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Verso le inaugurazioni: il tema bellico

TERTIUM DATUR: L’«OPINIONE»

2.5 Verso le inaugurazioni: il tema bellico

Iniziando allora a osservare quale rapporto intercorse tra simili fantasie romantiche e il neonato istituto parlamentare, scopriremo che fin dalle cerimonie inaugurali dell’attività delle camere la debolezza della tradizione costituzionale indigena e le modalità costituenti orbitanti interamente intorno al discorso monarchico costrinsero a individuare nei tropi del discorso nazional-patriottico importanti fattori di legittimazione.

Il 6 giugno 1848 la «Gazzetta di Roma», organo ufficiale del governo pontificio, rifondato di recente sulle ceneri del vecchio «Diario di Roma», annunciava che il giorno precedente si era svolta la solenne inaugurazione delle camere legislative. Nel sottolineare che «jeri si adempieva un desiderio già universale», il giornale sentiva il bisogno di tornare su uno dei principali topoi che abbiamo visto utilizzati nel discorso monarchico sulle costituzioni. Ribadiva, infatti, la genealogia incredibile di un costituzionalismo antico e indigeno, ma con due vistose e significative varianti rispetto al modello che abbiamo analizzato:

oriented alla storia culturale del Risorgimento) e E. Di Ciommo, I confini dell’identità. Teorie e modelli di nazione in Italia, Laterza, Roma-Bari 2005 (per un’interpretazione che, anziché sulle narrative di comunità, individua nel tema costituzionale la lenta definizione di un’identità nazionale nel Risorgimento).

174 Cfr. C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in A. M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento cit., pp. 481-508. L’antesignano di questi approcci, tutt’ora ricco di stimoli, è B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, manifestolibri, Roma 1996 [London-New York 19912; prima ed. 1983].

[...] si può credere che gl’Italiani, che avevano ne’ secoli di mezzo inventata ed accolta qualche parte del sistema rappresentativo, l’avrebbero, se non erano i tristi tempi che sopravvennero della signoria dello straniero, portato a quella perfezione che veggiamo presso alcune altre nazioni. Ma la mano degli spagnuoli e de’ tedeschi pesò egualmente su tutti, e fece venir meno e intristire tutte le buone istituzioni. I parlamenti di Sicilia e di Sardegna rimasero lettera morta; i seggi di Napoli istituzione vanitosa e ridicola. Venezia costretta a guardarsi da’ tradimenti, e Genova e Lucca a farsi dimenticare, tramutarono in oligarchia ferma e sospettosa la libertà. I Medici e gli altri minori tirannelli ebbero licenza di mal fare, non ebbero né potestà, né voglia di far bene; né poteva l’Italia centrale, in tutta ruina, non partecipare dei vizi e della miseria di tutta la nazione. Abbiamo voluto dir ciò per rispondere a coloro che tenessero nuove affatto per l’Italia le forme costituzionali, e che apponessero alla natura degl’italiani que’ mali, che si debbono recare alla divisione ed all’oppressione175.

È l’Italia intera ormai, non più le dinastie, non più gli stati separati, il campo del più antico costituzionalismo. Inoltre, i parlamenti italiani si inaugurarono come parlamenti di guerra, nel pieno della prima fase del conflitto contro l’Austria. Per questo il riferimento al discorso nazional-patriottico non fu meno frequente all’atto delle loro inaugurazioni di quanto fosse stato – lo abbiamo visto – all’annuncio delle costituzioni.

I Parlamenti nazionali, che già sono aperti o che stanno per aprirsi, non hanno argomento che più debba loro stare a cuore se non quello di provvedere al modo di salvare la nostra indipendenza, e di cacciare lo straniero che ci rode le viscere. Ogni altro argomento deve essere posposto a questo, affinché non si debba fare a noi quel rimprovero che già fu fatto ai padri nostri i Romani – Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur.

Così il giornale lucchese «L’Impavido», pochi giorni prima dell’inaugurazione del parlamento toscano (che si aprì il 26 giugno). Secondo un foglio provinciale che guardava all’apertura dei parlamenti con attenzione non inferiore ai quotidiani delle capitali sedi delle assemblee, leve di soldati, volontari e armamenti dovevano essere gli argomenti in grado di far convergere l’azione delle diverse camere, separate dai confini esistenti ma accomunate (cioè rese tutte Parlamenti nazionali) dall’esperienza unificante della guerra in corso176.

