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La rappresentanza attraverso la voce

LO SPETTACOLO PRIMA DELLO SPETTACOLO

3.4 La rappresentanza attraverso la voce

Se la scelta e l’allestimento delle sedi da parte di corone e governi dimostrava un evidente tentativo di arginare l’autonomia della funzione legislativa, a maggior ragione istituti parlamentari appena nati, in cerca di consensi presso un pubblico in massima parte non socializzato alla politica, ebbero bisogno di fare propri linguaggi che definissero con semplicità ed efficacia la loro identità e autonomia istituzionale.

L’occasione si presentò presto. Seguendo l’uso delle monarchie costituzionali europee, tra i primi atti ufficiali che impegnarono i parlamenti italiani ci fu la redazione di un Indirizzo di risposta di ciascuna camera al Discorso della corona pronunciato dai sovrani o dai loro incaricati durante le cerimonie inaugurali. Nei parlamenti italiani fu adottata la procedura in uso nella Francia della Restaurazione. Mentre in Gran Bretagna lo speaker incaricato dal ministero rispondeva direttamente, a voce, improvvisando un discorso che ripeteva punto per punto i temi appena toccati dal sovrano o dal suo delegato nella seduta inaugurale – conformemente a due tradizioni procedurali ancora radicate a metà Ottocento: la proibizione di leggere discorsi scritti e il rifiuto del lavoro per uffici –, in Francia l’indirizzo era elaborato da apposite commissioni parlamentari e veniva discusso e approvato in aula, prima che una deputazione ne presentasse il testo scritto al re. Il primo modello era comunemente tacciato di ridursi a una componente accademica del rituale di insediamento, dato che il vero dibattito politico sulle prospettive di governo delineate dalla corona sarebbe cominciato solo in seguito. Il

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Ass.Ris., IX, Roma, IV, Assemblea costituente, 30 aprile 1849, p. 390.

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secondo, invece, costringeva il parlamento a un vero e proprio dibattito politico, dal quale sarebbe dovuto uscire un documento di franco confronto con il governo257.

Come era già avvenuto per i testi delle costituzioni, l’adozione della procedura francese anche in merito all’indirizzo conferma che non erano stati soltanto i ristretti circoli governativi a guardare alla storia politica e istituzionale di quel Paese come al serbatoio più familiare di esperienze e precedenti esemplari. Anche dall’interno delle camere – che pure si aprirono tutte dopo la proclamazione della repubblica a Parigi, apoteosi del fallimeno di quel modello – l’esperienza politica della Francia della Restaurazione apparve il precedente più adatto a orientare la produzione legislativa in una società attraversata dagli sconvolgimenti di una politicizzazione crescente258. Conformemente al significato

della pratica di discussione assembleare dell’indirizzo nella recente storia francese, dunque, anche nei parlamenti italiani quel dibattito fu inteso come atto di rivendicazione e insieme di fondazione dell’autonomia della funzione legislativa dopo il discorso della corona. Ma se a Torino e a Firenze le parole dei sovrani ricevettero buona accoglienza, anche sulla stampa di parte democratica259, non

accadde lo stesso a Roma e a Napoli, dove di conseguenza anche la redazione dell’indirizzo richiese settimane di dibattiti, durante le quali la rivendicazione della funzione della rappresentanza fu richiamata con insistenza da parte di deputati e senatori.

L’elaborazione degli indirizzi avveniva infatti contestualmente all’assunzione delle proprie funzioni da parte di rappresentanti che – dopo l’elezione (per i deputati) o la nomina (per i senatori) e dopo il giuramento prestato congiuntamente durante le cerimonie inaugurali – si sottoponevano (senatori esclusi) al terzo e definitivo livello della loro investitura, la cosiddetta verifica dei poteri, ovvero

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Per alcune ricerche in tema di circolazione internazionale di modelli di organizzazione politica cfr. la sezione intitolata Parliaments and Parties/Parlements et partis politiques in «European Review of History/Revue Européenne d’Histoire», 2005, 12, numero speciale a cura di Henk te Velde dedicato al tema dei political transfers/transferts politiques e in particolare il contributo di N. Roussellier, The Political Transfer cit. Tornando all’Italia del 1848 occorre registrare che proprio «Indirizzo» è una delle voci inserite nei lessici politici del tempo: cfr. il radicale Dizionario politico popolare (1851), a cura di Pietro Trifone, Salerno Editrice, Roma 1984, pp. 127-8.

