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Dalla voce al testo: le implicazioni politiche dell’oralità

ROMANTICI MALGRADO TUTTO?

5.2 Dalla voce al testo: le implicazioni politiche dell’oralità

Nella situazione di un conflitto tra i numerosi soggetti di parola impegnati a fare, comunicare, giudicare la politica, era essenziale in primo luogo assicurare adeguati spazi di pubblicità alle proprie discussioni. Quella che era una pratica consolidata nei regimi parlamentari europei, la pubblicazione dei resoconti d’assemblea385, appariva a maggior ragione necessaria negli stati italiani, sia per il bisogno di

383

Ibid. Il riferimento è agli eventi napoletani del 15 maggio, sui quali torneremo più avanti.

384

Ibid.

385 Cfr. V. Strinati, Note sulla pubblicità dei lavori parlamentari dallo Statuto Albertino alla Costituzione repubblicana, in «Le Carte e la

storia», 2008, 2, pp. 23-39. Sulla lunga storia dei rapporti tra pubblicità e lavori parlamentari (controversa soprattutto in Gran Bretagna, dove ancora in pieno XVIII secolo la divulgazione dei dibattimenti era punita come breach of privilegies,

promuovere la conoscenza dei meccanismi di funzionamento del regime costituzionale sia per dimostrare di corrispondere alle metafore di sé che i singoli deputati come le assemblee avevano esaltato allo scopo di fondare su basi autonome i linguaggi della propria legittimazione. Ma quest’esigenza si scontrò con alcuni problemi.

In un’epoca che proclamava il principio della pubblicità ma ancora non conosceva le tecniche di registrazione e riproduzione audiovisiva, istituti come i parlamenti, che rivendicavano di costituire la più autentica e legittima voce del popolo (o della nazione) e ai quali la satira opponeva l’immagine di consessi rumorosi, sonnolenti o vaniloquenti, non potevano che interpretare in termini politici la problematica necessità di certificare presso il «pubblico» quanto avveniva al loro interno. Non bastava che la parola – un oggetto volatile, effimero, equivoco – fosse regolata nel momento della performance oratoria, e quindi si manifestasse secondo pratiche codificate e confini che i diversi regolamenti si incaricarono di precisare. Quella stessa parola, che solo se pronunciata secondo regole condivise poteva pretendere alta dignità istituzionale, aveva bisogno di un’ulteriore disciplina.

Quando lo Statuto dice le tornate sono pubbliche, la pubblicità della discussione non si deve intendere limitata al pubblico che assiste alla tornata, perché questa sarebbe una scarsa ed incompleta pubblicità. Uopo è che le tornate si conoscano per tutto il Regno, e sien pubbliche per l’Europa intera: ciò si ottiene per mezzo della stampa soltanto.

Questo espresse con decisione e chiarezza al parlamento napoletano il deputato aquilano Giuseppe Pica (futuro proponente della nota legge per la repressione del brigantaggio nel 1863, durante l’VIII Legislatura, la prima postunitaria)386. Pica enunciava un principio che nessuno dei suoi colleghi sulla

Penisola avrebbe osato contraddire: l’assoluta necessità di una pubblicità differita delle attività parlamentari. Quello che pochi avrebbero potuto udire, e magari fraintendere, al chiuso dei «recinti» assembleari (secondo una delle metafore più diffuse per rappresentare le aule parlamentari), tutti fuori da quei recinti avevano il diritto di conoscere, intendere, giudicare387. Perché il regime della pubblicità

fosse pienamente compiuto, occorreva dunque che lo statuto orale delle parole pronunciate in assemblea si facesse pagina, diventasse testo, scritto: l’oralità continuamente sfuggente doveva essere fermata in una versione stabile, certificabile e certificata, ultima.

infrazione ai privilegi del parlamento e solo nel 1803 ai giornalisti fu concesso un posto riservato in galleria) e sulle principali teorizzazioni politiche in proposito cfr. P. Mancini, Manuale di comunicazione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 34-61.

