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TERTIUM DATUR: L’«OPINIONE»

2.2 Petizioni e dimostrazion

Tra i vari strumenti di espressione possibili, quello a cui era ricorso Bozzelli aveva il vantaggio di non turbare l’ordine pubblico, ma mostrava comunque che le vie legali di espressione della monarchia amministrativa erano ormai insufficienti. Poteva imputarsi di turbare l’ordine pubblico, invece, all’altro strumento di espressione del dissenso di cui da mesi si erano appropriati i circoli liberali in diverse città della Penisola: le manifestazioni – o piuttosto dimostrazioni, come furono più frequentemente chiamate in Italia. In assenza di diritto di riunione – anzi, nell’infrazione palese dei divieti esistenti e ribaditi via via in tutti gli stati preunitari negli stessi travagliati mesi – nel corso del 1847 si era diffusa una tecnica di mobilitazione del dissenso già sperimentata sul continente europeo e consistente nella pubblica sfilata tra i luoghi notevoli dello spazio urbano di consistenti masse di individui, inquadrati e disciplinati, in marcia dietro slogan, cartelli, bandiere, canti, simboli ai quali affidavano le rispettive rivendicazioni115.

Al contrario di quelli degli altri stati nel corso del 1847, gli studenti e i liberali del Comitato napoletano, armati di bandiere e coccarde tricolori, accanto ai viva Pio IX, l’Italia, la Lega, richiesero la concessione di una costituzione fin dalle prime manifestazioni, il 22 novembre e il 14 dicembre, che la polizia disperse perseguitando i partecipanti. Finché, di fronte alle migliaia di partecipanti alla manifestazione del 27 gennaio per le strade di Napoli, il comandante di piazza generale Statella impedì che la repressione si ripetesse e consigliò per primo al re moderazione116.

La capitale più severamente controllata dalla polizia restava Torino, per la ferma decisione del re di non cedere ad alcuna domanda che venisse agitata direttamente dalla piazza. Tra gli storici permane il dubbio di un coinvolgimento in prima persona di Carlo Alberto nella decisione di far disperdere a suon di baionette i cinquemila cittadini della capitale che il primo ottobre 1847 si erano riuniti in strada per

115 Cfr. M. Gailus, The Revolution of 1848 as “Politics of the Streets” in D. Dowe, H.-G. Haupt, D. Langewiesche e J. Sperber (a

cura di), Europe in 1848. Revolution and Reform, Berghahn Books, New York-Oxford 2001 [Bonn 1998], pp. 779-96. Per uno studio di caso cfr. V. Robert, Les chemins de la manifestation. 1848-1914, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1996. A partire dalle analisi pionieristiche di Mona Ozouf sull’organizzazione, i significati simbolici, le forme e i limiti della partecipazione ai cortei durante le cerimonie di Parigi e Caen durante la Rivoluzione e da quelli di Maurice Agulhon sul 1848 nel dipartimento del Var, il volume prosegue una tradizione di studi specifici affermatasi in Francia all’inizio degli anni Novanta a partire da P. Favre, La manifestation, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, Paris 1990; cfr. tuttavia M. Ozouf, La festa rivoluzionaria (1789-1799), Pàtron, Bologna 1982 [Paris 1976] e M. Agulhon, La Repubblica nel villaggio. Una comunità francese tra Rivoluzione e Seconda Repubblica, il Mulino, Bologna 1991 [Paris 1979].

116 Cfr. F. Petruccelli Della Gattina, La rivoluzione di Napoli nel 1848 [1850], Società editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati

