TERTIUM DATUR: L’«OPINIONE»
2.3 Un concetto in azione: opinione tra popolo e nazione
Dai repertori lessicografici e dagli studi esistenti si può ricavare tuttavia che – come è stato ricostruito per contesti storico-culturali diversi130 – la locuzione si è formata da una progressiva
emancipazione del termine opinione dall’associazione originaria con l’instabile mutevolezza dei giudizi individuali, fino ad assumere, già nel Triennio, in associazione all’idea di pubblicità, il senso di un sistema normativo di verità, relativo alle vicende della vita pubblica, elaborato (e sentito) collettivamente da parte dei destinatari dei provvedimenti politici e non da parte dei diretti protagonisti. Il termine medio dello sviluppo del nuovo concetto pare essere stato una concezione molto concreta di pubblico, inteso come l’insieme degli spettatori dei teatri e dei lettori di romanzi, gazzette, opuscoli: un’istanza di giudizio che non si identificava con le autorità costituite, civili o religiose che fossero. A partire da simili testi e dalle occasioni di sociabilità a essi associate, stando all’ampia ricognizione di Giuseppe Aliprandi131, i nuovi spazi di parola e di azione apertisi sulla Penisola nel Triennio (e di nuovo ridotti in
129 Tra i contributi più recenti e interessanti cfr. S. Landi, “Pubblico” e “opinione pubblica”: osservazioni su due luoghi comuni del lessico politico italiano del Settecento, in «Cromohs», 2008, 13, on line URL: http://www.cromohs.unifi.it/13_2008/landi.html (ultimo accesso dicembre 2008).
130 Cfr. almeno: J. A. W. Gunn, Public Spirit to Public Opinion, in Id., Beyond Liberty and Property. The Process of Self-Recognition in Eighteenth-Century Political Thought, McGill-Queen’s University Press, Kingston and Montreal 1983, pp. 260-315; M. Ozouf, L’opinion publique, in K. M. Baker (ed.), The Political Culture of the Old Regime, Pergamon Press, Oxford-New York-Beijing- Frankfurt-São Paulo-Sydney-Tokyo-Toronto 1987, pp. 419-34; K. M. Baker, Public opinion as political invention, in Id., Inventing the French Revolution. Essays on French Political Culture in the Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Port Chester-Melbourne-Sydney 1990, pp. 167-99.
131 Per quanto lacunoso, resta un utile strumento il censimento delle occorrenze del lemma “opinione”, del sistema dei
vocaboli ad esso associati, delle locuzioni in cui ricorre e infine dei suoi significati, curato da Giuseppe Aliprandi, con particolare riferimento a “opinione pubblica”; si tratta di un vecchio lavoro in dieci puntate, che si estende fino al Novecento; rinvio ai soli contributi che interessano il periodo qui preso in esame: cfr. G. Aliprandi, Dalla “opinione comune” alla “pubblica opinione” nella seconda metà del Settecento, in «Atti e memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti già Accademia dei Ricovrati. Memorie della Classe di Scienze morali, Lettere ed Arti», a.a. 1964-1965, pp. 483-503; Id., Dalla
età napoleonica132) contribuirono alla genesi di un sedicente nuovo soggetto politico. Anche Erasmo
Leso sottolinea che questa accezione è già maturata, per quanto non sia univoca, in età giacobina133. Lo
testimonia tra l’altro, e converso, un libello ferocemente antidemocratico edito a Venezia nel 1799, uscito anonimo ma in realtà composto dall’ex gesuita svedese Lorenzo Ignazio Thjulen – libello che sarebbe nuovamente comparso a Firenze nel dicembre 1849 e a Napoli l’anno seguente con lievi modifiche e aggiunte. Con nera ironia il testo sottolineava già il valore olistico e normativo dell’opinione come se si trattasse di un’evoluzione paradossale del significato originario del termine:
OPINIONE. Era ed è nella lingua antica vocabolo generale. Nella Lingua Repubblicana è stato ridotto a senso ristrettissimo. Per esempio: Libertà d’opinione, che nella Lingua comune sinora significava il potere opinare come ognun vuole, in Lingua Repubblicana significa che solo, ed unicamente si può opinar per Ateismo, Incredulità, Democrazia e Libertinaggio. L’opinare altrimenti, si permette soltanto dai Repubblicani dove non possono arrivare con spoglj, esiglj e fucilature134.
