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Avvocati, paglietti, accademic

LE EREDITÀ DELL’ORATORE

4.3 Avvocati, paglietti, accademic

Lo storico del diritto Pasquale Beneduce ha ricostruito un affresco molto affascinante dei rapporti tra la storia dell’eloquenza forense e la storia politica italiana del XIX secolo. Beneduce ha riservato soprattutto attenzione alla congiuntura dell’unificazione e all’età postunitaria e ha mostrato

319 Della maniera di studiare la lingua cit., p. 12. Poche pagine prima osservava stupito Puoti (siamo nel 1838): «anche le donne

cominciano a volger l’animo a questo studio, e son pochi giorni passati che essendo stato invitato all’esame di un convitto di donzelle, con mio grande diletto udii recitarmi con assai buon garbo alcuni luoghi del Pandolfini, il quale altra volta era un libro sconosciuto anche agli uomini» (ivi, p. 10).

320 Corso elementare di rettorica cit., p. 36. 321 Ivi, pp. 36-7.

l’esistenza di un vero e proprio canone narrativo sull’avvocatura, che sottolineava tra alcune contraddizioni il ruolo sociale e politico svolto da questa categoria di professionisti nella costruzione di una sfera pubblica e di una vera e propria eloquenza nazionale lungo l’intero Risorgimento322. Sebbene

Giuseppe Zanardelli notasse opportunamente, nel 1875, che nell’Italia preunitaria l’esistenza di regimi normativi differenti aveva impedito di individuare un centro motore anche solo lontanamente paragonabile alla funzione svolta dal foro di Parigi in Francia, per di più in un contesto a lungo deficitario quanto a libertà di parola e di azione pubblica, lo stesso giurista non sfuggiva al canone dominante quando sottolineava, tra gli altri, che «l’avvocatura italiana mantenne alteramente l’invitta costanza nei propositi di una nazionale rivendicazione»323. Nel quadro della cultura postunitaria, simili

ricostruzioni replicavano la diffusa immagine organicistica e teleologica della storia nazionale, nella quale i vari corpi sociali o professionali (in particolare quelli alla ricerca di una nuova legittimazione nel nuovo ordinamento) apparivano concordemente orientati alla conquista della libertà e dell’indipendenza. Se però guardiamo alla produzione risalente all’età della Restaurazione, sembrano emergere alcune contraddizioni più marcate, non prive di ricadute sull’immagine dei deputati del 1848.

Indubbiamente, in assenza della tribuna, fu da parte dell’avvocatura che a più riprese si rivendicò l’eredità dell’oratore classico, sia (in maniera controversa) quanto alla preparazione retorica, sia quanto alla funzione civile, sia quanto al profilo morale. Il ritratto che nei primi anni Trenta Domenico Tartaglia faceva dell’avvocato napoletano Francesco Lauria univa il riconoscimento della maestria oratoria alla capacità di sottrarre gli individui alla loro sfera privata e quindi di contribuire all’edificazione della sfera pubblica nei limiti legali allora concessi. Siamo a Napoli, dove la procedura (al contrario degli altri stati preunitari) prevedeva la pubblicità dei dibattimenti, ed ecco dunque «centinaia di giovani di tutte le classi passare le ore intere stretti gli uni contro gli altri, con gli occhi fissi a lui, temendo anche di respirare». Un nutrito consesso che all’autore evoca senza dubbio le «antiche e numerose adunanze nelle quali un intero popolo era eccitato dalla voce di un oratore»324. Dopo la morte

di Giuseppe Poerio nel 1843 era Pasquale Stanislao Mancini ad associare quella che definiva un’eloquenza forense di fama impareggiabile su scala europea a un ritratto morale dal sapore classicistico («Alle elevate qualità dell’intelligenza univa egli poi un cuore generoso, aperto alla virtù, alla carità della patria, ed a’ più nobili sentimenti, nonché una dignità e semplicità di costumi di cui solo gli antichi tempi potevano offrir qualche esempio»325).

322 Cfr. P. Beneduce, Il corpo eloquente. Identificazione del giurista nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1996. 323 G. Zanardelli, I meriti dell’avvocatura (1875), cit. ivi, p. 173.

324 D. Tartaglia, Raccolta delle arringhe penali dell’avvocato Francesco Lauria (1832), cit. ivi, pp. 210-1. Quanto agli stereotipi

classicistici nel giudizio positivo sull’eloquenza di Lauria, trovo emblematico il seguente bozzetto: «In un’accusa, descrivendo egli la guerra civile, indicava il furor delle parti, le carneficine, gli orrori; e fu così vivo e animato il suo dire [...] che giunto alla conclusione pronunziando queste parole – il sangue che scorre giunge alle vostre toghe, o giudici – vari dei giudici, credendo vero in quel punto ciò che l’oratore diceva, le si accorciarono» (ivi, p. 211).

