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Decadenza/Risorgimento: parlamenti di guerra

«PARLER GUERRE»

6.1 Decadenza/Risorgimento: parlamenti di guerra

È intorno al tema bellico che proveremo adesso a mettere alla prova le considerazioni finora svolte, osservando alcune dinamiche dell’interazione tra il discorso parlamentare e un ingombrante elemento del contesto esterno ai recinti che le accomunava. Le assemblee del 1848-49 non furono solo i primi parlamenti italiani chiamati a una profonda trasformazione istituzionale congiunta tra gli stati della Penisola. Al di là delle differenti cornici istituzionali in cui ciascuna di esse operò, al di là dei sistemi elettorali di cui ognuna fu espressione (le assemblee veneziane, la costituente romana e quella toscana furono elette infatti a suffragio universale maschile465), al di là del diverso profilo sociale e

orientamento politico prevalente tra i deputati e i senatori, tutte quelle assemblee furono, invariabilmente, parlamenti di guerra.

Si ricorderà che, ancora prima che fosse inaugurata l’attività parlamentare, le future camere erano già state chiamate al confronto con campi di battaglia allora solo immaginari. L’attesa di una guerra di riscatto patriottico benedetta dal pontefice aveva costituito il tema dominante nel discorso pubblico che nel corso del 1847 aveva virtualmente unificato la Penisola a partire dalle strade, dalle piazze, dai teatri delle città italiane. Dopo la svolta costituzionale, lo stesso orizzonte immaginato fornì ai nascenti istituti un linguaggio di legittimazione con il quale fu impossibile non confrontarsi per enti che (eccetto il caso siciliano) apparivano privi di una solida, autonoma tradizione istituzionale466. Ciò

che accadde in seguito, e che trasformò un confronto retorico già difficile da eludere in un banco di prova politico sulla capacità di visione e sul coraggio dei nuovi istituti, sui confini del loro potere in rapporto ai rispettivi esecutivi e infine sulla loro popolarità, fu che dappertutto l’attività dei parlamenti

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Cfr. G. Ponzo, Stampa, parlamenti e censo elettorale in Italia nel 1848, in «Storia e Politica», 1982, 4, pp. 644-702 e P. L. Ballini, Élites, popolo, Assemblee: le leggi elettorali del 1848-’49 negli Stati pre-unitari, in Id. (a cura di), 1848-49 Costituenti e costituzioni. Daniele Manin e la Repubblica di Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 2002, pp. 107-224.

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Per tutto questo cfr. infra, Parte prima. Sulla Sicilia cfr. E. Pelleriti, 1812-1848. La Sicilia fra due costituzioni, Giuffrè, Milano 2000.

italiani si sovrappose alle numerose operazioni militari che interessarono la Penisola tra il marzo 1848 e l’agosto 1849467.

A Palermo i primi mesi di lavori, che coincisero con l’attività costituente delle camere siciliane, si svolsero sotto la minaccia concreta delle armi borboniche. La cittadella di Messina non era stata espugnata dagli insorti di gennaio e fu perciò necessario provvedere costantemente alla sua difesa. Tuttavia, prima che il governo napoletano avviasse le operazioni di riconquista dell’isola, affidate nel settembre 1848 al generale Carlo Filangieri e condotte quasi interamente durante i mesi di proroga delle camere napoletane tra settembre e febbraio 1849, il parlamento siciliano poté seguire con attenzione le vicende militari dell’Alta Italia, alle quali partecipò, non solo simbolicamente, autorizzando a metà aprile 1848 l’invio di una colonna di cento volontari capitanati da Giuseppe La Masa468. In seguito fu però

soprattutto impegnato nelle discussioni relative alla difesa locale.

Sul resto della Penisola, l’attività dei parlamenti delle monarchie costituzionali fu inaugurata quando la guerra nel Lombardo-Veneto si combatteva da tempo: ufficialmente dichiarata il 23 marzo dal governo sabaudo, ma intrapresa solo il 29, la guerra era in corso da sei settimane quando si aprirono le camere a Torino (9 maggio, sull’onda del recente successo di Pastrengo), dieci quando si aprirono a Roma (5 giugno), circa tre mesi quando si aprirono a Firenze (26 giugno) e a Napoli (1° luglio).