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Ancora dall’assemblea francese proveniva il regolamento parlamentare adottato dalla camera subalpina: il testo era una semplice traduzione più che un adattamento e fu proposto ai deputati in via provvisoria dal governo, che ne aveva stampate e distribuite le copie tra i partecipanti alla seduta inaugurale. Le altre camere basse adottarono il testo torinese, nell’attesa di regolamenti interni definitivi che non dappertutto, come vedremo, sarebbero venuti (nella stessa camera subalpina il regolamento non sarebbe stato discusso che in minime parti fino a tutto il 1849); cfr. Camera dei deputati, Servizio Biblioteca, Documenti per la storia del Regolamento della Camera dei deputati, «Dossier di documentazione storica», 1971, 1, pp. 17- 28 e p. 465.

259 A Firenze persino «Il Popolano», fautore tutt’altro che blando delle forme repubblicane, promosse una ricezione

estremamente positiva del discorso della corona. Pur nel quadro di quella che continuava a definire la «finzione costituzionale» il giornale tratteggiava un elogio del «nipote di Leopoldo I» e arriva a scrivere che per i suoi miti precedenti di governo «fu sempre in potenza il principe costituzionale d’Italia». Se dunque non mostrava sorpresa per gli applausi rivolti per via al sovrano, «Il Popolano» non si stupiva invece di quelli mancati ai deputati e ai senatori: «Si voleva forse che il popolo dicesse: noi siamo sicuri che farete bene e che ci rappresenterete a dovere? Non vorremmo assicurare che il popolo fosse persuaso del contrario; ma ad ogni modo aveva il diritto di esclamare nell’animo suo: vi vedrò alla prova e giudicherò dei nostri meriti cittadini. Ad allora gli applausi o la reprobazione». Come peciseremo più avanti, l’articolo qui citato mostra già che nel discorso pubblico esisté una vera e propria contesa per l’applauso del popolo: nell’immaginario dei contemporanei il circuito della pubblica espressione del consenso e del dissenso continuava ad andare in cerca di una sanzione collettiva. In particolare, da parte dei parlamenti si desiderava che quella sanzione fosse la stessa – l’applauso, l’investitura manifesta di affetto e fiducia – riservata ai sovrani. Cfr. «Il Popolano», 28 giugno 1848.

l’esame della compatibilità di ciascun eletto coi requisiti previsti dalle leggi elettorali e il giudizio sui casi di elezioni contestate. L’indirizzo assunse dunque per ciascuna delle camere italiane il significato della prima solenne affermazione della propria funzione pubblica. Come si è accennato, così fu interpretato in particolare là dove la scollatura tra camere basse e governi appariva già in uno stato avanzato all’avvio delle attività parlamentari. È dunque soprattutto a Roma e a Napoli che occorre spostarsi per veder emergere con evidenza l’orizzonte simbolico-discorsivo nel quale si situò l’avvio della distinzione della politica parlamentare dagli altri poteri statali e dalle sedi concorrenti del discorso pubblico.

Proprio a Napoli il deputato Ernesto Capocci, per invitare i colleghi a non tergiversare nella redazione di un indirizzo che peraltro Ferdinando II si sarebbe rifiutato di ricevere, rivendicò esplicitamente la funzione della rappresentanza con una metafora alla quale occorre prestare attenzione: «voi non ignorate – si rivolse ai deputati – con quanta ansietà il nostro paese attendeva la voce del principe; la stessa ansietà esiste tuttavia per udire la voce della nazione, la nostra voce»260. Non si tratta

di una metafora isolata. Al contrario, il parlamento rappresentato come «voce del popolo» o «voce della nazione» (dove nazione dimostra la circolazione, ancora in pieno 1848, del significato localistico di popolazione di uno stato) è un’immagine estremamente diffusa. Per questo, e come accade con ogni metafora, dovremmo prenderla sul serio. Non dobbiamo giudicare che si tratti “solo” di una metafora, giacché è soprattutto attraverso le figure di linguaggio che la politica media i propri contenuti presso il suo pubblico, ed è soprattutto attraverso le figure di linguaggio usate nella comunicazione pubblica (mai casuali o prive di significato) che cerca di promuovere emozioni, consensi, identificazioni261.