& C., Milano-Roma-Napoli 1912, pp. 46-58. Le dimostrazioni del “lungo Quarantotto” meriterebbero uno studio assai più approfondito e sistematico rispetto alla occasionale attenzione che è stata loro rivolta: in primo luogo per definire canali e modalità di circolazione di un modello di protesta caratteristico del processo di politisation su scala europea; inoltre, perché costituisce un modello di protesta alquanto diffuso a livello popolare (non fosse altro che per la sua visibilità), che da un lato forza le monarchie ad una delle concessioni tipiche delle rivendicazioni del liberalismo “colto” (il diritto di riunione) e dall’altro rivela però le contraddizioni del liberalismo, svela i sogni liberali di direzione e disciplinamento delle masse; infine, perché, nel momento in cui le dimostrazioni diverranno uno strumento di opposizione ai governi liberali gestito e organizzato direttamente dai circoli democratici, i moderati non tarderanno a delegittimare – come vedremo, dentro e fuori dalle aule parlamentari – uno strumento a cui non pochi di loro avevano benevolmente guardato ancora pochi mesi prima.

festeggiare il compleanno del re con evviva al nome suo e di Pio IX (all’indirizzo del quale fu cantato un inno divenuto di recente popolare in città), ma anche a Gioberti e all’Italia. La folla presa d’assalto dagli agenti era formata da «persone d’ogni ceto e d’ogni sesso, sacerdoti, militari, eleganti signore», ovvero «gente inerme in una moltitudine cui erano frammischiati e vecchi e donne e ragazzi» secondo il testo di una petizione che circolò manoscritta per la città nei giorni seguenti, allo scopo di protestare contro le «sevizie» subite e contro l’«abuso della pubblica forza». La petizione raccolse inizialmente centinaia di firme ma non fu poi presentata al re, per il rifiuto delle autorità municipali di farsi latrici di una domanda illegale e per il repentino ripensamento dei firmatari di un documento sempre più compromettente dinanzi alla fermezza mostrata da Carlo Alberto (che non trattenne il ministro di guerra e di polizia Emanuele Pes di Villamarina dalle dimissioni per non essere stato messo al corrente dell’operazione repressiva). Quel testo adottava una strategia argomentativa esemplare: gli organizzatori della manifestazione ne rivendicavano l’innocenza insistendo sul profilo sociale frammisto dei partecipanti, sull’organicismo comunitario che ne seguiva, sull’atteggiamento festoso e plaudente. Anzi, si legge perfino che furono allontanati spontaneamente il giovane figlio di un arciere che gridò morte agli

austriaci e «un individuo in cattivo arnese e di sinistra fisionomia» che alzò grida contro i gesuiti: l’opinione

che si mostra pubblicamente vuole accreditarsi come incolpevole e capace di autoregolarsi. Nella seconda metà del mese altre manifestazioni attraversarono la città (pochissime in verità) e il governo emanò una legge assai severa contro gli assembramenti popolari. Soltanto con le riforme firmate il 29 ottobre la tensione si sarebbe sciolta, anche se nei mesi seguenti la piazza torinese sarebbe rimasta la più controllata e la più ligia alle direttive sovrane, in contrapposizione a Genova, fin da settembre attraversata da continue dimostrazioni, e ad altre cittadine provinciali117.

Assai diverso, sia per la capillarità del fenomeno sia per la capacità di condizionare l’agenda dei provvedimenti governativi, fu il caso toscano. Qui, nell’estate del 1847, un grande movimento diffuso tra i notabilati provinciali su tutto il territorio regionale e amplificato dalla stampa periodica si attivò per la richiesta della guardia civica, e le autorità granducali dovettero curarsi delle imponenti manifestazioni

117 Per la ricostruzione del clima politico della capitale sabauda cfr. D. Orta, I prodromi di un’opinione pubblica, in V. Castronovo

