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LE EREDITÀ DELL’ORATORE

4.4 Archetipi teatral

Durante il Settecento, e in particolare nell’ambito della riflessione illuminista, lo spazio teatrale aveva acquistato una progressiva autonomia tra i media ritenuti più adatti a una missione di educazione. Dapprima – come secondo la poetica classica – fu assegnata al teatro una funzione di educazione morale e civile; più tardi divenne uno strumento di educazione tout court politica – come dimostrano le politiche culturali della Grande Rivoluzione e, negli stati italiani, la stagione del teatro giacobino durante

336 Livio Mariani, deputato di Subiaco, ricorse a entrambi gli argomenti nel suo primo intervento al Consiglio dei deputati

romano. Esordì con un’excusatio: «Signori deputati: Io non sono esercitato nell’oratoria, sono una piccola intelligenza, che nel ritiro di vita villeresca ho sempre meditato sopra i mali della patria». Poi, più avanti, mise in guardia l’uditorio dalla «tendenza al sofisma» che percepiva nella camera, specie da parte dei «liberali improvvisati da due anni sono». D’altra parte, però, erano esempi classici quelli su cui poggiava il suo monito: «Io vi prego a ricordarvi, che i sofisti rovinarono la Grecia; e il Senato Romano, dopoché divenne sofista, non seppe più difendere la libertà»; Ass.Ris., VI, Roma, I, Consiglio dei deputati, 14 giugno 1848, p. 45.

337 Così commentava Giuseppe Massari le condizioni politiche in cui si trovava il parlamento napoletano nell’inverno 1849,

dopo una proroga che durava dal 5 settembre dell’anno precedente e che lo aveva platealmente escluso dalle decisioni relative alla repressione militare della rivoluzione siciliana: «Uno dei maggiori rischi ai quali era esposto il Parlamento napoletano a cagione del premeditato isolamento, in che veniva lasciato, era quello di scendere dall’altezza sublime di un consesso deliberante e legislativo alle meschine condizioni di accademia politica»; cfr. G. Massari, I casi di Napoli dal 29 gennaio 1848 in poi. Lettere politiche, Tipografia Ferrero e Franco, Torino 1849, p. 264.

338 Cfr. P. Di Gregorio, I «Campi Elisi» del potere. Le Camere alte e i Senati nell’Ottocento europeo, in «Meridiana», 1997, 30, pp. 73-

106, dove è sinteticamente espresso il paradosso dell’esistenza di «un’élite politica non legittimata dal consenso popolare e in presenza di una sempre più vasta opinione pubblica» (ivi, p. 76).

il Triennio339. Da allora, e per l’intero secolo seguente, in tutta Europa si assisté a un impressionante

moto di espansione del numero delle sale, che per l’Italia è stato ricostruito da Carlotta Sorba come uno degli assi portanti delle politiche culturali prima della Restaurazione e poi dello stato unitario340. Questo

spazio sociale occupa un posto di rilievo assoluto nell’immaginario ottocentesco relativo alla politica, ma per coglierne le reali implicazioni – in primo luogo il valore attribuito alla mobilitazione e al disciplinamento delle emozioni nell’educazione alla vita associata e nell’acquisizione di un’identità comunitaria che si autopropone come civile e legittima –, occorre superare certi schematismi della teoria habermasiana, la teoria che della politica ottocentesca ha offerto forse la più sistematica lettura archetipico-genetica341.

Le stesse ricorrenze linguistiche della nozione di pubblico mostrano che non è sufficiente individuare l’archetipo della genesi della sfera pubblica moderna nelle conversazioni e nei dibattiti razionali di privati su argomenti di interesse collettivo. Stando ai sondaggi lessicali compiuti sugli ultimi decenni del XVIII secolo da parte di storici della lingua italiana (che hanno sostanzialmente trascurato il lessico politico del XIX secolo), il pubblico modernamente inteso – inteso cioè come un insieme di soggetti socialmente riconosciuti come protagonisti attivi del giudizio su un evento che li riguarda tutti – emerse a poco a poco dalla comunità (diffusa) dei lettori delineata sulle riviste di letteratura e dalla comunità (riunita) degli spettatori a teatro342. Letteratura e teatro: ovvero i regni per eccellenza del

trasporto emotivo e dell’immaginazione343.