Sofferimiamoci ancora a Napoli. Soltanto Leopoldo II, si ricorderà, aveva pronunciato personalmente il discorso della corona. Carlo Alberto era impegnato al campo e fu sostituito durante la cerimonia inaugurale dal luogotenente. A Roma fu il cardinale Altieri a fare le veci di Pio IX nel clima di accesa tensione seguito al 29 aprile. A maggior ragione a Napoli, dopo i sanguinosi scontri del 15 maggio, il re preferì delegare l’onere al presidente del consiglio dei ministri. La stampa d’opposizione non mancò di notarlo. Mentre criticava aspramente i contenuti di un discorso che evitava ogni riferimento alla guerra d’indipendenza, al clima di repressione interno e alla rivoluzione in Calabria, non mancò di denunciare lo stato di paura diffuso per la capitale. Ma la critica dell’assenza del re passò anche attraverso la ridicolizzazione delle scarse qualità oratorie del duca di Serracapriola, che,

260 Così si espresse nella seduta del 10 luglio 1848 l’astronomo e direttore dell’osservatorio di Capodimonte Ernesto

Capocci, eletto a Sora in Terra di Lavoro; cfr. Ass.Ris., X, Napoli, I, p. 120; cit. anche in C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849. Storia dell’istituto e inventario dell’archivio, Camera dei deputati, Archivio storico, Roma 1992, p. 89 (a cui rinvio per le notizie biografiche su Capocci).

261 Cfr. F. Rigotti, Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992. Accanto a una funzione meramente ornamentale delle

metafore politiche, Francesca Rigotti individua altre dimensioni, che rendono le metafore inseparabili dal discorso politico tout court: la «funzione evocativa» (che mira a suscitare un riconoscimento nel destinatario del discorso pubblico) e la «funzione costitutiva» (che attraverso immagini definisce il significato stesso della politica). Rigotti suggerisce pertanto allo storico che studiare la politica significhi anche addentrarsi nei meccanismi di comunicazione e di riconoscimento articolati intorno a immagini apparentemente secondarie rispetto ai contenuti propositivi e razionali. Cfr. Ead., Metafore della politica, il Mulino, Bologna 1989.

«pallidissimo; la voce bassa, anzi fioca», «lesse con voce chioccia e tremante» un discorso che non giunse alle orecchie dei più262.

Fra i palpiti della speranza e di un’incertezza dolorosa ieri l’altro rompeva l’alba del primo luglio, e la nostra città in luogo di esser lieta e giuliva, come nel giorno dell’esultanza e della festa, parve a tutti sconsolata e deserta. Mute erano le vie, chiusi gli usci delle case e delle botteghe, per tutto un silenzio ed una mestizia che ti piombava al core e quasi ti forzava alle lagrime. Raccolti i pochi Pari e i pochissimi Deputati nella gran sala degli studii, il Duca di Serracapriola, delegato del Re, lesse con voce chioccia e tremante il discorso della corona, che non fu né compreso, né inteso da alcuno, eppure venne accolto dal pubblico con profondissimo silenzio. Coloro che taciti e soli eran venuti a quella solennità, taciti e soli si ridussero a casa [...]263.

Considerati i linguaggi di legittimazione rituale delle monarchie d’ancien régime, l’insistito accenno del cronista del «Mondo vecchio e mondo nuovo» al silenzio e alla solitudine del pubblico deve essere letto come un’accusa assai più grave di quanto possa apparire a uno sguardo superficiale.