Come nel riferimento alla secolare oppressione straniera che abbiamo letto poco fa nel giornale ufficiale di uno stato ambiguamente impegnato nella guerra (le truppe e i volontari guidati dal generale Giovanni Durando, partiti da Roma con l’incarico di tenere i confini dello stato, stavano in realtà combattendo sotto le insegne piemontesi con la silente acquiescenza dello stesso pontefice), anche l’articolo appena citato risale al giugno 1848. Ripeto: è ormai in corso la guerra nel Lombardo-Veneto, e potrebbe sembrare che sia la situazione di fatto a imporre un simile nesso tra le aule e il campo di

175 «Gazzetta di Roma», 6 giugno 1848. 176 «L’Impavido», 21 giugno 1848.

battaglia, di per sé alquanto estrinseco. Io credo però che la guerra abbia soltanto accentuato un tema la cui origine è più lontana, e la cui funzione è più profonda e necessaria.

L’eventualità della guerra ha costituito una componente retorica dominante nel discorso pubblico ben prima dello scoppio del conflitto effettivo. Per questo ha avuto effetti profondi sulle dinamiche politiche del biennio e sulle loro rappresentazioni. La centralità del tema bellico ha determinato non solo la possibilità che il presente fosse narrato per mezzo di mitografie esaltanti e coinvolgenti, ma è stata anche il costante termine di riferimento, implicito o esplicito, alla cui luce i contemporanei hanno vissuto e interpretato le contraddizioni del coevo processo di politisation.

Almeno a partire dalle manovre austriache su Ferrara nel luglio 1847, una compagine liberale che appariva ancora sufficientemente indifferenziata al suo interno, capace di conquistare la scena pubblica con vistose dimostrazioni di sfida alle polizie preunitarie oppure occupando spazi di propaganda durante le cerimonie ufficiali, prese ad associare strettamente il crescente mito popolare di Pio IX all’idea di una difesa militare in cui piccola patria e patria italiana venivano a sovrapporsi. Lo stesso orizzonte di significato, per quanto vago, poteva dunque giustificare, da un lato, le pressioni per la concessione di un’istituzione tipica del liberalismo ottocentesco come la guardia civica e, dall’altro, le invocazioni alla santa crociata della redenzione. Sull’una e sull’altra vegliava un pontefice spesso raffigurato come “Romano Mosè”, secondo un riferimento alla vicenda biblica dell’Esodo assai presente sia nella predicazione filogiobertiana sia nella prosa dei liberali laici177.

Il chierico che al soldato della patria consegna la spada, rappresenta l’idea cattolica madre della forza, la quale con felice ricambio si fa poi braccio e ministra della prima; sentiva dunque altamente della propria dignità il Clero di Toscana favoreggiando sì caldamente col senno e colla mano la guardia nazionale, che è il nerbo dei popoli inciviliti.

Civiltà, religione e spada convergono in queste parole di V.B. L’anonimo liberale nell’autunno 1847 curò a

Torino l’edizione di una raccolta di recentissimi documenti relativi al sostegno mostrato da vari settori del clero toscano verso le riforme del granduca. Presentando come esemplare e patriottico simile atteggiamento, l’iniziativa editoriale dedicata al chiericato italiano intendeva promuovere presso le gerarchie ecclesiastiche piemontesi un’analoga apertura in favore delle riforme albertine178.

177 Sull’uso paradigmatico della vicenda biblica dell’Esodo nella storia e nella trattatistica politica di età moderna e

contemporanea cfr. in prospettiva comparata M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986 [New York 1985]; su un aspetto specifico del caso italiano cfr. F. Sofia, Le fonti bibliche del primato italiano di Vincenzo Gioberti, in «Società e storia», 2004, 106, pp. 747-62.

178 Il chiericato di Toscana plaudente alle riforme civili. Raccolta corredata di varie voci e dedicata al chiericato italiano, Schiepatti, Torino

1847, cit. p. 73. Il volume contiene lettere pastorali e circolari di vari vescovi e vicari capitolari al clero delle rispettive diocesi affinché promuova dal pulpito le riforme granducali; alcuni scritti di Raffaello Lambruschini sulla necessità di una riforma del clero per il perfezionamento della società e le sue descrizioni delle feste fiorentine per la concessione della guardia civica; infine interessanti lettere pubbliche e orazioni di singoli ecclesiastici. La datazione post quem si evince dalla data del più tardo tra i documenti pubblicati.

