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Padri ritrovati, figli rinnovat

Ma non si tratta solo del re sabaudo. Più in generale, la funzione affettivo-consensuale e legittimante del dispositivo retorico del paternalismo monarchico si rivelò necessaria, e fu perciò particolarmente frequentata, proprio nel 1848, di fronte alla doppia sfida opposta ai sovrani assoluti dal costituzionalismo e dal discorso nazional-patriottico. In particolare, se le corone non si trovarono generalmente dinanzi a una diffusa rivendicazione da parte liberale in favore della costituzione e, di conseguenza, se le modalità costituenti poterono essere quelle che abbiamo visto, non dovrebbe stupire la relativa facilità con cui furono in grado di depotenziare sul piano simbolico le implicazioni più radicali della svolta in corso. Nonostante la profondità della trasformazione istituzionale, insomma, il costituzionalismo poté essere assorbito aggiornando senza snaturarle le tradizionali coordinate del discorso monarchico.

In primo luogo, nell’atto stesso di procedere alla concessione delle costituzioni – abbiamo letto i documenti che ne diedero l’annuncio ufficiale – a Napoli, a Torino, a Roma le corone non rinunciarono affatto a ribadire le prerogative del diritto divino, sia nella forma di una riaffermazione verbale dal

85 Commentava così la settimana di festeggiamenti la «Gazzetta piemontese», il giornale ufficiale del regno, cit. in D. Maldini, Piazze e folle dalla Restaurazione allo Statuto, in V. Castronovo (a cura di), Storia illustrata di Torino, IV, Torino dalla Restaurazione al Risorgimento, Sellino, Milano 1992, pp. 941-60, cit. p. 951.

86 Per l’età medievale, ma anche per la posizione di un problema generale in merito alla sacralità come specifico linguaggio di

legittimazione ed eternamento delle istituzioni politiche, problema su cui torneremo più avanti, cfr. E. H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989 [Princeton, 1957].

sapore ormai alquanto stereotipato, sia, e forse soprattutto, ricercando il sostegno attivo delle gerarchie ecclesiatiche, chiamate a promuovere da parte del clero diocesano una predicazione favorevole alla svolta in corso e a partecipare ai rituali pubblici di festeggiamento e impetrazione che in ogni stato accompagnarono l’avvicendamento istituzionale. Come ricorda Daniele Menozzi, si tratta di un sostegno pubblico che le corone restaurate ricercarono come una rottura tra le più evidenti con le pratiche giudicate irreligiose dei governi rivoluzionari. Anche i governi rivoluzionari, però, se avevano elaborato una propria liturgia civile concorrenziale a quella cattolica, non poterono fare a meno di sanzionare pubblicamente ogni avvicendamento istituzionale con riti solenni nelle cattedrali e con preghiere, benedizioni, processioni, perché «in una società ancora cristiana la celebrazione religiosa costituiva un elemento portante nella trasmissione e nella socializzazione dei valori politici, sicché la mancanza della funzione o del Te Deum di ringraziamento per l’avvento di un nuovo governo

comportava di fatto una delegittimazione della sua autorità con conseguenze difficilmente calcolabili sulla convivenza civile»87.

Accanto al riferimento alla religione cattolica e al sostegno visibile dei suoi ministri, il discorso monarchico continuò a utilizzare come una risorsa irrinunciabile le metafore della sollecitudine paterna del re, dell’obbedienza filiale dei popoli, dell’amore reciproco tra i due soggetti, fissati nelle speculari e correlative posizioni della sovranità e della sudditanza88.