Già prima del discorso di Serracapriola il pubblico è rappresentato come individualizzato e muto: grazie all’immagine delle porte chiuse della città, il cronista costringe i lettori a figurarsi famiglie ripiegate nel loro privato, impossibilitate per paura a vivere come una festa pubblica quella che la retorica liberale definisce ovunque sulla Penisola la sospirata alba della libertà. La monarchia borbonica avrebbe dunque destrutturato qualsiasi sentimento di società. Conseguentemente, anche il pubblico presente all’inaugurazione è descritto come individualizzato e muto: l’atto di ascolto della parola sovrana, o meglio l’atto di ascolto mancato, l’atto di un ascolto incomprensibile, non si scioglie nell’atteso applauso collettivo, segno esteriore di una ricezione comunitaria. Un’altra cronaca di quella giornata, comparsa sul «Nazionale» di Silvio Spaventa, ci tiene a precisare: «Finita la lettura, la sala è restata muta, stupefatta: non un segno d’approvazione, non un gesto di assentimento: ognuno si sentiva come un enorme peso sull’animo. Un mormorio sordo ha accompagnato l’uscita del delegato. Gli stessi Pari non hanno osato fiatare: mentisce chi ha già scritto che vi sieno stati applausi. Bugiardi! Voi avete fatto il callo alla sfacciataggine ed all’impudenza»264.

La contesa politica intorno all’applauso di cui aveva dato conto il «Giornale costituzionale delle Due Sicilie» – foglio ufficiale che nel clima seguito al 15 maggio era sempre più spesso tacciato di essere smaccatamente filogovernativo, se non tout court cortigiano – rivela la centralità di simili “dettagli” nelle coeve rappresentazioni del processo di istituzionalizzazione della politica liberale.

262 Così secondo le cronache de «Il Nazionale», 1 luglio 1848 e del «Mondo vecchio e mondo nuovo», 3 luglio 1848 dalle

quali provengono rispettivamente le due citazioni. Anche a Palermo fu il capo del governo, Ruggiero Settimo, a pronunciare il discorso inaugurale: in questo caso, tuttavia, non si trattò affatto di una delega del monarca a un rappresentante dell’esecutivo, perché il discorso di Settimo nella Sicilia ribelle alla corona borbonica sostituì de facto il discorso della corona tipico dei regimi monarchico-costituzionali, configurandosi piuttosto come la presa di parola del leader più carismatico, quasi un presidente che parla al legislativo di uno stato democratico.

263 «Mondo vecchio e mondo nuovo», cit. 264 «Il Nazionale», cit.

Comunicare al pubblico la svolta, chiamarlo a farsi un’opinione su di essa, è possibile solo dentro un orizzonte simbolico sospeso tra vecchio e nuovo. Anche vista dal versante dei linguaggi pubblici, dunque, si conferma la natura bifronte dell’esperienza politica del Quarantotto italiano. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che l’avvento delle istituzioni liberali si situa lungo un percorso che non interrompe ipso facto abitudini mentali e rappresentazioni sociali tipiche dell’ancien régime, ma le accoglie, prosegue, rielabora o denuncia, a seconda dei casi e dei tempi. Se il silenzio oppure il dissenso esplicito della folla di fronte agli spettacoli della maestà sovrana costituiva uno dei consueti canali di espressione della legittimazione o della delegittimazione collettiva265, proprio l’immagine del silenzio (il mancato

applauso, nel caso napoletano) continuò a essere usata polemicamente negli scritti dell’opposizione liberale prima, radicale poi, dove appare riferita a un’entità collettiva che non è più chiamata folla ma

pubblico, opinione, popolo, nazione.

D’altra parte, se si ricordano Lambruschini e Beaufort, che il giorno delle inaugurazioni dei parlamenti a Firenze e a Roma andavano in cerca senza grande successo degli evviva e di segni sui volti dei presenti – gioia, lacrime –, la conquista di questa sfera di un consenso emotivo esibito, di un consenso dei corpi e dei cuori, appare assai difficoltosa in primo luogo per la neonata, sconosciuta istituzione dei parlamenti. Dovettero esserne consapevoli soprattutto coloro che di quel sistema politico erano sostenitori. Non stupisce allora che a Napoli abbiano tentato di impossessarsi di un’immagine nota e potente – la metafora della voce e il circuito metaforico voce-applauso – in un’aspra contesa politica con i presunti avversari della svolta costituzionale. Accusare il re e il suo governo di essere stati incapaci di una parola trasparente, fondatrice di un’identità condivisa, creatrice di una risposta dei corpi e dei cuori equivale ad accusarli di non godere più della pubblica legittimazione. In questo vuoto è proprio il parlamento che si candida a interprete di sentimenti costretti per decenni nelle maglie strette di un’espressione del dissenso priva di canali pubblici legittimi: è il parlamento che si incarica in altre parole di fornire all’applauso la dignità articolata di una voce.