Siamo nell’autunno 1847: l’immagine della spada, e più in generale l’immagine del braccio armato, quindi il tema dell’attesa della guerra, si sono imposti in un discorso pubblico che trascendeva ormai i confini preunitari grazie alla circolazione della stampa periodica toscana e pontificia, alla predicazione, alla letteratura di circostanza. In tutti gli stati, anzi, quell’immagine celebrava le riforme e sembrava preannunciare il senso ultimo della stipula della Lega doganale.

È qui, dietro l’immagine potente e allusiva di una rigenerazione nella guerra, un’apocalisse culturale allo stesso tempo temuta e desiderata, che i primi segni di rinnovamento del paternalismo monarchico e della contrattazione simbolico-rituale delle identità politiche cominciarono a farsi visibili, ben oltre le aspettative degli stessi sovrani riformatori. Il benevolo re-padre compariva allora situato entro scenari bellici potenziali, che consentirono la sempre più frequente descrizione dei suoi figli come schiere di fratelli. Cito dall’accademica prova di un canavese, dopo le riforme carloalbertine del 29 ottobre 1847:

O fratelli, che nobili in petto Nel variar dell’ingiusta fortuna Conservate con italo affetto Gl’alti sensi di fede e valor;

Sventolando l’antica bandiera Discendete dai ripidi colli, Fra lo squillo di tromba guerriera E gl’evviva di pace ed amor

Al buon Padre, al diletto Sovrano Qua venite a piegare le fronti; D’aver presti l’ingegno e la mano Qui giurate in difesa del Re.

Quest’è il voto d’un cor generoso, Quest’è il voto d’un alma italiana: Lauro al prode che muore glorioso, E può dare tal prova di fè179.

Analoghe immagini di fratelli riuniti intorno al monarca compaiono in un contesto assai più preoccupante per la monarchia sabauda come la città di Genova – non a caso sede nelle stesse settimane di frequenti rituali di federazione con la capitale e sorella Torino. In una lettera resa pubblica,

179 Il popolo canavesano all’arrivo di Carlo Alberto, di Americo Lisa, nella ricca raccolta degli scritti pubblicati in Liguria e in

Piemonte in occasione delle riforme, intitolata Dono nazionale. Scelte prose e poesie in esultanza e gratitudine per le riforme accordate da S.M. Carlo Alberto re di Sardegna, Tip. e Libreria Canfari, Torino 1847, cit. p. 59.

Giovanni Battista Cevasco descrisse a Lorenzo Valerio le accoglienze che la città aveva riservato al sovrano riformatore:

Allorché egli stava per entrare nel suo palazzo, tutti quanti portavano il torchio ci gettammo ginocchioni innanzi a lui; tutti gli altri astanti imitarono quel moto spontaneo, indi Ippolito d’Aste gridò: Maestà! queste nostre lacrime vi dimandano l’amnistia pei nostri fratelli in esiglio. E tutti: Maestà! amnistia pei nostri fratelli. Il Re piangeva – stese la sua mano per accennare di rialzarsi; i più vicini presala, la baciarono ripetendo: Maestà! amnistia. Ei strinse quelle palme e disse con accento commosso: Ci penso, o figli, ci penso. Tutti piangevano; una signora a me vicina venne meno dalla commozione180.

Il ritorno degli esuli – che, come vedremo, non mancherà di essere rilevato con gli accenti più commoventi alcuni mesi dopo, all’atto di inaugurazione del parlamento torinese – costituisce insieme alla memoria dei martiri uno dei temi forti del discorso nazionale, particolarmente suggestivo nella sua capacità di caricare di nostalgia e di attesa il tema bellico181. Come accade anche nel testo di un brindisi

recitato en plein air a Mondovì, dalle stesse alture da cui Napoleone aveva guardato ammirato l’Italia prima di farne strumento della sua ambizione e dove adesso un giuramento potrà ribaltare non solo l’antica oppressione subita, ma vendicare la memoria dei martiri e la nota derisione lamartiniana: «Oh tuoni una volta da quest’Alpi Carlo Alberto: e l’Italia sarà fatta una selva di guerrieri che adunati intorno alla sua bandiera, terribili siccome i vindici di tutti i martiri loro inulti, sapranno – per Dio – insegnare al mondo che se questa poté essere terra di dormienti, terra di morti non fu giammai. Evviva Italia!...»182.

