazioni e del welfare aziendale e categoriale.
• Il «welfare del Sud» è un modello estremo del welfare «particolaristico- clientelare» mediterraneo, «basato essenzialmente sui trasferimenti monetari e sui sussidi», su una qualità decisamente più povera di istruzione e sanità, con scarsi servizi socioassistenziali (ancora di tipo tradizionale), «con “rendimenti” delle burocrazie pubbliche e dei governi locali del tutto inadeguati ad affrontare i nuovi profili di rischio sociale e contraddistinti da una forte pervasione clientelare e mafiosa» (Ibidem), con un’assai scarsa presenza del welfare aziendale e con un Terzo settore, seppur vitale, dotato di minori potenzialità.
Il dualismo del sistema italiano di welfare sembra quindi virare verso una frattura ancor più netta, proprio nel momento in cui le logiche federaliste ed economiche non aiutano la ricomposizione del quadro.
Dal punto di vista culturale, sono in atto alcune tendenze morfostatiche e alcune morfogenetiche. Le prime riconfermano la visione lib-lab rielaborata in Italia alla fine degli anni Novanta (Ascoli e Ranci 2003, Bifulco 2005, Ascoli 2011), le seconde cercano di avviare una morfogenesi culturale con la proposta del welfare societario (Donati 2006a e 2010a, Prandini 2007). Le prime hanno preso a riferimento, soprattutto, la riforma del welfare nazionale: si occupano principalmente della ripartizione della spesa e della riformulazione delle funzioni assistenziali nel campo pensionistico, sono molto attente alla dinamica dei rapporti Stato-Regioni e ripropongono alcune delle misure che la Commissione
! 153
Onofri aveva già sviluppato (reddito minimo d’inserimento, selettività delle prestazioni, passaggio dalla logica monetaria a quella dei servizi, etc.). Quando queste tendenze si occupano della componente territoriale delle politiche sociali (Monteleone 2007, Ferrera 2008, Pavolini 2008, Kazepov 2009) lo fanno comunque in un’ottica macro-sociale, dando molto importanza alla discrezionalità, all’incertezza e alla fluidità della sussidiarizzazione del welfare. Le seconde hanno trovato il loro campo di applicazione scientifico nella prospettiva meso e micro delle buone pratiche (Donati 2004, 2007; Donati e Prandini 2006, 2008, 2009; Martignani 2009): l’idea è quella di partire dalle esperienze significative (non solo per il sistema di welfare, ma soprattutto per gli stakeholder del servizio) per rigenerare le politiche sociali secondo un modello di welfare societario la cui chiave è il principio di sussidiarietà (Donati e Colozzi 2005) e si sono specializzate nelle nuove frontiere del welfare (conciliazione dei tempi lavoro-famiglia, servizi innovativi per la prima infanzia, voucher e buoni di servizio, lavoro sociale di rete, etc.).
L’analisi che qui tento di fare è una presentazione trasversale delle differenze tra i due approcci (che sono a loro volta molto differenziati internamente), seguendo alcuni concetti di base: la concezione di pubblico, privato e civile; la conseguente valorizzazione del Terzo settore; il portato della governance. Fattori che mostrano una certa sostanziale convergenza e alcune profonde divergenze. Una tradizione ha compiuto un lungo processo di ridefinizione, mixando logiche diverse vicine al marxismo e al liberalismo (lib-lab), approdando ad una lettura (di cittadinanza sociale) alquanto diversa da quella originaria (a forte impronta statalista), riconoscendo “sottovoce” che altre teorie (personaliste) erano più realiste, negando però ancora oggi la natura da cui scaturiscono queste ultime (ossia il loro carattere emergente). L’altra tradizione, risultata perdente negli anni Novanta, è riuscita (anche se solo in parte) ad uscire dal guscio culturale in cui era chiusa (fattore comunitarista), risultando meno fondata su una visione complessiva dei problemi (riforme nazionali) ma più legata alle esperienze generative (buone pratiche).
Il primo framework teorico parte dall’idea che, ancora oggi, ci sia una differenza morale tra pubblico e privato: al pubblico andrebbe riconosciuto un
regime di azione equo, visibile, universale, mentre al privato andrebbe associato il tema dell’esclusività e del particolarismo. Anche la rottura del binomio pubblico = statale, non ha scalfito questo giudizio: il pubblico non coincide più con lo statuto degli attori, ma è da ricercare come regime di azione. L’obiettivo è, allora, «spostare l’attenzione dagli attori alle interazioni, o meglio ai regimi di azione (Boltanski e Thévenot 1991), per vedere se e come questi ultimi e ciò che in essi si produce (concretamente, il disegno e l’implementazione delle politiche) acquistino un carattere pubblico» (Bifulco e De Leonardis 2005, 195). Quattro parole chiave definirebbero ciò che è pubblico:
• La messa in visibilità: alcune materie sociali e alcuni attori debbono uscire dal privato, diventare visibili; così «un regime di azione si qualifica come pubblico quando crea “orizzonti” di visibilità e occhiali per vedere» (Ibidem, 196). • La generalizzazione: un regime di azione è pubblico quando spinge gli attori a
confrontarsi su argomenti generalizzabili; nelle situazioni di disaccordo ciò è palese: gli attori devono rendere intelligibili le proprie pretese e utilizzare “grammatiche giustificative”.
• I beni in comune: i beni diventano pubblici o comuni quando escono dal regime di appropriazione e «sono definiti e riconosciuti come comuni a una collettività, relativi a interessi generali, e trattati, curati e fruiti in comune» (Ibidem, 199). Ciò che li definisce come comuni è innanzitutto una “consistenza cognitiva”, ossia il fatto di essere riconosciuti e definiti come tali, e in seconda battuta il fatto di diventare materia di regolazione.
• L’institution building: le grammatiche giustificative che rendono comuni i beni e pubblici gli attori sono «vocaboli autorizzati, regole, standard, norme sociali, dispositivi istituzionali codificati» (Ibidem, 200). Un regime di azione è, quindi, pubblico quando costruisce delle istituzioni.
Il secondo framework non condivide l’idea di uno statuto pubblico superiore a quello privato, ma affiancandosi agli studi di Gunther Teubner (Teubner 2005, Prandini e Teubner 2011) sta promuovendo una revisione della concettualizzazione delle forme costituzionali. L’idea centrale è: il «processo di giuridificazione della società-mondo spinge verso la costituzionalizzazione dei sottosistemi sociali globali. Le “costituzioni civili” svolgono la funzione di
! 155
proteggere giuridicamente la policontesturalità della società responsabilizzando i sottosistemi rispetto alla produzione di esternalità negative» (Prandini 2005, 219). A fronte di un diritto welfarista in cui lo stato è responsabile della crescita del benessere e di un diritto liberale in cui all’inefficienza del diritto si risponde con la degiuridificazione, i Nostri propongono un “diritto riflessivo”. Come possono stare insieme sistemi eterarchici, politicontesturali e senza unità politica, come quelli attuali? La risposta sta nell’auto-costituzionalizzazione delle sfere civili: «i criteri costituzionali, le garanzie ultime dei regimi privati, non possono che