Ed è proprio attraverso la definizione di uno specifico professionale legato alla rappresentazione di immaginari ed emozioni ritenuti legittimi ed edificanti che nei primi decenni del XIX secolo si assisté al rilancio della figura dell’attore come mediatore di una ritrovata funzione pubblica. Come riflesso del nesso sempre più stretto tra uno spazio sociale destinato allo svago e la funzione di formazione, orientamento e controllo dello “spirito pubblico” associata al teatro, rispetto

339 Per una rapida panoramica, che suggerisce la centralità del teatro nelle discussioni settecentesche in materia di morale e

gusto (termine fondamentale in un’epoca in cui la sensibilità era diffusamente considerata la base della gnoseologia) cfr. F. Lafarga, Teatro, in V. Ferrone e D. Roche (a cura di), L’Illuminismo. Dizionario storico, Roma-Bari, Laterza 1997, pp. 205-16. Risulta curioso che, tra i numerosi riferimenti bibliografici relativi ai dibattiti e alle produzioni settecentesche in materia teatrale, non sia citato il severo Rousseau della Lettre à D’Alembert sur les spectacles (1758). Sul teatro di età rivoluzionaria come luogo di confronto, elaborazione e propaganda di sistemi valoriali legati alla storia della nazione, al rapporto tra diritto e violenza, al patriottismo ecc. cfr. G. C. Walton, “Charles IX” and the French Revolution: law, vengeance, and the revolutionary uses of history, in «European review of History/Revue européenne d’histoire», 1997, 2, pp. 127-46 e I. Germani, Staging Battles: Representations of War in the Theatre and Festivals of the French Revolution, ivi, 2006, 2, pp. 203-27.

340 Cfr. C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, il Mulino, Bologna 2001.

341 Cfr. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2005 [Frankfurt am Main 1962, 1990].

342 Cfr. G. Aliprandi, Dalla “opinione comune” alla “pubblica opinione” nella seconda metà del Settecento, in «Atti e memorie

dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti già Accademia dei Ricovrati. Memorie della Classe di Scienze morali, Lettere ed Arti», a.a. 1964-1965, pp. 483-503; Id., Dalla “opinione pubblica” dei Verri, ai giornali giacobini italiani (1766-1796), ivi, a.a. 1965-1966, pp. 295-323; Id., L’«opinione pubblica» dai giornali giacobini al Conciliatore (1796-1819), ivi, a.a. 1966-1967, pp. 157-210; E. Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del Triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1991.

343 Per un invito in questa direzione nell’ambito della teoria politica cfr. B. Neilson, La politica dell’immaginario. Appunti incompleti su affetti e potere, in «Studi culturali», 2005, 1, pp. 3-22. Nell’ambito della storiografia cfr. S. Patriarca, Il sesso delle nazioni: genere e passioni nella storiografia sul nazionalismo, in «Contemporanea», 2007, 2, pp. 353-60.

alla occasionalità riscontrata nei secoli precedenti si fece allora assai più sistematica la produzione di testi destinati alla formazione degli attori.

In nome della rinnovata missione, essi dovevano liberarsi dall’immagine ciarliera e sguaiata legata al gioco delle improvvisazioni tipico della tradizione della commedia dell’arte. Risultava difficile, certo, scalfire il pregiudizio morale sulla promiscuità della vita di attore, ma proprio per questo era necessario ridefinirsi almeno secondo il profilo di professionisti seri della parola e del gesto. Per quanto sorprenda a prima vista è proprio questo profilo che finalmente poteva tornare ad avvicinare gli attori ai tradizionali depositari della parola pubblica: in particolare gli oratori religiosi, gli oratori forensi e gli oratori politici. Attori, sì, ma al fianco di predicatori, avvocati, magistrati344. Per due ragioni, una ideale e

una tecnica.

La ragione ideale consisteva come si è detto nella funzione morale, educativa, perfino civilizzatrice attribuita da tutti gli autori di manuali di declamazione primo-ottocenteschi al teatro: un «vivissimo specchio» «cotanto utile alla società, e quasi può dirsi necessarissimo al raffinamento dei costumi di qualunque nazione»345, uno strumento «che istruisce ed alletta l’uditorio, che richiama l’idea

del vero e del giusto, che corregge i costumi, raffrena le passioni, addita il cammino dell’onore e della virtù, rende gli uomini conoscitori più perfetti del bene e del male; e per necessaria conseguenza giusti, probi e costumati»346. Non diversi, d’altra parte, erano i compiti attribuiti all’oratore nella tradizione

classica e abbiamo già intravisto avvocati e “paglietti” pretendere alla stessa eredità.