Come abbiamo visto, il discorso nazional-patriottico aveva fatto concorrenza al discorso monarchico fin dall’atto delle prime riforme sovrane, solennizzate all’interno di questo repertorio simbolico ben oltre le intenzioni dei sovrani promotori, così nello stato pontificio come nel granducato di Toscana come nel regno di Sardegna. Se gli stessi sovrani dovettero scendere a patti con quel repertorio discorsivo e lasciarsi celebrare come guerrieri venturi, se la guerra è stata l’orizzonte di compimento ultimo della libertà garantita dalle costituzioni, stupisce ancora meno che, quando nella comunicazione politica prese a circolare il tema dell’attesa degli istituti costituzionali, non soltanto non si poté non dire i parlamenti, anche genericamente, italiani, ma ciò impose il confronto con la proiezione suprema e irrinunciabile di italianità ormai costituita dal campo di battaglia183. Se agli abitanti

180 I genovesi all’arrivo del re, ivi, pp. 61-5, cit. pp. 64-5.

181 Cfr. Raccolta delle varie poesie pubblicate in Piemonte nell’occasione delle nuove riforme giudiziarie e amministrative accordate da S.M. il Re Carlo Alberto, Botta, Torino 1847.

182 Voilà l’Italie!, brindisi recitato dall’avvocato Giuseppe Ferreri, in Dono nazionale, cit., p. 162. Sulla ricezione della critica

lamartiniana all’Italia come “terra dei morti” cfr. L. F. Benedetto, Come nacque la “Terra dei morti” del Giusti, in «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa – Classe di Lettere, Storia e Filosofia», 1940, 9, pp. 227-40. Per interpretazioni recenti, che associano la ricezione della polemica al significato antropologico dell’onore oppure all’uso politico delle metafore corporee (la devirilizzazione del popolo italiano come segno della sua decadenza), cfr. A. M. Banti, La nazione del Risorgimento cit. e S. Patriarca, Indolence and Regeneration cit.

183 Sulla centralità del ruolo della guerra e del nemico nelle narrazioni identitarie nazionaliste interessanti le premesse teoriche

di G. Bowman, Constitutive violence and the nationalist imaginary. Antagonism and defensive solidarity in “Palestine” and “former Yugoslavia”, in «Social Anthropology», 2003, 11, 3, pp. 319-40: «The violence which engenders nationalism is not the violence

della terra dei morti era richiesto individualmente un recupero di virilità, ai loro rappresentanti, accolti nelle istituzioni liberali in cui si traduceva la celebrata rigenerazione politica, era richiesto di dimostrarsi all’altezza di gestire la guerra dell’indipendenza, nella fase forse più delicata della celebrazione pubblica della violenza, quella in cui la violenza si definisce atto fondativo e prova della consapevolezza e del valore di una comunità184.

Vedremo più avanti almeno alcune tra le discussioni e le decisioni che nel corso dei mesi della guerra, e del dopoguerra, i parlamenti affronteranno, in un dialogo con la piazza, con i circoli politici e con la stampa che – soprattutto da parte democratica – proprio sulla loro capacità di dimostrarsi

parlamenti nazionali orienteranno le dinamiche del plauso e del dissenso. Per il momento osserveremo in

quali modi gli speaker più diversi, esterni e interni all’istituto parlamentare, assunsero in prima persona la centralità del nesso tra aule e campo di battaglia.

Nella Venezia che il 22 marzo 1848 Daniele Manin aveva proclamato repubblicana, nelle settimane seguenti alla liberazione, prima ancora dell’uscita di giornali non governativi, il tema costituzionale e quello nazional-pariottico appaiono congiunti in un dibattito pubblico che ebbe per sedi la «Gazzetta officiale», i manifesti e le scritte anonime sui muri della città, svariate orazioni e i pareri espressi da privati in diversi discorsi a stampa185. Si leggeva per esempio nel Parere di un cittadino

(Eugenio Cerin), pubblicato il 30 marzo, alla vigilia della convocazione della Consulta delle Provincie unite della Repubblica Veneta:

Le buone leggi, e le buone armi Nazionali sono gli essenziali fondamenti degli Stati, e questi due principali attributi non possono essere mai disgiunti. Nello stato attuale di somma emergenza e di necessità assoluta, conviene si occupi indefessamente il Filosofo per la prima, ed il Guerriero per la seconda parte. Se la posterità resterà maravigliata per avere noi abbattuto e guerreggiato un tirannico dispotismo con tanta celerità, dopo trenta anni di oppressioni, lo resti ben anco per aver costituito una forma di Governo capace a felicitarci, onde render sempre più concisa e dimostrativa e salva la nostra Nazionale indipendenza: per cui frattanto non indugino né perdano i momenti tanto preziosi i Liberati del Continente Lombardo-Veneto ad unirsi in Consiglio comune ed inviare esperti Cittadini gli uni dagli altri, per assistersi scambievolmente col senno e col consiglio, senza ambiziosa gelosia od idea di continentale preferenza, ma col solo spirito di comune utilità e di ispirare sempre più fiducia per poter

the imagined community of the future nation turns against its “enemies”, but the violence members of that not-yet-existent nation perceive as inflicted upon them by others who make it impossible for them to exist in anything other than an autonomous state» ( ivi, p. 319).