Gli atti che costituiscono i sudditi in cittadini – almeno nell’accezione ristretta, censitaria, che sarà definita dalle future leggi elettorali (già annunciata nei casi napoletano e torinese) – mentre fanno riferimento alle loro future guarentigie, maggiori libertà, franchigie, all’inizia[zione] nei pubblici affari (così rispettivamente nei testi napoletano, torinese, toscano e ancora torinese) continuano a chiamarli sudditi (così nei testi napoletano, torinese, romano) oppure popoli. Se il primo termine assegna etimologicamente una posizione al pubblico dei destinatari, non meno esplicito è il secondo: nel plurale prosegue infatti le immagini tipiche della monarchia patrimoniale e territoriale di ancien régime, intesa come agglomerato di possessi regi dotati di identità attentamente mantenute diverse (il preambolo dello statuto pontificio continua a riferirsi ai nostri dominii) e d’altra parte esorcizza le implicazioni di una sua declinazione al singolare. Popolo, infatti, definisce uno dei soggetti collettivi che guida le rivendicazioni negli scritti e nei discorsi di parte liberale – sebbene non senza ambiguità ed esclusioni che dovremo vedere nel dettaglio89. Soltanto Carlo II e Leopoldo II usano popolo al singolare, una sola volta: il primo

87 Cfr. D. Menozzi, I vescovi dalla Rivoluzione all’Unità. Tra impegno politico e preoccupazioni sociali, in M. Rosa (a cura di), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 125-79, cit. p. 133. Sul punto cfr. anche il più circoscritto giudizio di G. Montroni, Linguaggi di regalità. L'uso pubblico della retorica a Napoli nel primo Ottocento, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’800 e del ’900», 1998, 4, pp. 681-702: «Negli anni della restaurazione, scomparse – o sopravvissute in forme comunque residuali – le tentazioni di un richiamo al divine right, non si indeboliscono le posizioni di quanti fanno riferiemento alla necessità di un sostegno organizzato, programmatico, della religione, ma più ancora della chiesa, del suo apparato diffuso nei confronti della sovranità»; ivi, p. 697.

88 Per un’analisi delle tipologie e della funzione delle metafore nella storia del linguaggio politico europeo di età moderna e

contemporanea cfr. F. Rigotti, Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992.

in un testo tutto improntato in realtà all’ansietà per la sorte dei propri Stati, il secondo pateticamente sollecito nel voler esorcizzare un temine dagli incontrollabili eccessi polisemici con l’immagine della

toscana famiglia e con il consueto invito ad attendere nell’ordine le deliberazioni che debbono assicurare i vostri destini. Nella parola sovrana che annuncia le costituzioni continuano a essere due i soggetti che si

fronteggiano e continuano a occupare posizioni tradizionali e rassicuranti: il re (con il suo consiglio) governa paternamente, i sudditi/popoli devono aspettare benignamente e nel rispetto delle autorità costituite e dell’ordine il “meglio-per-loro”.

In questa trama-base dei testi viene tuttavia introdotto il riferimento – non meno carico di echi provenienti dall’ambito dei rapporti familiari – relativo alla raggiunta maturità dei sudditi. Il testo torinese declina l’immagine negli attributi del senno e della dignità, quello toscano nella saviezza della

condotta, quello romano – assommando le ritrosie della tradizione cattolica a quelle del discorso

monarchico in merito al riconoscimento dell’autonomia di soggetto ai propri sudditi – rinforza la lusinga della stima sovrana con il riferimento alla religione e alla chiesa quali garanzie del benessere collettivo, sollecitando dunque il dovere sociale della gratitudine.

Questo cedimento alla maturità dei sudditi rappresenta il primo evidente scollamento del discorso monarchico dai termini ritenuti accettabili da parte dei custodi più intransigenti dell’ortodossia assolutista, come l’ultralegittimista conte Clemente Solaro della Margarita, per dodici anni ministro degli esteri dello stato sabaudo, licenziato da Carlo Alberto nell’autunno 1847 e da allora attivo pubblicista fieramente avverso alle riforme, intento a distinguere teoreticamente il reggimento paterno dai sistemi liberali proprio sulla base degli assunti che l’unico diritto dei popoli è il diritto a essere ben governati, così come l’«obbligo di reggere i sudditi come un padre virtuoso regge la famiglia» è il primo dovere dei re90.