386 Ass.Ris., X, Napoli, I, Camera dei deputati, 19 agosto 1848, p. 387.

387 Lo ripeteva molti mesi più tardi nella stessa aula Francesco De Blasiis quando richiedeva che l’intero andamento delle

sedute fosse oggetto di pubblicazione, compresi i disegni di legge ancora in fase di progetto, che venivano letti in aula o negli uffici ma raramente erano riportati sui giornali: perché «nel mentre che le Commissioni lavorano sul proposito, la stampa ed i cittadini possono, ed han dritto di manifestare la loro opinione, avversa o favorevole a quei progetti»; Ass.Ris., XI, Napoli, II, Camera dei deputati, 10 marzo 1849, p. 403. Sulla storia della pubblicazione dei dibattiti parlamentari in Italia cfr. V. Strinati, Note sulla pubblicità dei lavori parlamentari cit.

A questo scopo non potevano bastare i processi verbali redatti in ogni assemblea da appositi estensori (generalmente i segretari) durante lo svolgimento dei dibattiti. Secondo quanto avveniva in tutti gli organi collegiali dotati di uno statuto formalizzato, i verbali costituivano un documento ufficiale ma a uso interno – che l’assemblea discuteva e approvava all’apertura di ogni seduta per la precedente. Erano resoconti sintetici e riportavano tutti gli interventi nella forma di discorsi indiretti in terza persona. Non dovevano certificare più che «lo andamento intellettuale e lo spirito delle discussioni medesime», non certo «l’andamento materiale di tutto ciò che è stato detto o avvenuto nel corso della discussione»388. Come si espresse un membro dell’Alto Consiglio romano, ciò che i verbali potevano

restituire era «l’ombra del pensiero, non già lo stesso pensiero che manifesta la mente del Consiglio»389.

Non sarebbe stato ammissibile, dunque, che la voce del popolo tornasse al popolo impossibilitato all’ascolto e costretto allo spettacolo di una rappresentanza differita per mezzo di una traccia tanto impoverita.

D’altra parte, non era neppure possibile affidarsi totalmente, senza controlli, al giornalismo. Il Consiglio dei deputati toscano fu il solo a optare inizialmente per questa soluzione, votando all’unanimità la proposta che la commissione ad hoc presieduta da Raffaello Lambruschini aveva portato in aula. Il rapporto letto da Lambruschini il 10 luglio 1848 dichiarava di voler conciliare due istanze, una esterna e una interna al discorso parlamentare: «la legittima curiosità del pubblico» e la necessità di «autenticità» ovvero di «verità di tutto ciò che qui sia detto dai signori deputati»390. Anche in

questo caso si ripeté che per ragioni sia di tempo sia di opportunità, ai processi verbali si sarebbe potuta richiedere soltanto l’autenticità «delle proposizioni, delle deliberazioni, e della sostanziale parte delle

opinioni», non però la minuta precisione nelle forme dei discorsi, che pure era necessario in qualche

modo riportare391. Mostrando una fiducia allora assai rara nei confronti del giornalismo, la commissione

proponeva di affidare questo «difficile e pericoloso ufficio» «allo zelo e all’interesse dei privati»392.

Neppure la partigianeria, si sosteneva, avrebbe infatti consigliato ai giornali di falsare artatamente le opinioni espresse da deputati a cui fossero ostili, perché le reiterate smentite che ne sarebbero venute avrebbero finito per screditare in primo luogo la testata. E d’altra parte l’assemblea, provvedendo a collocare gli stenografi del giornale governativo come di altre testate in posizione «da poter intendere con precisione ogni parola», avrebbe favorito il loro compito, fornendo per di più una copia a stampa dei verbali ufficiali a tutti i direttori dei giornali, «i quali avranno così un autentico riscontro per correggere, se mai fosse necessario, le relazioni da loro pubblicate; avranno un attestato del favore

388 Ass.Ris., XIII, Sicilia, II, Camera dei comuni, 10 ottobre 1848, p. 530; così si espresse il presidente della camera Mariano

Stabile.