I manuali di declamazione teatrale usciti durante la Restaurazione ribadirono con insistenza la continuità tra la capacità di dipingere passioni, vizi e virtù necessaria all’attore sulla scena e quella necessaria agli altri depositari della parola pubblica, chiamati tutti, su versanti professionali diversi, a una

performance complementare di educazione civile. Trattati che passavano minutamente in rassegna, talora

con ricco corredo iconografico, le tecniche vocali e le espressioni fisionomiche, gestuali e prossemiche più adatte a rappresentare i più diversi stati d’animo, non di rado individuavano esplicitamente tra i propri destinatari quelli che continuavano a chiamare col termine classico di oratori. Solo conoscendo i princìpi che regolano il comportamento sociale e che l’attore deve saper riprodurre sulla scena, si insisteva, anche «[l’oratore] potrà instillare la più sana morale nel cuore dell’uomo, seguendo le tracce della natura347». Secondo lo stesso principio di autocensura e secondo la tipica frammentazione delle

eredità dell’oratore che abbiamo visto in opera nei manuali di eloquenza, anche questi testi ammodernarono l’archetipo classico dando al generico soggetto oratore le fisionomie realisticamente possibili nelle condizioni politiche presenti. I lettori extrateatrali a cui trattati e manuali di declamazione

344 Cfr. S. Stefanelli, I trattati di declamazione nella questione della lingua del primo Ottocento, in Ead., Va in scena l’italiano. La lingua del teatro tra Ottocento e Novecento, Cesati, Firenze 2006, pp. 39-67, in part. pp. 39-41.

345 A. Morrocchesi, Lezioni di declamazione e d’arte teatrale, Tipografia all’insegna di Dante, Firenze 1832, pp. 13-4. 346 [A. Zappoli], Saggio sull’arte del recitare, Tipografia della Volpe, Bologna 1832, p. 39.

347 G. Suzzara, Della declamazione italiana estesa anche alla parte che riguarda l’oratore. Opera dedicata a Sua Maestà Ottone I re della Grecia. Trattato teorico-pratico, Dalla Tipografia di Paolo Andrea Molina, Milano 1844, p. 5.

si rivolgevano diventavano allora «gli oratori, i poeti, i cattedratici, i causidici [...] gli oratori anche ecclesiastici» e perfino, con riferimento a un altro protagonista consueto nelle antologie di retorica, i «general[i] d’armata»348.

D’altra parte, il nesso tra oratore e attore affondava le sue radici nel minimo senso comune disciplinare: erano notissimi gli aneddoti relativi a Demostene e Cicerone impegnati in gioventù ad apprendere i segreti della rappresentazione dagli attori più celebri dei loro tempi. Per questo i manuali di declamazione, pur essendo destinati in primis a uomini di teatro – e a donne di teatro: grande differenza, questa, rispetto ai manuali oratori, che continuavano a censurare la pubblica presa di parola femminile –, potevano vantare di offrire un complesso di tecniche e suggerimenti professionali che corrispondevano ai tradizionali capitoli relativi all’elocutio e all’actio nei manuali di eloquenza.

S’inganna a partito – si leggeva ad esempio in uno di quei testi – colui, che allorquando sale sul Pergamo o s’alza in una pubblica adunanza, s’immagina di dover abbandonare la voce con la quale si esprime in privato, e prendere un nuovo tuono studiato ed una cadenza al suo natural costume straniera affatto. Di qui ripeter possiamo l’origine di quella cantilena, e fastidiosa monotonia che regna pur troppo, e nelle arringhe, ed in special modo su i pulpiti349.

Anche nell’ambito della declamazione teatrale, come la citazione lascia intravedere, è riconoscibile uno scontro tra due tendenze dominanti analogo a quanto abbiamo già visto accadere nell’ambito delle regole dell’eloquenza del foro – e anche in questo caso il fenomeno non sarà privo di conseguenze sul giudizio circa l’eloquenza dei deputati.

Nel quadro di una comune insistenza sulla centralità dell’espressione del sentimento, durante la Restaurazione si erano confrontati infatti due diversi stili di recitazione. Il primo rimaneva legato al manierismo neoclassico di un Antonio Morrocchesi, celebre interprete alfieriano, negli anni Trenta professore presso l’Accademia di Firenze e autore di un noto trattato di declamazione teatrale. Morrocchesi era fautore di un’espressione enfatica e vigorosa, associata a una concezione scultorea del gesto. Nel 1832, guardando soprattutto alla tragedia, si pronunciò contro una più recente tendenza, quella del ricorso all’«istinto naturale», che definiva una teoria barbara e perfino un disonore patriottico, segno di decadenza di un’arte tutta italiana che sarebbe stato sconcio mostrare agli occhi di qualche straniero casualmente seduto tra il pubblico350. Nello stesso anno il più giovane Agamennone Zappoli

pubblicava a Bologna un Saggio sull’arte del recitare, meno vincolato alla ripartizione classica dei generi, e accusava lo «stile antico» di peccare in eccesso di affettazione e frenesia. Suggeriva perciò di trarre ispirazione dalla conversazione. Quanto alla voce, richiedeva che l’attore si appoggiasse poco sulle vocali e abbreviasse le parole (al contrario di quanto attribuiva anche allo stile «predicatorio» degli