90 Ancora nel 1863, in un’opera scritta a settantasei anni e alla vigilia della morte, perfino dopo aver seduto sui banchi

dell’estrema destra nel parlamento subalpino dal 1854, Solaro ribadiva le prerogative della monarchia assoluta fondandole sul modello del reggimento paterno e criticando implicitamente quelle che – con termine che echeggia inevitabilmente il lessico del Quarantotto – definisce in maniera sprezzante concessioni. «Un Sovrano forte non tollera il male, reprime i malvagi, un Sovrano religioso promuove la virtù e non può non essere giusto; aggiungasi al desiderio di render felici i sudditi la cura costante de’ loro interessi e meriterà per eccellenza nome di padre del popolo, avrà diritto alla gratitudine ed all’amore; sarà benedetto. Egli meno considererà il diritto per cui si trova sul trono, che il dovere che incombe a chi vi fu da Dio collocato. Questo dovere è assai superiore al diritto; è in forza di quello ch’è in obbligo di tutelare, e mantenere un’autorità conferitagli pel bene de’ popoli. Questi hanno il diritto di essere ben governati, i Sovrani il dovere di ben governarli. Si scambia, si delude la vera idea del reggimento monarchico allorquando si regna col solo diritto, e si trascura, e non si pensa al dovere per cui si regna. La scuola cattolica queste cose inculca, il protestantesimo solo ha fatto grandeggiare i diritti dei Re, ommettendone i doveri per aprir la via a magnificare i diritti de’ popoli onde dimenticassero a loro volta i doveri che li legano verso i Principi di cui sono sudditi. Da ciò prese lena e vigore lo spirito di rivolta; i Sovrani non considerando che ai loro diritti, per quello ammansare fecero concessioni, supposero d’averne facoltà come di cosa propria, e di cessione in cessione così menomarono i loro diritti, che più altro lor non ne rimase che quello di perdere l’autorità, o di scendere dal trono. Se invece avessero considerato ai loro doveri, fin dal principio avrebbero sostenuto il potere di cui erano investiti, e non avrebbero essi stessi scalzate le basi dell’ordine sociale: tanto è vero che nell’idea del dovere sta la forza più assai che in quella del diritto, ma da quella idea deriva pur l’altra che un Principe è in obbligo di reggere i sudditi come un padre virtuoso regge la famiglia». Il lungo passo, a cui seguono citazioni da La Bruyère e Fénelon, nel 1863 appare ormai come il residuo di uno stadio arcaico delle fonti della legittimazione monarchica, ma all’atto della svolta costituzionale del 1848 il discorso monarchico muoveva ancora tra coordinate simili, sebbene si sia mostrato assai più flessibile del conte piemontese invecchiato ai margini del sistema politico italiano. La citazione è tratta da C. Solaro della Margarita, L’uomo di Stato,

Se in Solaro la metafora paterna pare tanto legata all’assolutismo da diventarne espressione sinonimica, ciò accade anche negli scritti di parte liberale usciti nei possedimenti italiani dell’impero asburgico: il contrasto tra l’uso pubblico del paternalismo e i crudeli sistemi di governo è un topos tra i più diffusi, comune ai testi stampati clandestinamente prima delle rivoluzioni di Milano e Venezia91 e ai

testi politici usciti senza più censure in seguito ad esse92. Non troppo discosta doveva essere la

sensibilità dei contemporanei se, spostandoci sul versante dello spettro politico filomonarchico opposto al legittimismo oltranzista di un Solaro, già nel gennaio 1848 – quindi in un periodo di diffusa agitazione in tutta la Penisola, nonostante le riforme concesse nell’anno precedente – i lettori del giornale torinese «La Concordia» poterono leggere un impegnato articolo di Carlo Baudi di Vesme assai critico sul

Baciamano a Corte.

