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TERTIUM DATUR: L’«OPINIONE»

2.1 Alla luce dei contest

Ad agitare i sogni di società dei “re costituenti” interveniva un terzo soggetto, non solo ben documentato dietro le quinte della parola sovrana, ma affiorante anche tra le pieghe della sua espressione ufficiale. Ricordiamo l’incipit del primo proclama che annuncia la concessione di una costituzione, il proclama napoletano: «Avendo inteso il voto generale de’ Nostri amatissimi Sudditi di avere delle guarentigie, e delle istituzioni conformi all’attuale incivilimento, dichiariamo di essere Nostra Volontà di condiscendere a’ desiderii manifestatici, concedendo una Costituzione». Il discorso monarchico descrive un processo aconflittuale di sollecitudine paterna, ma, una volta che si contestualizzi il testo nella situazione politica del regno, esso narra una storia ben diversa. Anzitutto, all’atto della pubblicazione del proclama intere province, come la Sicilia e il Cilento, erano interessate da insurrezioni armate. Ma anche le altre modalità in cui furono espresse le rivendicazioni di riforma o di costituzione da parte liberale erano costituite da mezzi formalmente illegali: petizioni e manifestazioni.

Petizioni firmate collettivamente e indirizzate ai sovrani, da un lato, e, dall’altro, sfilate che occupavano lo spazio pubblico dietro slogan, canti, cartelli inneggianti alle stesse rivendicazioni sono modalità di espressione del dissenso talmente distanti dai ristretti canali previsti dalle strutture delle monarchie ancien régime che sul volgere del 1847 la pubblicistica ravvisava comunemente nella loro comparsa la prova della formazione e della forza di un soggetto politico che non poteva più essere identificato con le tradizionali e rassicuranti coordinate di un popolo di sudditi. Petizioni e manifestazioni, al contrario, apparivano come l’espressione di un soggetto consapevole dei propri obiettivi, capace di scardinare le coordinate tradizionali della relazione pubblica e di proporsi come nuova istanza di legittimazione della stessa monarchia, a costo di sfidarne gli interdetti legali. A questo soggetto ci si riferiva ormai comunemente con il nome di opinione113.

113 Non intendo usare qui il termine come una categoria storiografica. Condivido il giudizio che apre qualsiasi trattazione sul

tema: non esiste una definizione univoca del concetto, che, come categoria storiografica, rimane opaco e difficilmente verificabile. Diversamente accade se rendiamo oggetto di ricerca storica il concetto di “opinione pubblica”, ricercando la genesi dell’espressione, il ventaglio delle sue definizioni, gli usi politici e le pratiche che ad esso si sono consapevolmente riferite. Su questo versante si muove il presente paragrafo. L’opera di riferimento resta ancora il classico J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2005 [Frankfurt am Main 1962, 1990], sebbene appaia ormai smentito dalla

Evidentemente il discorso monarchico aveva iniziato da tempo a non detenere più l’assoluta giurisdizione sui propri confini. In questo senso è doppiamente interessante il passaggio citato del decreto napoletano. Il proclama riduceva a espressioni e rapporti tradizionali quella che in realtà fu una drammatica e patente sconfitta della linea politica borbonica. Ma, mentre il monarca continuava ad arrogare a sé indivisa la sovranità e la fonte del diritto, mentre continuava a rappresentarsi come motore immoto del potere e dell’ordinamento sociale per la Grazia di Dio, mentre continuava a parlare il linguaggio paternalistico dell’ancien régime – riferendosi agli amatissimi sudditi, ai loro desiderii e non ai loro diritti –, accettava però un termine: la necessità per la monarchia di corrispondere a quello che definiva l’attuale incivilimento.

La monarchia riconosceva dunque implicitamente l’esistenza di una civiltà, ovvero di un tempo del valore, capace di trascendere il tempo e i valori della propria stessa istituzione. Ma c’è di più, secondo me. La necessità di avere istituzioni conformi all’attuale incivilimento (come recita il testo firmato dal re dopo le lunghe consultazioni di cui si ricorderà) derivava direttamente da una petizione giunta a corte pochi giorni prima, redatta da Francesco Paolo Bozzelli e sottoscritta dai più noti esponenti del Comitato liberale della capitale. In tale petizione il futuro ministro dell’interno invocava dal re l’aggiornamento dell’esperienza costituzionale del 1820-’21 (un precedente che la corona potesse interpretare come precedente dinastico): «Fate dunque che i legittimi rappresentanti [della nazione]

ritornino a circondare il vostro trono delle sospese istituzioni e statuiscano, d’accordo con la Maestà Vostra,

quelle modifiche che sono richieste dalla civiltà dei tempi e dalle mutate condizioni politiche dei due popoli [...]»114. Se il testo di Ferdinando II parafrasa davvero, come suggerisco, quello del liberale,

significa che il re accoglie nella propria parola una parola illegale, presentata al trono in assenza di qualsiasi diritto di petizione ma capace di giudicare – quantomeno al pari del monarca – quale sia la corrispondenza tra le istituzioni esistenti, le istituzioni passate e quella che viene definita, di sicuro da parte di Bozzelli con consapevole calco guizotiano, civiltà. Soggetti che non avevano diritto di espressione riuscivano a imporre le proprie parole al discorso monarchico: il segno di uno slittamento dei termini della legittimazione, se non tout court della sovranità, non poteva essere più evidente.

ricerca in svariati punti, tra i quali il principale mi pare il richiamo a un periodo “classico” nella storia dell’opinione pubblica, che tra fine Settecento e primi decenni dell’Ottocento sarebbe scaturita dal libero confronto razionale tra privati su temi d’interesse pubblico, in contrapposizione a un’età di progressiva decadenza, l’età della commercializzazione e della manipolazione delle opinioni di massa. Per critiche condivisibili al modello habermasiano cfr. G. Civile, Per una storia sociale dell’opinione pubblica: osservazioni a proposito della tarda età liberale, in «Quaderni storici», 2000, 2, pp. 469-504. Infinitamente meno raffinato e compiuto sotto il profilo filosofico-concettuale è il lavoro del giornalista americano di inizio Novecento Walter Lippmann, che tuttavia ha il pregio di ricondurre il processo di formazione delle identità collettive a fattori meno idealizzati della ragione intesa in senso habermasiano, aprendo in particolare al versante degli stereotipi e delle emozioni: cfr. W. Lippmann, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma 2004 [New York 1922]. Per un’agile introduzione ai principali orientamenti interpretativi cfr. V. Price, L’opinione pubblica, il Mulino, Bologna 2004 [Newbury Park-London- New Delhi 1992].

114 Il testo della petizione è citato in L. Parente, Francesco Paolo Bozzelli e il dibattito sulla costituzione napoletana del 1848, in