389 Così Tommaso Gnoli; Ass.Ris., VII, Roma, II, Alto Consiglio, 17 luglio 1848, p. 381. 390 Ass.Ris., III, Toscana, I, Consiglio generale, 10 luglio 1848, p. 91.

391 Ibidem. Corsivo mio. 392 Ibid.

dell’Assemblea verso la stampa giornaliera, e un ricambio del dono che dei loro giornali spontaneamente ci fanno»393.

Tale equilibrio apparentemente virtuoso non sarebbe invece andato immune da perduranti critiche e lamentele, che non si erano ancora esaurite nel gennaio dell’anno seguente, quando, tra gli altri, l’avvocato Giuseppe Panattoni, che due mesi più tardi sarebbe stato nominato vicepresidente durante la breve esperienza della costituente toscana, richiedeva che l’organo dell’allora governo democratico, il «Monitore toscano», pubblicasse con maggiore rapidità e precisione una versione ufficiale autentica dei dibattiti. Infatti gli altri giornali – che secondo le aspettative implicite nella mozione votata sei mesi prima avrebbero presto acquisito, con l’esercizio, la dovuta cura e imparzialità – in realtà «più solleciti compendiano, e talvolta non esattamente né schiettamente, la discussione ed il resultato delle adunanze»394. Almeno dall’organo governativo si pretendeva di ovviare a una

trascuratezza che avrebbe finito col mettere a rischio la stessa dignità dell’assemblea:

Quanto a me ho tanto poca vanità che non farei lamento se ne’ soli poverissimi miei discorsi si trovassero erroneità tipografiche, che sembrano alle volte tali spropositi di lingua, da fare fuggire un barbaro. Ma deve generalmente rincrescere il vedere che i discorsi di tutti i deputati sono riportati con tanti errori che parrebbe quasi il nostro Parlamento perdute le forme del raziocinio. Questa è cosa che umilia e credo che tutta l’Assemblea dovrà riprovare395.

Il primo problema politico relativo all’inesattezza dei resoconti pubblicati a mezzo stampa era dunque un problema d’immagine dell’istituzione parlamentare. In termini molto simili si era espresso il deputato cagliaritano Giovanni Siotto-Pintor due settimane dopo l’inaugurazione della camera subalpina, quando a detta di molti altri interessati si incontravano tanti e tali trascuratezze ed errori nella registrazione e, di conseguenza, nella pubblicazione delle orazioni parlamentari che «impossibile riesce ad ogni anche accorto leggitore il trarne onesto costrutto»396. E questo risultava inammissibile non solo

per l’immagine pubblica degli individui, ma per l’immagine dell’istituzione nel suo complesso e perfino per la «nazione», esposta allo sguardo dell’Europa:

In questi primi giorni in che di fatto si esercita dai rappresentanti del popolo il potere sancito dallo Statuto, necessario, assolutamente necessario, parmi che diasi a tutta Italia, o meglio all’Europa intiera, un’alta idea dell’Assemblea nazionale. Or come ciò fia se manchino in essi quei pregi sui quali quasi sopra immutabili pareri la bontà d’ogni discorso si aggira, io dico l’ordine logico dei ragionamenti e la dignità dell’eloquio? Un discorso che non sia logico, se anche fornito a dovizia d’ogni forma d’estrinseca bellezza, a niente varrà, dappoiché la logica è la base d’ogni opera dell’intelletto, chiamata perciò rettamente la scienza delle scienze. D’altra parte un logico ragionamento, quando difetti, non dico