Dietro un titolo accattivante, che richiamava al lettore un argomento di costume legato a uno dei luoghi simbolo della curiosità pubblica, Baudi costruiva in realtà un testo stringente, dedicato agli slittamenti semantici – e, neanche troppo indirettamente, politici – associati alla metafora paterna e alla maturità di sudditi che l’autore non esitava a chiamare cittadini. Baudi si scagliava contro il rituale sabaudo del capodanno, quando, dopo la messa, a uno a uno, gli uomini ammessi alla presenza del re dovevano accedere alla sala del trono, compiere tre riverenze al suo indirizzo, piegare il ginocchio sinistro a terra e baciare la mano ai due sovrani (le dame, in una cerimonia separata, avrebbero baciato la mano alla sola regina). Dopo aver descritto questo cerimoniale l’autore compie un apparente detour e trascina il lettore senza alcuna mediazione in un interno domestico, tratteggiando un quadro quotidiano:

Solevano non ha gran tempo presso di noi, e certo anche in altri luoghi, i genitori avvezzare i figliuoli a baciar loro quotidianamente la mano, nell’atto che loro auguravano felice notte la sera, od il mattino chiedevano come avessero riposato la notte. Credevasi che questo e simili atti esterni, e spesso forzati, infondessero nei figliuoli quel rispetto e quell’amore che solo nasce da verace stima verso le paterne virtù, e dalla naturale gratitudine e venerazione verso quelli che non solo ci diedero la vita, ma, che è più, fra mille stenti ci allevarono bambini, provvidero nella fanciullezza alla nostra educazione, in età più provetta ci furono scorta coi loro consigli, e con innato immenso amore ci assisterono nei difficili casi della vita.

indirizzato al governo della cosa pubblica, Speirani, Torino 1863, cit. nell’antologia di N. Del Corno (a cura di), Gli «scritti sani». Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, FrancoAngeli, Milano 1992, p. 250.

91 Cfr. la notissima protesta diffusa in manifesto nel febbraio 1848 I Lombardo-Veneti ai loro fratelli d’Italia e d’Europa, riedita in

C. Cattaneo, Archivio triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia, a cura di Luigi Ambrosoli, Mondadori, Milano 1967 [3 voll., Capolago 1850 e 1851, Chieri 1855], pp. 546-550. Il testo, dopo aver descritto il sistema di governo austriaco come un crudele e inefficiente stato di polizia volto allo spegnimento dello spirito d’indipendenza e del genio dei suoi sudditi, in prossimità della conclusione precisa: «Protestiamo – contro l’ironia crudele di Ferdinando I, imperatore e re, che sanzionando gli abusi, legalizzando gli arbitrii, autorizzando gli eccidj, chiama le sue vittime figli, e sé, carnefice, intitola padre» (ivi, p. 550).

92 «La Casa d’Austria pretese che le nazioni fossero governate per l’interesse di quelli che le dominano. Ella professa le

massime del puro assolutismo. – Le nazioni non hanno diritti verso i prìncipi e i prìncipi hanno il diritto di fare ciò che vogliono contro i popoli. – Fingono poi sempre di non volere che la loro prosperità. Non hanno che PATERNO AMORE»; così si legge in un catechismo politico di orientamento repubblicano, favorevole a una soluzione federale della questione istituzionale italiana, uscito in Veneto presumibilmente nella primavera 1848; cfr. Catechismo politico al popolo del cittadino Francesco Formenton, Paroni G. Tramontini, Vicenza 1848, p. 8.

La trasfigurazione della figura monarchica dietro quella paterna è suggerita senza alcuna mediazione, anche se i termini si fanno sempre più espliciti: «Quegli atti forzati, se dai genitori vengono imposti ad animo altero e generoso, si eseguiscono con dispetto e rodendo il freno, e tendono a far parere un duro giogo quello che è ad un tempo il più sacro e il più dolce dei vincoli».

Lode al progrediente incivilimento, che mostrò la falsità dei principii dai quali derivavano tali usanze nelle famiglie, e che, fondando su più vere e salde basi l’amore ed il rispetto figliale, lo rese più costante contro le tentazioni dell’età matura, e ne fece la più nobile delle virtù, germe di ogni grandezza d’animo e di ogni gentilezza!