Considerato che l’armistizio Salasco, che chiuse la prima fase armata del conflitto, fu siglato il 9 agosto 1848, si potrebbe obiettare che in alcuni casi fu assai breve il periodo in cui l’attività parlamentare si sovrappose alla guerra d’indipendenza. Eppure le conseguenze degli accordi – che prevedevano una sospensione delle ostilità tra il regno di Sardegna e l’impero asburgico di sei sole settimane, trascorse le quali entrambi gli stati avrebbero potuto denunciare l’armistizio e riprendere le armi – fecero sì che l’orizzonte della guerra restasse un’eventualità assai concreta. Riflettendo su questo punto ancora il 6 novembre 1848 il conte di Cavour avrebbe potuto riassumere al suo abituale confidente epistolare Émile de la Rüe: «Nous sommes dans une très mauvaise condition politique»469.

Era proprio l’ombra costante della guerra a rendere incerta e agitata la situazione dello stato. A Torino ci si trovava infatti alla vigilia della terza crisi ministeriale dall’inizio della legislatura e le camere si erano aperte soltanto da tre settimane (il 16 ottobre) dopo una proroga che durava dai giorni precedenti l’armistizio. Forse solo una dichiarazione di pace, sosteneva Cavour, avrebbe potuto salvare il governo e garantire lo stato dal dissesto finanziario e dal disordine interno, ma tale soluzione avrebbe incontrato

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La ricostruzione più completa delle vicende politico-militari – nazionali e locali – del biennio resta tuttora P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Einaudi, Torino 1962, in part. pp. 166-533. Per un quadro alquanto impressionistico sugli aspetti culturali di quei conflitti cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, il Mulino, Bologna 2005 [Milano 1989]. Il volume più recente sull’argomento, articolato per brevi saggi talvolta un po’ convenzionali nei contenuti, è Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, I, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di Eva Cecchinato e Mario Isnenghi, Utet, Torino 2008.

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Cfr. Ass.Ris., XII, Sicilia, I, Camera dei comuni, 17 aprile 1848, pp. 226-8 e Ass.Ris., XIV, Sicilia, III, Camera dei pari, 18 aprile 1848, pp. 390-7.

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a suo dire l’ostilità del re, l’opposizione della maggioranza dei deputati e soprattutto l’avversione di «toute la partie remuante du pays». Al governo non restava apparentemente altra strada che «continuer à parler guerre». In quei mesi era ormai evidente, soprattutto agli osservatori moderati, e tra essi in particolare al direttore del «Risorgimento», quale straordinario peso avesse assunto la dimensione mediatica in una politica che si voleva nuova proprio perché fondata sulla trasparenza della parola. Per questo Cavour sentiva che parler guerre per il governo poteva significare una cosa sola: «et peut-être sera- t-il entraîné à la faire». La transizione dal dire al fare gli appariva a tal punto conseguente, che Cavour non giudicava per niente improbabile la soluzione militare: se il governo avesse mostrato «un peu de génie» e l’esercito fosse stato riorganizzato, dichiarava all’amico che da parte sua avrebbe addirittura preferito la guerra, sebbene le finanze pubbliche consentissero al paese di sopravvivere solo pochi mesi e le chance di successo apparissero scarsissime. Nonostante tutto, Cavour si spingeva a prevedere «un coup hardi, peut-être téméraire avant la fin de ce mois»470.

Sbagliava. Il regno di Sardegna non denunciò l’armistizio prima del marzo 1849. Anche Cavour cadeva vittima di un contesto in cui, dopo la fine dei combattimenti, lungi dall’uscire dall’agenda della polemica politica e dalla chiacchiera quotidiana, il parler guerre si era fatto talmente insistente – sulla stampa, nei circoli, nelle petizioni indirizzate alle camere, negli scambi epistolari tra privati – che nel parlamento subalpino l’argomento fu all’ordine del giorno non meno spesso di quando la guerra era in corso.

Ciò non accadeva esclusivamente a Torino. Anche a Firenze e a Roma per tutta l’estate 1848 si continuò a discutere di eserciti, armamenti e mezzi per suscitare l’entusiasmo popolare e l’arruolamento volontario. Solo a Napoli il tema della guerra nazionale ebbe più scarse occasioni per esprimersi. Qui, come sappiamo, dopo gli scontri del 15 maggio il governo Cariati aveva ordinato il ritiro del corpo di spedizione e a nulla valsero le reiterate richieste da parte di non pochi deputati, ed eccezionalmente di alcuni senatori, di rompere il silenzio su questo punto.

Nel 1849 la situazione non sarebbe mutata. Dopo l’appello di Giuseppe Montanelli alla costituente democratica e il congresso federativo di Gioberti a Torino nell’autunno 1848, pur nel quadro di soluzioni opposte, la potenziale mobilità dei confini politici interni alla Penisola contribuì a mantenere alta l’attesa di una traduzione militare, e non solo politica, di quelle aspettative. Nel parlamento subalpino e in quello toscano non si cessò dunque di parler guerre. E non potevano fare diversamente le assemblee delle repubbliche assediate di Roma e Venezia, dove, sebbene con sfumature diverse, il problema della difesa locale si intrecciava a un forte afflato nazionale.