393 Ivi, p. 92.

394 Ass.Ris., IV, Toscana, II, Consiglio generale, 26 gennaio 1849, p. 601. 395 Ibidem.

della venustà, ma sì dell’ordine e della chiarezza nel dire, mai a nessuno piacerà, essendoché la parola è la veste del pensiero. Ei mi sembra dunque che niuno di noi possa con quieto animo portare che i suoi discorsi, per le molte lacune che vi si fanno, appaiano non logici siccome quelli in che manca il nesso delle idee, e molto meno ancora che a uomini italiani e civili si faccia parlare il gergo di Nembrotte. Se la logica è il fondamento d’ogni sapere, e se come ben disse Alessandro Weil la logica è Dio, la lingua è a sua volta l’espressione più viva della natura dei popoli, l’argomento ad un tempo ed il veicolo più forte della nazionalità397.

Il discorso parlamentare fatto testo doveva conservare tanto l’ordine logico dei ragionamenti quanto la dignità

dell’eloquio, mentre invece, in quei primi giorni di sedute, gli stenografi che lo registravano ancora

apparivano male organizzati e inesperti, riproducendo spesso in sintesi – come si trattasse di verbali – i discorsi che si richiedeva loro di replicare letteralmente398. E anche chi riconosceva, poche settimane

dopo, i progressi in celerità e precisione dell’organo governativo, non trascurava comunque di ammonire sulla delicatezza del compito che svolgeva la «Gazzetta peimontese», in quanto «il governo libero e costituzionale è governo di pubblicità, e nulla debbe rimaner nascosto al popolo che ci commise la cura de’ suoi interessi, delle sue speranze, de’ suoi timori»399.

Come si può intuire dai riferimenti fin qui fatti alla «Gazzetta Piemontese» e al «Monitore Toscano», in realtà da subito le assemblee degli stati italiani ebbero un rapporto privilegiato con i fogli ufficiali dei rispettivi governi. Per fare un altro esempio, dei trentacinque giornalisti, tutti uomini, accreditati all’Assemblea Legislativa veneziana nel 1849, addirittura un terzo, dodici, era costituito dai collaboratori dell’organo ufficiale della Repubblica, la «Gazzetta di Venezia», seguiti dai cinque della «Lega Italiana» e dai quattro della «Rigenerazione Italiana»; la maggior parte delle altre testate, prevalentemente ma non tutte locali (erano accreditati tra gli altri un corrispondente per la «Riforma» di Lucca e uno per la «Gazzetta di Augusta»), preferì avere al massimo due corrispondenti da poter alternare alle sedute400. Proseguendo l’uso avviato nei primi giorni di sedute, furono i fogli governativi la

397 Ibidem, corsivo mio. Analogamente, a Roma, oltre un mese più tardi, nel corso di una discussione sull’accuratezza dei

resoconti pubblicati nella «Gazzetta di Roma», il deputato Luciano Bonaparte, principe di Canino, notava con la consueta enfasi: «Voglio esser responsabile delle mie parole, non degli errori dei tipografi! Vengo all’esempio. Nel riferire alcune parole di un collega, le caratterizzai per grafiche, e questo motto si tradusse in giroglifiche; un’altra volta che dissi fedifrago, lo tramutarono in fetifago, ossia mangiator di fanciulli. Sonovi pure altri sconci, cui non è possibile ci sottomettiamo, mandando buoni alcuni discorsi che mancano del senso comune»; in Ass.Ris., VI, Roma, I, Consiglio dei deputati, 30 giugno 1848, p. 169.

398 Fin dalle prime settimane di regime costituzionale la «Gazzetta piemontese», 4 marzo 1848 aveva precocemente

promosso la scuola di stenografia di Filippo Delpino, già professore alla Regia Accademia Militare, personalmente vicino agli ambienti governativi, che sarebbe in effetti divenuto responsabile del servizio di stenografia della Camera. Sugli aspetti tecnici cfr. G. Panarello, La stenografia e la resocontazione dei lavori parlamentari: origini ed evoluzione della stenografia, in «Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari», 1983, 2, pp. 189-206. Per l’intero biennio, in tutte le camere, ci si continuò a lamentare per la carenza numerica e per la scarsa qualità professionale degli stenografi italiani.