La descrizione della tirannia dell’opinione si contrappone efficacemente all’immagine – propria già della prosa giacobina – del tribunale dell’opinione, suggerendo un’idea di ingiustizia e violenza là dove i fautori del valore emancipatorio dell’opinione pubblica riconoscono in essa l’istanza di una giustizia in sé superiore ai canali istituzionali esistenti: proprio come sarà nel 1848, quando, lo stiamo vedendo, sarà un soggetto che si autodefinisce opinione ad additare ai sovrani, per mezzo di petizioni, dimostrazioni e della libera stampa, le riforme ritenute necessarie135.
Anche se l’opinione del 1848 sarà lontana dalla rousseauiana volonté générale che s’indovina fin troppo palesemente dietro la definizione di Thjulen, echi di quel concetto continueranno a farsi sentire nel quadro di una lunga tradizione di elaborazioni che non abbandona affatto l’idea di un soggetto
“opinione pubblica” dei Verri, ai giornali giacobini italiani (1766-1796), ivi, a.a. 1965-1966, pp. 295-323; Id., L’«opinione pubblica» dai giornali giacobini al Conciliatore (1796-1819), ivi, a.a. 1966-1967, pp. 157-210; Id., La «opinione pubblica» dal Leopardi alla prima guerra d’indipendenza, ivi, a.a. 1967-1968, pp. 69-123. Rispetto al rapporto tra pubblico e opinione pubblica, che si mantiene ben oltre la genesi settecentesca del concetto, cfr. l’interpretazione del teatro della Restaurazione come spazio sociale e politico avanzata da C. Sorba, Teatri. L’Italia del melodramma nell’età del Risorgimento, il Mulino, Bologna 2001.
132 Cfr. la comunicazione di Marco Meriggi, Opinione pubblica, a Cantieri di storia. Terzo incontro sulla storiografia contemporaneistica italiana, Convegno Sissco, Bologna 22-24 settembre 2005.
133 Cfr. E. Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del Triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1991, in part. pp. 116-20.
134 Cito dall’edizione del 1849; cfr. Nuovo vocabolario filosofico-democratico indispensabile per chiunque brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, Campolmi, Firenze 1849, p. 30.
135 A questo stesso modello sono da riferire, mi sembra, al di là delle differenti strategie adottate, anche i punti di vista
espressi negli stessi mesi dai protagonisti dell’opposizione antiaustriaca nel Lombardo-Veneto. Mi riferisco in generale alle pratiche della cosiddetta lotta legale adottata tra gli altri da parte di Carlo Cattaneo e Daniele Manin e in particolare all’avvicinamento ad essa di Niccolò Tommaseo, che, dopo il discorso pronunciato a fine dicembre 1847 all’Ateneo Veneto contro la censura, a cui era seguita una petizione che raccolse oltre seicento firme, nelle lettere del gennaio seguente esprimeva soddisfazione per la nascita di quella che definiva appunto opinione legale, cioè un soggetto collettivo capace di esprimersi per mezzo della parola e non delle grida; cfr. Carteggio Tommaseo-Vieusseux, III, tomo II, (1848-1849), a cura di Virgilio Missori, Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Le Monnier, Firenze 2002, pp. 5-7; in generale cfr. P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Einaudi, Torino 2007 [Milano 1978], pp. 77-81.
olistico e unanimistico e che anzi proprio per questo sarà assai cara al discorso pubblico quarantottesco136.