348 A. Morrocchesi, Lezioni di declamazione cit., pp. 14-5. 349 Ivi, p. 149.

oratori, evidentemente soprattutto sacri, «che riempi[ono] l’orecchio con voce risuonante, e, piuttostoché rappresentare gli affetti dell’uomo, narra[no] con nojosa ed allungata intonazione affetti trascendenti ed innaturali»)351. Quanto al gesto, Zappoli, di nuovo in maniera diametralmente opposta a

Morrocchesi, invitava a contenere l’agitazione delle braccia, i battimani, i colpi di piede ecc. allo scopo di un’espressione del sentimento più intima e patetica, sul modello del «non mai abbastanza encomiato avvocato Modena»352, patriota democratico che nel 1848-49 sarebbe stato assai attivo tra Venezia e

l’Italia centrale nel teatro popolare, nella stampa e nell’associazionismo politico, prima di essere a sua volta eletto deputato alla Costituente romana353.

Come accadeva negli stessi anni sul piano dell’oratoria forense, dove abbiamo trovato contemporaneamente attestate sia la tendenza emotivo-declamatoria sia quella professionale-tecnicista, anche sulle scene teatrali – l’altra sede in cui si rivendicava una porzione dell’eredità della funzione antica dell’oratore, adattata agli istituti culturali del presente e utile a quelli, eventuali, del futuro (i parlamenti timidamente allusi dietro il riferimento classicista alle pubbliche assemblee) – i due stili di

performance antico e moderno sembrano aver convissuto più di quanto non si siano mutuamente esclusi,

soprattutto per effetto dell’enorme successo di un genere teatral-musicale che si poneva al di fuori dei generi tradizionali, il melodramma, in cui confluivano sia il tema eroico di ascendenza tragica sia scene di carattere più intimistico354. Ed è proprio dal popolare bacino di immagini e performance

melodrammatiche che, contro tutte le aspettative, e fra non pochi contrasti, vedremo presto passare contenuti, espressioni, atteggiamenti nelle pratiche del discorso parlamentare – sia sul versante dei produttori, sia su quello del pubblico presente in aula e del suo orizzonte d’attesa.

Senz’altro non si trattò di un prestito di registro linguistico: da questo punto di vista il melodramma (in versi) peccava dello stesso difetto della lingua (in prosa) delle accademie. Nonostante si rivolgessero a un pubblico assai ampio, infatti, i testi dei libretti ottocenteschi erano caratterizzati da un registro fortemente antirealistico, derivante dal genere poetico alto della tragedia (dalla quale discendevano d’altra parte anche i moduli recitativi “statuari” più diffusi sulle scene). Avrebbe potuto la «voce della nazione», in un regime che vagheggiava la «pubblicità» della parola, esprimersi per mezzo di complicati costrutti sintattici oppure usando i più astrusi sinonimi culti o latineggianti al posto di termini concreti e prosaici?355 Evidentemente no. Ma il melodramma avrebbe comunque influenzato, in

351 [A. Zappoli], Saggio sull’arte del recitare cit., pp. 18-9. 352 Ivi, p. 34.

353 Proprio per la sua versatilità, credo che sarebbe importante tornare a studiare la figura di Gustavo Modena, specialmente

in un’ottica interessata alle pratiche del discorso e alle forme della comunicazione politica, almeno di parte democratica; cfr. Scritti e discorsi di Gustavo Modena, a cura di Terenzio Grandi, (1831-1860), Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1957.

354 Cfr. P. Luciani, Il gesto della passione, in G. Godi e C. Sisi (a cura di), La tempesta del mio cor. Il gesto del melodramma dalle arti figurative al cinema, Mazzotta, Milano 2001, pp. 13-32.