Per tutto il biennio, quindi, le circostanze militari e diplomatiche costrinsero le assemblee italiane a fare della guerra uno dei temi più a lungo dibattuti. Vedremo all’occasione nel corso del capitolo con quali differenze, declinazioni e funzioni specifiche, legate alle situazioni locali e alle diverse

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scale dei conflitti. Ci concentreremo però sulla guerra d’indipendenza. Fu questa, infatti, a fornire alle assemblee di stati separati l’occasione di dimostrarsi parlamenti italiani. La guerra d’indipendenza chiamò il discorso parlamentare a un confronto stabile con uno spazio politico che trascendeva i confini della giurisdizione delle singole camere e le costrinse a misurarsi con la più potente metanarrazione coeva delle vicende quarantottesche: quella che – dalla poesia alle canzoni, dalla predicazione alla stampa, dai rituali al discorso politico – invariabilmente descriveva il presente come palingenesi patriottica,

rigenerazione, risorgimento471.

Le rappresentazioni del risorgimento politico, com’è noto, si definiscono in relazione a un paradigma antinomico: quello della decadenza degli Italiani. Si tratta di un topos interpretativo della storia della Penisola estremamente diffuso tra Sette e Ottocento, capace di offrire una master narrative efficace e seducente alle traiettorie dell’identità italiana, nella politica come nella morale, nella letteratura come nell’arte472.

Abbiamo già visto che, accanto agli aspetti oggi più studiati delle prove della decadenza degli Italiani – la mollezza fisica, la corruzione dei costumi, i primati perduti nella virtù militare, nel governo, nelle arti – anche l’eloquenza era giudicata scaduta e priva delle condizioni politiche ritenute necessarie al suo perfezionamento473. L’avvento della tribuna parlamentare nel 1848 fu accolto dunque, non solo

dagli addetti ai lavori, come un’occasione di riscatto per contraddire i convincimenti più mortificanti sull’inadeguatezza delle discipline retoriche al confronto con la modernità e sulle loro provate attitudini a una sterile pratica accademica, alla cortigianeria e al gesuitismo474. Ma se non tutto era perduto

neppure per una così controversa disciplina – tanto connaturata al carattere nazionale al punto da essere imputata più di altre di averlo pervertito con la storia dei suoi usi sotto i regimi assoluti – evidentemente il paradigma della decadenza non conduceva necessariamente al pessimismo sulla storia. Tutt’altro. In pieno Ottocento, come ha ricordato Alberto M. Banti, continuava infatti a essere vivace una concezione non lineare del tempo.

I cascami di una simile concezione appaiono evidenti soprattutto se osservati alla cartina di tornasole del discorso politico, più di altri ambiti di linguaggio settoriale bisognoso di appropriarsi di immagini condivise e comprensibili da pubblici ampi, a maggior ragione in un’epoca di conquistata e

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Cfr. S. Soldani, Il lungo Quarantotto degli italiani, in G. Cherubini et al., Storia della società italiana, XV, Il movimento nazionale e il 1848, Teti, Milano 1986, pp. 259-343 e Ead., Approaching Europe in the Name of the Nation. The Italian Revolution, 1846-1849, in D. Dowe, H.-G. Haupt, D. Langewiesche e J. Sperber (a cura di), Europe in 1848. Revolution and Reform, Berghahn Books, New York-Oxford 2001 [Bonn 1998], pp. 59-88. Sul lessico politico del lungo Quarantotto, come sulle sue continuità o fratture rispetto al vocabolario politico del Triennio, mancano studi approfonditi: cfr. E. Leso, 1848-1849: lingua e rivoluzione, in P. L. Ballini (a cura di), 1848-49 Costituenti e costituzioni cit., pp. 225-39. Per la più sistematica e ponderosa ricerca sul lessico politico di età giacobina cfr. Id., Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del Triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1991.

472

Cfr. E. Di Ciommo, I confini dell’identità. Teorie e modelli di nazione in Italia, Laterza, Roma-Bari 2005 e S. Patriarca, Indolence and Regeneration: Tropes and Tensions of Risorgimento Patriotism, in «American Historical Review», 2005, 2, pp. 380-408.

473

Cfr. infra, Capitolo 4.