184 A mio avviso, l’ossessiva e duratura appropriazione che si fa di quest’immagine nel discorso pubblico maschile

risorgimentale rende il tema un caso da manuale di quella che Michael Herzfeld ha definito intimità culturale. Herzfeld intende con questa categoria il processo di self-othering per mezzo del quale un gruppo si appropria degli stereotipi negativi o imbarazzanti che lo definiscono nella considerazione di terzi, fino a farne elementi costitutivi della propria identità collettiva. L’antropologo sottolinea anche ambiguità e costi di questa appropriazione, come gli effetti potenzialmente conservatori e una costante disemia, ovvero una tensione tra presentazione pubblica e discorso interno alla comunità così definita. Dopo che nel 1847 il ribaltamento dell’accusa del poeta francese era dato per certo, nel 1848 emergerà come un tic nevrotico nelle riflessioni sulle sorti fallimentari della guerra e sul comportamento spesso inetto dei volontari; cfr. M. Herzfeld, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2003 [New York 1997].

185 Cfr. P. Ginsborg, Daniele Manin cit., in part. pp. 125 e ss. e A. Bernardello, Venezia 1847-1848: patria e rivoluzione. Gruppi dirigenti e classi popolari, in «Il Risorgimento», 2002, 3, pp. 373-416.

stabilire più fermi e saldi i legami di santa Nazionale amica fratellanza, e solide ed immutabili le basi dell’incominciato ad erigersi Italico Sociale Edifizio; oppure stabilire anche di concerto un momentaneo Congresso in una delle Città liberate, i risultati del quale saranno fatti conoscere alle altre che susseguentemente vanno a liberarsi, ed in quello s’invitino deputati per fama, per senno e conoscenze valenti, [a] disputare e deliberare sullo stato presente ogni oggetto che interessa; mentre dall’altro lato i più esperti Miltari accorrano animati dal sentimento il più nobile, il più utile, il più sacro amore di patria con indefessa premura e costanza alla pubblica e prontissima Istruzione dei valenti Italiani, il di cui spirito dagli ultimi successi avvenimenti deve esser scosso, e dai quali deve ritenere che una mano onnipossente protegga e guidi le opere nostre.

Su adunque Italiani! Confederiamoci a similitudine della Germania, armiamoci come la Prussia [...]

Si dia bando una volta alle inutili gelosie di separato patriottismo; una sola è l’Italia, uno solo il suo popolo, tutti fratelli le destre congiungiamoci strettamente ed un solo grido ci chiami alla pronta liberazione di chi ancora è aggravato dal tirannico dominio Austriaco, ed alla conseguente comune difesa186.

Per quanto rimandi alle condizioni d’emergenza di un contesto bellico e rivoluzionario, la forma assembleare qui allusa nei termini di Consiglio e Congresso (distinti a seconda della maggiore o minore stabilità degli istituti) è pensata in base a una concezione pre-elettorale della rappresentanza, proprio nello stato italiano che per primo, nel giugno seguente, avrebbe sperimentato il suffragio universale maschile. Una concezione tutto sommato analoga a quella che ha animato l’istituto delle consulte di stato introdotte con le riforme octroyées dell’anno precedente negli stati pontificio e toscano. Ma se con quelle il progetto di Cerin pare condividere la tradizionale investitura notabiliare come garanzia di comunicazione e ordine tra i corpi costituiti delle comunità locali e i poteri centrali (qui i governi rivoluzionari), a differenza delle consulte monarchiche la legittimazione di un consesso privo di sanzione elettorale è intravista nell’obiettivo di fondare una nuova comunità politica, variamente definita santa Nazionale amica fratellanza ovvero Italico Sociale Edifizio, al cui scopo il Filosofo non è meno necessario del Guerriero e non meno di lui deve essere animato dal sentimento il più nobile, l’amore di patria. Non stupisce, allora, leggere espressioni consonanti anche nel preambolo del decreto di convocazione della Consulta veneziana emanato dal governo provvisorio il 31 marzo. Sotto la firma di