325 Cfr. la nota firmata Mancini in P. Ulloa, Della eloquenza forense presso i moderni e degli studi oratori del barone Poerio, in «Giornale

Tuttavia, nonostante analoghe autopresentazioni potessero apparire ancora pienamente condivise dai più noti avvocati eletti deputati del 1848 (abbiamo letto Brofferio, in proposito), il pubblico della Restaurazione, più che essersi formato allo spettacolo diretto delle arringhe recitate in tribunale, dové conoscere per altre vie i “prìncipi del foro”326. Tra le principali, una vasta letteratura

para-giudiziaria fatta di collezioni di arringhe e soprattutto (per quanto i contorni di questa produzione non siano ancora stati precisamente definiti per l’Italia) di repertori di cause celebri327. Nella Francia

pre-rivoluzionaria, dove il genere si era diffuso, i contenuti dalle originarie implicazioni omiletico-morali di cause estratte dalle epoche più diverse si erano a poco a poco spostati verso l’attualità, contribuendo alla formazione di un pubblico interessato alle modalità di funzionamento della giustizia e alle sue storture. Eppure non è possibile ignorare che l’interessamento dei lettori per istituti e problemi attinenti alla sfera pubblica era promosso nel quadro di convenzioni narrative fortemente standardizzate, caratterizzate dalla voyeristica messa in scena di tipi umani stereotipati e calati in un contesto di deciso manicheismo morale, che contribuivano «alla fissazione di un immaginario sociale durevole relativamente al colpevole e all’innocente, ai vizi e alle virtù, al criminale e all’onestuomo, al deviante e al normale»328. Tutti aspetti questi, che dalla parte del pubblico nel secolo seguente sarebbero risuonati

assai familiari, poiché ricorrevano in numerose altre produzioni di ampia diffusione, come il melodramma, caratterizzato nei suoi plot proprio da un esasperato manicheismo valoriale. L’adesione a tropi narrativi assai diffusi contribuì così ad accrescere il gusto per una produzione elaborata in origine da professionisti della giustizia a margine del sistema, e poi sempre più spesso da professionisti della parola, letterati e giornalisti. Ma un simile processo secondo Mazzacane non restò senza effetti sugli avvocati stessi, che si trovarono così sospinti verso «un nuovo stile nella scrittura e nell’oratoria».

Se [le cause celebri, nda] non fornirono dei veri e propri modelli, per la trascuratezza e l’enfasi che le impregnava, richiamarono però l’attenzione sulla costruzione letteraria dell’arringa e dell’allegazione, sull’impiego delle risorse narrative nella qualificazione delle fattispecie e nell’illustrazione di problemi giuridici controversi. In qualche modo insegnarono ad usare un linguaggio accessibile all’opinione pubblica convocata a sostegno delle proprie tesi

326 Panfilo Gammelli, traduttore di una raccolta di celebri arringhe in lingua francese, a metà del decennio precedente

scriveva che in realtà le cause si svolgevano «in una quasi solitudine, dinnanzi a pochissimi prescelti»; cfr. P. Gammelli, Introduzione alle arringhe criminali scelte dalle più celebri del foro francese (1824), cit. in P. Beneduce, Il corpo eloquente cit. p. 210. 327 Sul genere di portata europea delle causes célèbres tra Sette e Ottocento cfr. A. Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica: le raccolte di cause celebri tra bel mondo, avvocati e rivoluzione, in M. Marmo e L. Musella (a cura di), La costruzione della verità giudiziaria, ClioPress, Napoli 2003, pp. 53-100.

328 A. Mazzacane, Letteratura, processo e opinione pubblica cit., p. 96 (corsivo mio). Oggi che si discute spesso di “processi

mediatici”, risultano assai interessanti alcune considerazioni d’insieme di Mazzacane: «Il materiale offerto al pubblico non suscitava però solo spiriti riformatori. Consolidava convinzioni tradizionali o innalzava ripari tenaci alle innovazioni. Per esempio confermava il persistente valore probatorio, in senso tecnico, attribuito alla fama e al buon nome, o addirittura alla decorosità dell’aspetto, alla gayeté, la serenità mantenuta durante il processo. Contro gli sforzi della teoria, insisteva nella preferenza accordata alle consuetudini della pratica: la bigamia, l’adulterio, lo stupro, su cui ancora per oltre un secolo i trattati si sarebbero esercitati con distinzioni “moderne”, si ritenevano perseguibili in proporzione del turbamento prodotto nell’ordine sociale, e non nella misura assoluta pretesa dalla configurazione degli istituti. In definitiva la separazione tra morale e diritto, specie in campo penale, che costituiva un obiettivo primario dell’illuminismo giuridico e della dogmatica più avanzata, era il fine meno condiviso e compreso dai compilatori. In un certo senso le cause celebri, intrecciando razionalità e commozione, rafforzavano ulteriormente il legame» (ivi, pp. 97-8).

contemperando abilmente Entfachlichung – ossia l’eliminazione dei contrassegni della specifica competenza – e specialismo disciplinare329.