Date le ascendenze, non stupisce che questa prima accezione si riaffacci da parte democratica: la voce Opinione del Dizionario politico popolare delineerà un profilo fortemente olistico del concetto, recuperando persino l’adagio vox populi, vox dei caro a tutto il pensiero democratico europeo e, più in generale, diffuso trasversalmente nel lessico politico del Quarantotto italiano, assai permeabile a parole, simboli e riti di matrice cattolica137. Tuttavia – ricordo che il dizionario torinese uscì nel 1851 in
ambienti vicini alla sinistra costituzionale ma venati di un forte radicalismo – ormai opinione è declinato in un’accezione non solo antipluralista (come già nel 1847-48) ma sorprendentemente classista, rivelando forse la necessità di appropriarsi da sinistra di una delle parole più popolari tra quelle che avevano “fatto il Quarantotto” e che ormai gli scontri ideologici anche feroci in cui la rivoluzione nazionale era culminata avevano finito per associare stabilmente al côté moderato nel quale erano apparse le elaborazioni teoriche più compiute proprio in funzione antirivoluzionaria138. La voce Opinione
sarà per questo una tra le più radicali e populiste dell’intero Dizionario. Vi si legge:
siccome la base sociale è la sovranità popolare e il potere non è di diritto divino, ma lo è invece la sovranità popolare di cui il potere è un’emanazione, il popolo non solamente col suffragio universale costituisce questo potere, ma esercita sopra esso una continuata pressione manifestando la sua opinione sopra la condotta di lui. Perciò nei paesi liberi si dice che l’opinione è l’arbitra del potere, è il tribunale della coscienza pubblica139.
Il governo non deve solo obbedire a questo «quotidiano termometro», bensì «incoraggia[re] ogni pacifica e libera dimostrazione del pensiero, sia dalla gran tribuna della stampa, sia su quella dei teatri, come nelle adunanze delle associazioni operaie». Al popolo spetta tuttavia di diffidare degli «imbroglioni politici», «delle lenti e dei telescopii che [gli] mettono dinanzi gli occhi i dottori della politica». Un rapido esempio basta a istruire: il filosofo Locke che scrive una costituzione per gli Americani e gli Americani che ne trovano una assai più libera da sé – ed erano «idioti contadini e rozzi operai»: esempio che suona come un’indiretta ma esplicita denuncia delle modalità costituenti seguite tre anni prima e del testo così prodotto. In altre parole, all’uscita dal ciclo rivoluzionario, nel quadro di narrative concordi nel descrivere i sovrani piegati alla forza dell’opinione, sono l’accezione moderata di opinione pubblica e i
136 Gli stessi echi sono evidenti nell’articolo sulle dimostrazioni che abbiamo ampiamente citato, tratto da un giornale allora
accesamente neoguelfo come «L’Italia» di Giuseppe Montanelli, dove fu stretta la confluenza tra il lessico di antica derivazione democratica e quello legato al recente revival del cattolicesimo liberale promosso da Vincenzo Gioberti.
137 Sulle antiche origini e sugli usi del motto, in un’interpretazione che lo distacca da una tradizione democratica per
connetterlo a quello più ampio di comunità politica, passibile di usi da parte ecclesiastica come secolare, cfr. A. Boureau, L’adage vox populi, vox dei et l’invention de la nation anglaise (VIIIe-XIIe siècle), in «Annales. Économies. Sociétés. Civilisations»,
1992, 4-5, pp. 1071-89.
138 Mi riferisco in particolare a M. d’Azeglio, Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana, in Id., Scritti e discorsi politici,
I, (1846-1848), a cura di Marcus de Rubris, La Nuova Italia, Firenze 1931.
suoi risultati a poter essere radicalmente messi in questione. «O popolo! sia veramente tua la tua opinione, ed allora sarà vero che la voce del popolo è la voce di Dio»140.