355 Sulle caratteristiche della lingua del melodramma cfr. F. Gatta, Il Macbeth e il Simone Boccanegra dalla prosa alla poesia: osservazioni sulla lingua dei libretti delle opere di Verdi, in F. Frasnedi e r. Tesi (a cura di), Lingue stile traduzioni. Studi di linguistica italiana offerti a Maria Luisa Altieri Biagi, Franco Cesati Editore, Firenze 2004, pp. 177-88.

maniera differente e controversa, il discorso parlamentare di un’epoca di guerra e di accelerata

politisation.

Il fatto è che il melodramma, come il romanzo, forniva chiavi indispensabili per l’accesso a un versante irrinunciabile per il successo performativo di qualsiasi discorso parlamentare. Infatti, al pari delle competenze dell’uomo di stato – la filosofia politica, la scienza giuridica, l’economia, la conoscenza storica, la morale – utili alla costruzione di ragionamenti dimostrativi e argomentazioni che fosse possibile presentare come solide e fattuali (che pure però non poggiavano esclusivamente sull’esercizio sillogistico), era necessario saper parlare altri linguaggi per poter essere giudicati portavoce autentici del popolo-nazione in un clima di accesa partecipazione, di diffuse paure sociali, di disordine potenzialmente incontrollato quale quello che tutti gli stati preunitari vissero tra 1848 e ’49.

Delle divertenti tipologie (se non patologie...) di deputato che il francese Cormenin tratteggiava nel suo noto volume sull’eloquenza parlamentare, tradotto negli ambienti democratici livornesi nel 1849, alle assemblee italiane non mancarono né «logici» né «patetici» (o «immaginosi»), non mancarono «economisti», «giuristi» «specialisti», «sociali», non i «generalizzatori» e i «fraseologi», forse neppure i «maligni», e certo non i «regolamentari» e gli «interruttori» (primo fra tutti, nell’ultima categira, il principe di Canino Luciano Bonaparte, deputato al Consiglio romano e poi alla Costituente, che inizialmente presiedé)356. Eppure, provando per scherzo a commensurare le caratteristiche del discorso

parlamentare quarantottesco negli stati italiani alla griglia di Cormenin, elaborata guardando alla situazione parlamentare della Monarchia di Luglio, appare impossibile circoscrivere a un tipo isolato il

patetico-immaginoso.

In altre parole, nonostante negli anni della Restaurazione diversi ambiti professionali che si dicevano eredi della funzione antica dell’oratore sognassero un esercizio della parola pubblica legato alla presunta trasparenza della ragione e condannassero l’esasperazione emotiva soprattutto nell’eloquenza forense, non fu possibile al discorso parlamentare del 1848-49 tenere il sentimento e i suoi moduli espressivi (sia i moduli strettamente linguistici, sia gesti e tecniche legati all’actio performativa) fuori dalla porta dell’istituzione.

Ciò non significa – basta ricordare le severe parole di Mayr: come in un teatro... – che la cosa avvenisse senza contrasti. Il discorso parlamentare si trovava infatti dinanzi alla tensione tra due poli: la necessità dell’informazione giuridica, storica, politica da un lato e, dall’altro, la necessità della comunicazione pubblica. Oltre che dimostrare competenza, cioè, il linguaggio tenuto dai sedicenti rappresentanti del popolo – o voce della nazione – non poteva permettersi di risultare incomprensibile agli

356 Il testo era già comparso a Firenze presso Le Monnier nel 1841, in associazione ai ritratti degli oratori delle camere

francesi composti dallo stesso autore ma assenti nell’edizione livornese. Quest’ultima usciva come decimo volume della collana «Repertorio del patriota. Raccolta di scritti atti ad ispirare ed ingigantire ogni virtù e più particolarmente l’amore del bene, dell’unione e dell’indipendenza d’Italia» e recava sul frontespizio il motto «Libertà Fraternità Nazionalità Indipendenza»; lo scritto inaugurò la serie Scrittori politici stranieri; cfr. [L.-M. de La Haye de] Cormenin, Studi sulla eloquenza parlamentaria e Discorso sull’indipendenza italiana, Tipografia del patriota, Livorno 1849, pp. 5-91.

ascoltatori delle sedute e ai lettori dei resoconti o dei processi verbali che uscivano quotidianamente nelle sedi a stampa autorizzate e sui giornali. Perciò non tutti coloro che criticavano la spettacolarizzazione delle emozioni politiche in aula risultano alla fine davvero del tutto immuni da quello che, fuori dalle aule, si configurava come il più potente codice della comunicazione politica quarantottesca357.

357 Cfr. C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in A. M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 481-508.

Capitolo 5