Tuttavia, la pretesa di aver ereditato la funzione sociale che la storia della retorica attribuiva all’oratore classico e quella di incarnare virtù pubbliche parlando un linguaggio dal registro elevato e coinvolgente, ma nel quadro di cause dal contenuto privatistico e spesso assai spiccio, poteva provocare involontari effetti di ridicolo – come sintetizza Mazzacane: «il rincorrersi dell’ovvio [...] nell’esuberanza declamatoria dell’abnorme»330. Per questo, negli stessi anni, era possibile leggere ritratti burleschi degli

avvocati, caricature in cui piccineria e magniloquenza si mescolavano: la piccineria di cause trattate da disonesti o ridicoli trafficoni con la magniloquenza delle citazioni più ricercate e delle declamazioni teatrali.

Il ritratto monumentale dell’avvocato servitore del pubblico ed erede dei modelli eroici degli oratori antichi coesisteva con lo stereotipo negativo del paglietta (termine ironico-dispregiativo in uso nell’Italia meridionale, al pari dei mozzorecchi, cavolocchi e azzeccagarbugli romano, toscano e lombardo)331. E

non è un caso se si sarebbe ricordato di questo nome Luigi Settembrini, in un passaggio sdegnoso e fulminante delle sue Ricordanze sul comportamento dei deputati che, a suo giudizio, con un’ostinata quanto vacua improntitudine furono tra le cause delle violenze del 15 maggio: «E poi per quale idea si è venuto a questo? Pel giuramento, se si doveva svolgere o non svolgere lo statuto. O avvocati, anzi

paglietti voi meritate la servitù»332. Altrettanto memore dello stereotipo negativo sull’avvocato il giudizio

del liberale conservatore Leonardo Vigo, che guardava ai suoi colleghi deputati di sinistra alla camera bassa palermitana come avvocati «cicaloni»333.

Accanto alla caricatura buffonesca non erano mancate tuttavia più serie denunce della spettacolarizzazione declamatoria delle arringhe, in luogo di quella che avrebbe dovuto essere una meditata valutazione e una rigorosa esposizione degli argomenti, fondata su una profonda conoscenza del diritto più che sui coups de théâtre della parola o del gesto. Sul «Nuovo giornale de’ letterati» era perfino comparsa a questo proposito una strenua difesa dell’identità dei moderni rispetto agli antichi. Nonostante l’obiettivo dichiarato restasse quello di «dare all’Italia modelli di eloquenza forense, i quali all’antica indole sua retorica, e classica, sebbene in circostanze a questo slancio non favorevoli, la riportassero»; nonostante le traduzioni italiane delle monumentali Causes célèbres di Pitaval (l’impresa di inizio Settecento che sta all’origine della diffusione del genere) fossero giudicate impresa meritoria e utile, occorreva rendersi conto che

329 Ivi, p. 99. 330 Ivi, p. 82.

331 P. Beneduce, Il corpo eloquente cit., p. 32.

332 L. Settembrini, Ricordanze della mia vita in Id., Ricordanze e altri scritti, a cura di Giorgio De Rienzo, Utet, Torino 1971, p.

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gli antichi oratori nelle cause criminali trionfarono più colle armi del sentimento che con quelle di una ragione resa agguerrita, e sagace dagli avanzamenti, che ai tempi nostri distinguono la ideologia. Questa scienza, abituando lo spirito a rimontare continuamente ai principj, e favoreggiando l’analisi, ha fornita una più fina e più forte tempra alla dialettica, ed alla critica. La importante parte, che ai tempi nostri, a differenza degli antichi, occupa la legge, e la sua retta interpretazione nell’esame, e nella decisione d’un’affare, impone all’oratore la necessità di sostituire alla declamazione, ai tropi, ed agli altri risorti rettorici la finezza, e la forza d’un ragionamento continuato334.