Anche intorno al concetto di opinione pubblica si giocò dunque la battaglia politica del 1848, replicando quel processo di progressiva usura dei termini unificanti della vigilia che erano stati elaborati nel corso degli anni Quaranta, quando opinione non confliggeva col termine vago e indeterminato di
popolo, ma poteva affiancarsi o sovrapporsi a esso. Perfino Giuseppe Mazzini, rivolgendosi al pubblico
inglese, nel 1845 non esitava in un punto a tradurre con public opinion il soggetto che per tutto il pamphlet chiamava popolo o, ancora più spesso, Italiani:
Voi riponete tutta la vostra fiducia nell’onnipotenza della verità, e fate bene; ma voi potete propagare quella verità per mezzo della stampa, potete predicarla mattina e sera nei vostri giornali, potete insistervi con conferenze, potete renderla popolare nei comizi: in breve, essa sorge minacciosa sulle piattaforme elettorali, donde voi la mandate al vostro parlamento, sorretta dalla maggioranza. Noi Italiani non abbiamo né Parlamento, né piattaforme elettorali, né libertà di stampa, né libertà di parola, né possibilità di pubbliche riunioni legittime, non un solo mezzo per esprimere l’opinione che in noi si agita141.
Gli Italiani hanno un’opinione al singolare, custode della verità, ma non hanno i mezzi per esprimerla. Nel 1847 quei mezzi, lo abbiamo visto, sembravano trovati: stampa, petizioni, dimostrazioni. Se il fatto che siano stati trovati precisamente contro il metodo mazziniano delle insurrezioni apre incrinature fin troppo evidenti, per il momento quanti si appropriano del termine sottacciono pubblicamente le divergenze. Non a caso lo stesso epistolario di Mazzini a fine 1847 mostra atteggiamenti oscillanti rispetto alle dimostrazioni, guardate ora come sonniferi per il popolo ora come un’ottima occasione di propaganda patriottica, capace al contempo di educare il popolo e piegare i sovrani142. Nel 1848, poi,
arriveranno elezioni e parlamenti e il presunto unanimismo dell’opinione si troverà platealmente smentito. Ma talmente grande sarà lo choc culturale di dover ammettere e disciplinare l’esistenza di opposti partiti che ancora nell’ottobre di quell’anno – siamo forse ai limiti della tenuta del concetto da parte democratica – in un tipico dialogo destinato all’educazione popolare uno dei due interlocutori può domandare all’altro, in aperta polemica con lo spirito di fazione, «Le riforme che hanno condotto lo stabilimento del governo rappresentativo, non sono dovute a questa forza della pubblica opinione?». E la risposta è: «Senza dubbio»143. Qui, come ovunque finora.
140 Ivi, pp. 165-7.
141 Cito dalla versione italiana: cfr. G. Mazzini, Italia, Austria e il Papa [1845], in Id., Scritti editi ed inediti, XXXI, Cooperativa
tipografico-editrice Paolo Galeati, Imola 1921, pp. 191-463, cit. pp. 363-4. Mazzini pubblicò a Londra l’opuscolo presso Albanesi col titolo Italy, Austria, and the Pope. A Letter to Sir James Graham, Bart. by Joseph Mazzini.
142 Cfr. G. Mazzini, Scritti editi e inediti, XXXIII, Cooperativa tipografico-editrice Paolo Galeati, Imola 1921, pp. 4-187
passim.