399 Parl.Sub., Disc.Cam., I, 14 giugno 1848, p. 160. Con questo intervento l’abate Costanzo Gazzera ritirò una proposta che

aveva letto in aula alcuni giorni prima per la nomina di una commissione permanente incaricata di vigilare sulle pubblicazioni della «Gazzetta piemontese» relative alla Camera; cfr. Parl.Sub., Docc., I, p. 71. Fin dal 12 maggio precedente il compito di controllare le versioni a stampa dei dibattiti comparse sull’organo governativo era già stato affidato ai segretari; cfr. Parl.Sub., Disc.Cam., I, 12 maggio 1848, p. 11.

400 I dati si ricavano da una lista manoscritta, con il titolo Biglietti ai giornalisti, contenuta nel fascicolo miscellaneo Assemblea dei Rappresentanti dello Stato di Venezia. 1849. Documenti varii in ASVe, Governo Provvisorio (22 marzo 1848-24 agosto 1849), b. 438.

sede che tutte le assemblee deputarono a organo ufficiale anche per la pubblicazione dei propri resoconti. Nonostante gli spazi talora esplicitamente previsti dalle carte costituzionali401, per l’intero

biennio 1848-49 tutte le assemblee italiane mancarono di un organo periodico dedicato, posto interamente sotto la loro responsabilità. Nessuna arrivò mai a pubblicare compiutamente e stabilmente un giornale, come aveva fatto nel 1820-21 il parlamento napoletano con il suo «Diario». Ricordando quel precedente, l’opportunità di un foglio d’assemblea si affacciò come ipotesi alla discussione, anche se non fu mai adottata, sia per l’impegno finanziario che avrebbe significato, sia per uniformarsi alla prassi che era ormai in uso negli altri stati europei402.

I giornali governativi – che erano divisi in una sezione ufficiale (che riportava i testi di atti governativi, decreti, leggi) e in una sezione non ufficiale – destinando la pubblicazione dei resoconti parlamentari alla prima parte offrivano senz’altro il vantaggio di distinguere le assemblee dai soggetti di parola potenzialmente concorrenti, ma d’altra parte potevano esporre il Legislativo a uno strumento controllato dall’Esecutivo. Le modalità scelte per la traduzione dell’oralità in testo avevano dunque una seconda implicazione politica403. Fu a Napoli che si difese con i toni più aspri la necessità di garantire

indipendenza, autonomia ed efficacia ai resoconti parlamentari pubblicati sul «Giornale costituzionale delle Due Sicilie».

Come sappiamo a Napoli, per i continui rinvii nell’inaugurazione delle camere, poi per gli scontri del 15 maggio e infine per i provvedimenti restrittivi che ne erano seguiti, il conflitto istituzionale tra camera dei deputati ed Esecutivo apparve da subito esasperato. Mentre Silvio Spaventa denunciava coraggiosamente il clima di «ironia della libertà» in cui l’«usurpazione progressiva del

Sulla stampa veneziana del biennio cfr. l’utile mappatura con antologia di G. Pillinini, Il giornalismo politico a Venezia nel 1848- 49, Archivio Guido Izzi, Roma 2005. L’autore conta in almeno settantacinque i titoli di quotidiani, periodici, fogli irregolari, numeri unici (esclusi bollettini e notiziari) usciti in città nei diciassette mesi di vita delle repubblica veneta.

401 Lo Statuto fondamentale del governo temporale degli Stati di Santa Chiesa recitava all’art. 17: «Le sessioni dell’uno e dell'altro

Consiglio sono pubbliche. Ciascuno Consiglio però si forma in Comitato segreto sulla domanda di dieci membri. Gli atti dei due Consigli sono pubblicati a cura di essi»; cito da Ass.Ris., VI, Roma, I, Proclami e decreti, p. 10.