474

Cfr. L. Richer, «Elle avait survécu à tous les régimes», ou la rhétorique selon Quinet, in A. Vaillant (sous la direction de), Écriture/Parole/Discours: littérature et rhétorique au XIXe siècle, Éditions des Cahiers intempestifs, Saint-Étienne 1997, pp. 77-88.

rivendicata pubblicità. L’ampia diffusione del paradigma della decadenza si fondava allora sulla derivazione da un composito retroterra culturale, in cui potevano coesistere gli echi classici, umanistici e poi vichiani delle visioni cicliche della storia, la concezione escatologica del tempo tipica della teologia e dell’antropologia cristiane, le aspettative millenaristiche che gli sconvolgimenti seguiti alla Grande Rivoluzione avevano contribuito a rinnovare a vari livelli delle culture popolari europee475. D’altra parte,

a questa molteplicità di fonti di legittimazione del discorso politico sulla decadenza corrispondeva una straordinaria duttilità del paradigma: applicato alla storia degli italiani, il paradigma si prestava infatti a flessioni molteplici e perfino contraddittorie, che nel primo Ottocento avevano sedotto i conservatori prima ancora dei (sedicenti) rivoluzionari. Agli uni la lettura della storia in termini di decadenza consentiva la masochistica contemplazione dell’esistente, e li induceva a vagheggiare un passato mitico da restaurare e imitare. Agli altri offriva l’occasione di sentirsi di volta in volta protagonisti attivi dello snodo in cui un processo perverso finalmente si sarebbe invertito, rafforzando così i moventi del volontarismo politico476. Rappresentare la storia e l’identità della nazione italiana in termini di

decadenza consentiva perciò di mantenere aperti i cammini di una perfettibilità possibile – anzi, di più: li rendeva necessari, inevitabili, prossimi.

Il peso del modello anaciclico impediva però di figurare il Risorgimento prossimo venturo al di fuori di contorni traumatici, peraltro assai cari alla sensibilità e all’immaginario romantici. Come ho anticipato più volte, nel lungo Quarantotto italiano il contesto traumatico della catarsi patriottica non poté che essere riconosciuto nella guerra, un evento il cui mito, ricostruito su scala europea da George L. Mosse, era stato coltivato su tutto il continente da parte delle generazioni post-rivoluzionarie mediante il culto dei caduti477. Prospettive più recenti di storia culturale (ispirate, per così dire di ritorno,

agli studi sulla prima guerra mondiale) hanno suggerito però che sia possibile andare oltre il quadro mossiano. Più che un mito coltivato in ambienti circoscritti anche se diffusi, e lentamente fatto proprio dalle istituzioni statali, per gli uomini e le donne dell’Ottocento la guerra – intesa come vissuto personale o familiare, memoria o eventualità – conservava il ruolo di potente principio ordinatore di valori ed esperienze. Di conseguenza, come ha scritto Odile Roynette, «l’objet guerre permet d’entrer au cœur des systèmes de représentations des hommes et des femmes du XIXe siècle, et d’aborder des

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Su questi temi cfr. tra gli altri A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000; M. Caffiero, La nuova era. Miti e profezie dell’Italia in rivoluzione, Marietti, Genova 1991; Ead., Religione e modernità in Italia (secoli XVII-XIX), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2000.

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Cfr. S. Luzzatto, Giovani ribelli e rivoluzionari (1789-1917), in G. Levi e J.-C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, II, L'età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 233-310.

477

Cfr. G. L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990 [Oxford-New York 1990]. Per una recente applicazione del modello mossiano alla storia italiana cfr. O. Janz e L. Klinkhammer (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008.

questions a priori bien éloignées de la guerre elle-même, comme l’apprentissage du politique par exemple»478.

Il discorso parlamentare quarantottesco non sfuggì a questa dinamica. Ed è proprio sul terreno degli aspetti mobilitanti del paradigma della decadenza che si rivelarono i significati più profondi di quella sorta di liaison dangereuse ma irrinunciabile tra il discorso parlamentare e il tema bellico, che abbiamo visto all’opera ben prima dell’apertura delle camere e dello scoppio della guerra479.

Nel discorso parlamentare, infatti, assemblee e guerra si presentano come i due principali luoghi simbolici in cui prende forma la metanarrazione del Quarantotto come risorgimento, ovvero come antitesi

della decadenza. La ritrovata tribuna della voce del popolo e il campo di battaglia sono le sedi, correlate, in cui

si pretende di cogliere la sospirata inversione del plurisecolare trend storico del soffocamento della libertà e dell’indipendenza italiane.

Pertanto è proprio intorno all’oggetto-guerra, in particolare alla guerra d’indipendenza, che il discorso parlamentare si mise ripetutamente alla prova, segnando i propri confini esterni – nel confronto con i governi e con le società civili dei vari stati – e misurando le proprie linee di frattura interne – che rivelarono spesso fragili e illusorie, anche se mai per questo sconfessate, le pretese di unanimismo istituzionale.