143 L’indifferenza nella politica. Dialogo, in «Giornaletto pei popolani», 16 ottobre 1848, ora in D. Bertoni Jovine (a cura di), I periodici popolari del Risorgimento, I, Il periodo risorgimentale (1818-1847); La rivoluzione (1847-1849), Feltrinelli, Milano 1959, pp. 505-9, cit. p. 508. Nello stesso dialogo l’opinione pubblica è definita secondo le coordinate del potere di controllo e dell’unanimismo, con un’accentuazione del manicheismo tipica della letteratura per il popolo: «[la pubblica opinione] coi
Davvero ovunque: perché, dialogo popolare a parte, alla stessa domanda si sarebbe risposto affermativamente anche alle corti di Napoli, Torino, Firenze e Roma. Se il discorso monarchico non cederà mai a fare espressamente dell’opinione pubblica la misura del consenso alla corona, ovvero una nuova leva della propria legittimazione, come invece si pretendeva da parte liberale; se paternalismo e antecedenti storici, lo abbiamo visto, legittimarono ufficialmente la svolta costituzionale; altre fonti, però, suggeriscono che dietro le quinte si sia pensato altrimenti.
Riandando col ricordo alle dimostrazioni e alle feste fiorentine del 1847, un principe due volte e ormai definitivamente allontanato dal trono, Leopoldo II, notava che la folla in marcia «parea suono di guerra fra le case ed i fiori di Firenze»144, «era un’armata, una scena nuova in Firenze»145; soprattutto,
con riferimento alla festa del 12 settembre, organizzata dal municipio e, si potrebbe dire, dalla stampa liberale al di fuori di un effettivo controllo del governo: «Le segreterie in questo giorno furono chiuse per la prima volta, cosa non accaduta mai a memoria d’uomini; quasi che quel giorno il governar restasse sospeso»146. Le metafore belliche e la sensazione di un attentato mascherato alla propria
sovranità mostrano anche a distanza di tempo che l’antagonismo nei confronti di un soggetto ormai comunemente definito opinione pubblica era avvertito con notevole drammaticità da parte dei governi preunitari. La conferma più evidente emerge dai verbali del consiglio di conferenza torinese, dove quelle che il potere sovrano avvertiva come minacce provenivano da un’opinione capace di organizzarsi tra stampa, dimostrazioni e petizioni. Nella seduta del 3 febbraio 1848 il ministro della pubblica istruzione, marchese Cesare Alfieri di Sostegno, pronunciava parole decise e decisive: era necessario «mantenere sulle masse il proprio ascendente salutare e domare l’opinione», perché
l’opinione pubblica più o meno informata sulle questioni più gravi, ma sovreccitata dalla stampa liberale, soverchia il Governo da ogni parte, al punto da intralciare nel modo più allarmante la sua azione e la sua iniziativa; e se è così, non è meglio costituire legalmente l’opinione in un Parlamento, anziché lasciar durare questo stato di antagonismo, il cui urto diretto ed immediato scuote ogni giorno la Monarchia fin nelle sue fondamenta?147
discorsi, con le discussioni, con le stampe, coi consigli, con gli avvertimenti amichevoli s’appura, cresce di forza, e supera il male dovunque esso sia, perché prevalga il bene in tutto e per tutto. Se tu, se molti si condannassero sempre al silenzio, all’inerzia, all’indifferenza, la pubblica opinione non vi sarebbe, e questa forza potente mancando nello Stato lo farebbe debole non solo contro i faziosi ma anco contro il governo qualora esso mancasse al proprio dovere [...]» (ibidem).
144 Il governo di famiglia in Toscana. Le memorie del granduca Leopoldo II di Lorena (1824-1859), a cura di Franz Pesendorfer, Sansoni,
Firenze 1983, p. 304.
145 Ivi, p. 306.
146 Ivi, p. 305. Dalle finestre di casa Guidi anche una poetessa inglese osservava ammirata la scena, in cui vedeva ricomporsi
un’intera società ordinata in nome della libertà (O bella libertà, O bella!): «The people, with accumulated heats,/ And faces turned one way, as if one fire/ Both drew and flushed them [...]» e poco sotto, leggendo un cartello (che in realtà corrispondeva alla testata di un giornale senese) «Il Popolo –/ The word means dukedom, empire, majesty,/ And King in such an hour might read it so»; cfr. E. Barrett Browning, Casa Guidi Windows, with a prefatory note by William A. Sim, Giannini, Firenze 1926 [1851], cit. rispettivamente pp. 15, 33, 35.