402 In Sicilia la Camera dei Comuni ebbe propri stenografi solo a partire dal mese di settembre 1848 ma non per questo

modificò la destinazione della pubblicazione dei propri atti ufficiali, che rimase a cura del giornale governativo nonostante gli accalorati ammonimenti del liberale conservatore Leonardo Vigo a favore di un «Giornale del Parlamento»: «attualmente siamo alla discrezione dei giornalisti, che pubblicano quello che vogliono, e come lo vogliono, e ciò per interesse, o per parzialità, o per ignoranza»; Ass.Ris., XIII, Sicilia, II, 3 settembre 1848, p. 353. Anche se gli atti del parlamento siciliano non soffrirono di mancanza di pubblicità, minutamente seguiti com’erano dal giornale ufficiale e da molte testate (in particolare «L’indipendenza e la lega» di Francesco Ferrara), solo a fine agosto 1848 la camera dei comuni si dotò di un proprio servizio di stenografia, bandendo un concorso per quattro posti che fu superato da un solo candidato, Michele Bottari; i deputati dovettero risolversi ad ammettere gli altri cinque concorrenti come scolari, e a bandire ulteriori selezioni; cfr. ivi, Camera dei comuni, 28 agosto 1848, pp. 324-5.

403 Paradossalmente, chi sollevò per primo la questione a Torino fu proprio un esponente del governo, il titolare degli Esteri

Lorenzo Pareto: mentre sosteneva che la camera, in quanto rappresentante della «nazione», «forma per conseguenza il Governo dello stato», e quindi che i suoi atti dovevano di necessità essere ospitati nel «foglio officiale pegli atti governativi», egli si premurò di allontanare preventivamente qualsiasi sospetto che la pubblicazione dei resoconti sulla «Gazzetta piemontese» volesse significare l’esercizio di una qualche influenza sulla camera e sulle sue deliberazioni. Guadagnandosi altissimi applausi e mostrandosi favorevole all’ipotesi di un comitato di controllo nominato dall’assemblea ostentò, al contrario: «è mente del Ministero [...] che le cose procedano colla più grande, più perfetta, più ingenua libertà»; Parl.Sub., Disc.Cam., I, 12 maggio 1848, p. 11.

potere» costringeva a vivere gli stessi deputati in aula, oltre ai giornali ormai ridotti all’autocensura404,

Giuseppe Pica entrava nel merito della pubblicazione dei dibattiti parlamentari. Il 19 agosto 1848 denunciò che il giornale ufficiale aveva «riformato nelle idee e nelle parole, e ringentilito da cima a fondo» un discorso del ministro delle finanze e aveva invece censurato con un semplice Pica interrompe il suo intervento a difesa della dignità della camera: «il giornale ufficiale travisa le discussioni della Camera, e non rende i discorsi che qui si fanno con quell’imparzialità che è necessaria; né certo è conveniente che noi per emendarlo facciamo reclami al direttore del giornale, il quale spesse volte li respinge»405.

L’argomentazione di Pica veniva a sostegno della proposta di De Blasiis che gli atti della camera fossero stampati a cura della camera stessa, per di più che molti tipografi si erano già proposti in via ufficiale406. Nella discussione che seguì emerse che gli stenografi nella disponibilità della camera

appartenevano in realtà al ministero degli interni e, anche se i ritardi e le irregolarità nella pubblicazione non potevano essere personalmente imputati loro, era evidente che il meccanismo si inceppava da qualche parte («non so dove», alluse Nicola De Luca407). Inoltre se il governo non vietava ai deputati la

consultazione di quei lavori, tuttavia neppure distribuiva alla camera una copia delle trascrizioni stenografiche. Tra i benissimo, benissimo! gridati da ogni parte, il presidente della camera dispose allora di ammettere gli stenografi del governo solo a condizione che lasciassero copia del loro lavoro alla camera, la quale poi avrebbe dovuto disporre come meglio credeva della pubblicazione. La conclusione fu che