Pertanto, se «un tempo» anche la solenne funzione regale – a questo punto Vesme intreccia i due quadri – poteva essere persino «morale in sommo grado», poiché delineava «come una sola famiglia, che si raccoglieva annualmente intorno al comun padre», «col mutare de’ tempi mutaronsi i segni esterni degli stessi sentimenti» anche all’interno dell’istituto familiare e quindi il rituale che continuasse a riferirsi pubblicamente a modelli trapassati di relazione privata e persino condannati in nome dell’incivilimento, non solo perderebbe di significato, ma rischierebbe di configurarsi come un odioso anacronismo, teso a vincolare i figli (ovvero i sudditi) in una posizione di minorità indiscutibile. Vesme, allora, mentre elogia Carlo Alberto per le riforme concesse, lo invita a un complemento solo apparentemente insignificante, che trovi forme nuove per un rituale che continua a giudicare necessario. Perché, se le riforme carloalbertine «tendono ad accrescere la dignità morale dell’uomo e del cittadino», «anche le mutazioni che paiono leggiere e di poco momento divengono importanti, quando formano parte di un sistema totale dello

Stato, quando sono come un prospetto, una manifestazione dei principii che lo governano»: un

ricevimento a corte parrebbe corrispondere meglio allo spirito dei tempi e mostrerebbe anche sul piano cerimoniale che il re «pone ogni sua fiducia, ogni speranza della futura potenza dello Stato nella libertà, energia, grandezza d’animo de’ suoi sudditi»93.

Quale concreta traduzione politica dovessero ancora avere la libertà, l’energia, la grandezza d’animo dei sudditi piemontesi – mentre stava per richiedersi una costituzione – resta incerto; ma pare assai interessante che sul piano discorsivo e simbolico le contrattazioni implicite si traducessero in un confronto frontale con il paternalismo del discorso monarchico (che più avanti vedremo affrontato anche dalla diffusione della metafora della relazione fraterna nell’ambito del discorso nazionale).

Possiamo concludere che il discorso monarchico della transizione istituzionale aggiorna la metafora paterna introducendo in varie forme il tema della maturità dei sudditi/figli, ma continua a non poter tradurre tout court maturità in autonomia. Se non può evitare di rinnovare il tradizionale

93 L’articolo uscì il 3 gennaio 1848 su «La Concordia», ma io lo cito dall’antologia documentaria sulle origini dello statuto

albertino in cui a mio giudizio con grande acume Giorgio Falco, pur senza commentarlo, reputò utile pubblicarlo; cfr. G. Falco (a cura di), Lo statuto albertino e la sua preparazione, Capriotti, Roma 1945, pp. 272-3 (corsivo mio).

paternalismo con una figura che giustifichi le future realizzazioni costituzionali e rassicuri su di esse (i sudditi/popoli sono maturi per riunirsi, associarsi, votare ecc. a differenza di quanto accaduto finora), d’altra parte le modalità di scrittura dei testi costituzionali – che definiscono senza la partecipazione di tali “figli” maturi le coordinate legittime entro le quali dovrà realizzarsi la loro felicità (il termine di ascendenza settecentesca è usato da Carlo Alberto e dall’affezionatissimo Carlo di Borbone) – rivelano da parte monarchica la difficoltà a staccarsi dalla tradizionale posizione di minorità assegnata ai popoli/sudditi (questa apparente aporia sarà risolta in parte con l’opzione per regimi rigidamente censitari)94. Va da sé, comunque, che nel quadro della letteratura encomiastica più fedele ai troni

esistenti – una letteratura che istituzionalmente si colloca a pieno titolo nel discorso monarchico che ho cercato di definire, sebbene sia proprio qui che i confini tra controllo e licenza sono più vulnerabili – una volta concesse le costituzioni si sarebbe calcato l’accento sulla loro presentazione al pubblico come supremo e definitivo inveramento della metafora paterna, sede obbligata di rinnovate forme di consenso95.