Pochi anni più tardi l’«Antologia» rincarava la dose. Anche sul giornale di Vieusseux dialettica e retorica erano fatte confliggere, e si raccomandava agli avvocati di non usare «né le amplificazioni rettoriche, né i voli dell’immaginativa, né le perorazioni» ma piuttosto «il saper legale, una forte dialettica, la chiarezza e la facilità nell’esposizione»: «ci è duopo esser piuttosto giureconsulti che oratori»335.

Durante la Restaurazione, dunque, accanto all’elogio della funzione pubblica dell’oratore classico, accanto ai numerosi ritratti monumentali che ancora ripetevano il profilo ciceroniano dell’eroe civile custodito dalla tradizione umanistica, risultava difficile (né a tutti desiderabile) adattare per intero quel modello alle strutture esistenti, ora per l’assenza di una tribuna parlamentare, ora per le peculiari caratteristiche imposte dai succedanei più spesso citati delle antiche assemblee: il foro moderno – coi suoi codici e i suoi frequentatori che gli stereotipi popolari rendevano realisticamente ridicoli – e le accademie – giudicate circoli troppo esclusivi, nonché sede per eccellenza del panegirico e dell’ossequio istituzionale.

Eppure, nonostante le punte di cattiva stampa o la posizione di difensiva assunta dalla retorica, nonostante gli attacchi frontali alle tecniche disciplinari, sordamente i suoi contenuti erano continuati a passare per mezzo del sistema educativo dei ceti superiori o magari per l’uso – buono o cattivo – che ne facevano apprezzati giureconsulti o miserabili “paglietti”. Anzi, a mio giudizio fu proprio la controversa appropriazione dell’eredità dell’oratoria classica da parte del foro come negli esercizi di stile al limite del comprensibile coltivati nelle accademie, che contribuì a far emergere nel discorso politico della primavera del 1848, come un personaggio irrealizzato, il profilo ideale dell’oratore classico. Un protagonista della vita politica fino ad allora solamente “immaginata” sui banchi di collegio e delle università, il portatore di una funzione pubblica censurata, deformata o usurpata a causa degli spazi a cui la mancanza delle libertà politiche della Restaurazione costringeva la presa di parola, poteva finalmente essere “liberato” nelle specifiche condizioni d’esercizio della libertà dei moderni: secondo i codici della tribuna.

334 [C.], Orazioni civili, e criminali dell’Avvocato Lorenzo Collini Fiorentino ec. Firenze 1824, per Niccolò Conti. 2 Vol. in 8, da proseguirsi,

in «Nuovo giornale de’ letterati», n. XVII, Nistri, Pisa 1824, pp. 55-71, cit. p. 58 e p. 62.

335 [F8], Versione nell’italiana favella delle orazioni di Marco Tullio Cicerone, fatta dall’avvocato Spiridion Sicuro, con insieme le analisi ragionate e note del traduttore sulle stese orazioni, con discorsi del medesimo riguardanti principalmente gli ordini giudiziari della repubblica romana, Vol. I, Bologna 1828, presso Romano Turchi, in «Antologia», 1828, n. LXXXXI, pp. 138-9, cit. p. 138.

Capitò, certo, di udire o leggere spesso per voce o sotto la penna di candidati, deputati e senatori l’elogio dell’antiretorica – da parte chi si schermiva di non essere abbastanza esperto nell’arte della parola, o sosteneva di anteporre la dirittura morale e la fede politica liberale all’eloquenza336. Ma se

ciò non costituiva tout court l’applicazione di uno dei principali dettami della composizione (l’excusatio), individuava come obiettivo polemico soprattutto la parola dell’accademia, paludata e irresponsabile, cioè una parola non gravata dal peso di alcuna decisione concreta circa il bene sociale. Si potrebbe forse azzardare che nel discorso pubblico del “lungo Quarantotto” era l’accademia a costituire un vero e proprio antiparlamento mentale, per la connotazione di spazio tanto esclusivo quanto allineato, sede di una parola tanto più sterile quanto più fiorita337. Non è un caso se nella polemica contro l’istituto del

senato – che in Italia iniziò ancora prima dell’apertura delle camere, per trascinarsi fino ai nostri giorni – l’immagine delle noiose e stantie accademie dei re avrebbe accompagnato le camere alte assai più di quelle basse338. Queste ultime, semmai, come gli avvocati troppo attenti all’actio declamatoria e agli

effetti di sentimento, avrebbero conosciuto un parallelismo denigratorio tratto semmai da quel serbatoio inesauribile e controverso che fu il teatro di età romantica per l’immaginario ottocentesco. Eccoci giunti dunque al punto dove si ricongiungono le traiettorie dello spettacolo politico parlamentare e dell’eloquenza.