La costituzione apparve infine come la soluzione più capace di canalizzare entro vincoli definiti dal potere monarchico il dissenso potenziale. D’altra parte, aveva sostenuto nell’intervento precedente il ministro degli esteri conte Ermolao Britannio Asinari di San Marzano, il governo era «troppo debole per resistere al principio costituzionale, che è il fine al quale tende con evidenza il movimento italiano» e, al contrario di un controllato sviluppo del regime costituzionale, la resistenza a oltranza significherebbe «porsi in un vicolo cieco alla fine del quale vi sarebbe soltanto un trono costituzionale i cui scalini sarebbero insanguinati, così come è appena successo al Re di Napoli»148.
In realtà, all’inizio del mese precedente, prima della concessione napoletana, pur senza auspicarlo, l’ipotesi di uno stato d’assedio era stata seriamente presa in considerazione. Il 7 gennaio era stato lo stesso Carlo Alberto a lamentarsi risolutamente della polizia genovese, «la quale aveva permesso che si disponessero dei tavoli nelle piazze pubbliche per ricevere delle sottoscrizioni per l’espulsione dei Gesuiti e per la creazione di una Guardia Nazionale e che fosse tollerata la partenza di una Deputazione per la Capitale al fine di presentare quelle istanze al Re»149. Nella seduta successiva era ancora il sovrano
a dichiararsi «deciso a non lasciar distruggere la Monarchia dallo spirito esagerato del giornalismo»150 e
uno dei principali argomenti in discussione fu la nota riunione dei principali esponenti del giornalismo torinese all’albergo Europa. Questi si erano dati convegno per la sera del 7 gennaio, alla vigilia della prevista presentazione al re della petizione genovese sottoscritta da migliaia di firmatari (fino a quindici o ventimila, si sostenne), alla quale intendevano associarsi. A sorpresa, Cavour avanzò la richiesta di una costituzione con l’intento esplicito di prevenire soluzioni più arrischiate (un intento non dissimile da quello che abbiamo visto circolare anche tra i ministri assoluti del re). La proposta divise il fronte liberale ma partorì il giorno dopo, quando la deputazione genovese già era stata malamente accolta dal ministro dell’interno (che le aveva lasciato due ore per partire dalla città), un documento redatto da Giacomo Durando e firmato da lui stesso (direttore dell’«Opinione»), Cavour (direttore del «Risorgimento»), Angelo Brofferio (direttore del «Messaggiere torinese») e Francesco Predari (direttore dell’«Antologia italiana» e responsabile del «Mondo illustrato»)151. Il testo, dopo aver dichiarato pieno
sostegno alle richieste giunte al governo da Genova, recitava:
148 Ivi, p. 116. Quella del trono insanguinato e, più in generale, la minaccia del bagno di sangue è un’immagine che ricorre
con una frequenza sorprendente nelle sedute di quelle settimane.
149 Seduta N. 1 in ivi, p. 90. Il timore era quello di una segreta cospirazione separatista, di cui aveva avuto sentore il ministero
dell’Interno: cosicché fu progettato che la truppa genovese andasse a messa armata, che reprimesse senza remore eventuali disordini, che fosse disposta a trincerarsi nei forti per non perdere la città (ma per il momento l’attuazione di simili provvedimenti venne rinviata); cfr. ivi, pp. 92-3. Pochi giorni dopo, l’insurrezione separatista siciliana farà temere un’imitazione da parte della capitale dell’antica repubblica ligure; cfr. Seduta N. 6, ivi, p. 120.
150 Seduta N. 2, ivi, p. 99. Il tema del disciplinamento della stampa e le discussioni sull’efficienza e sui compiti dei collegi di
revisione, sarebbero rimasti aperti anche nelle sedute successive: «dopo aver grandemente biasimato il carattere e lo spirito