(a cura di), La nascita dell’opinione pubblica in Italia. La stampa nella Torino del Risorgimento e capitale d’Italia (1848-1864), Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 96-145 e G. Talamo, Stampa e vita politica dal 1848 al 1864, in Storia di Torino, VI, La città nel risorgimento (1798-1864), a cura di Umberto Levra, Einaudi, Torino 2000, pp. 527-83. Ci è possibile conoscere il testo della petizione perché diciassette firmatari, tra cui i futuri leader della sinistra costituzionale subalpina in parlamento, Angelo Brofferio e «L.[orenzo] Valerio», lo fecero rogare da un notaio che in seguito bruciò l’originale; cfr. Protesta degli abitanti di Torino in A. Brofferio, Storia delle rivoluzioni italiane dal 1821 al 1848 con documenti, II, Cassone, Torino 1849, pp. LVI-LVIII. Su Genova occorre precisare che le dimostrazioni cittadine suscitarono da subito sinistri propositi ai vertici del governo sabaudo; nel consiglio di conferenza del 15 novembre 1847, che si tenne nella città al seguito del soggiorno annuale di Carlo Alberto, dopo gli ennesimi tumulti l’ordine del giorno stabilito dal re era proprio quello «di porre un freno alle manifestazioni pubbliche e di fermare i moti popolari», dietro cui la polizia aveva scoperto contatti con i fuoriusciti, organizzatori «conosciut[i] grazie a delitti politici anteriori» e popolani prezzolati: se i disordini fossero proseguiti, si sarebbe dovuto procedere ad arresti («durante la notte, per dare meno pubblicità possibile a queste misure di precauzione»), a tenere preparato l’esercito nelle caserme, a pattugliamenti notturni. Nello stesso consiglio, in verità, emersero anche le preoccupazioni per il «partito» ostile alle riforme, influente a corte e nella pubblica amministrazione; cfr. L. Ciaurro (a cura di), Lo Statuto Albertino illustrato dai lavori preparatori, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le riforme costituzionali, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 1996, pp. 72-3.

di piazza in cui liberali e democratici riuscirono a incanalare la rivendicazione. Dal mese di luglio da ogni parte del granducato iniziarono a pervenire al governo – ma anche ai giornali, che pubblicavano di continuo tabelle aggiornate della quota di sottoscrittori ripartiti per comunità – numerose petizioni firmate da migliaia di individui e raccolte ora da magistrature comunitative di città e paesi (tra cui Livorno, che presentò la lista di gran lunga più numerosa, con le sue 3475 firme, Siena con 1600 e Pisa con 1500 sottoscrittori) ora da privati cittadini (come quella dei 1500 firmatari fiorentini)118. A

preoccupare le autorità, tuttavia, furono soprattutto le imponenti manifestazioni che i liberali organizzarono per fare pressione sul governo affinché concedesse la guardia119. Il 24 agosto a Firenze il

democratico avvocato Antonio Mordini per due ore mise in moto duemila persone che dal duomo, tradizionale luogo di ritrovo dei cortei nella capitale, a file di quattro, a passo di marcia, raddoppiando per via, si recarono sotto Palazzo Pitti, residenza reale, a gridare viva Leopoldo II, viva la guardia civica120. A

Pisa, secondo il cronista del montanelliano «L’Italia», «di tutte le dimostrazioni politiche di questo anno riescì forse la più animata e la più bella» quella organizzata il 27 agosto per ottenere la guardia civica. Notevole partecipazione di tutti i ceti cittadini, «i preti confusi coi secolari, i signori cogli artigiani» in marcia per le vie della città, con bandiere toscane e pontificie, al suono di due bande, tra acclamazioni a Leopoldo II, Pio IX, Carlo Alberto, la Lega italiana, l’indipendenza121.

In quest’ultima descrizione (in tutto simile a quella che abbiamo letto a Torino) si coglie il senso profondo delle manifestazioni del 1847, che aspirano a essere interpretate da parte degli spettatori, per così dire, in chiave di sineddoche. Chi sfila, vogliono dire, non è una massa indistinta di individui, non è la loro somma, non è neppure un frammento casuale del corpo sociale: è un soggetto che si candida a esprimere il sentire collettivo rispetto alle vicende della politica proprio per il suo essere comprensivo dei partecipanti più diversi, che ambisce a integrare donne, sacerdoti e militari, ciascuno necessario a dimostrare la concordia e l’equilibrio dell’intera società e non di una frazione, di un ceto, di un qualsiasi interesse specifico122.

118 Vedi i dati in F. Conti, Le guardie civiche, in Le riforme del 1847 negli stati italiani, Atti del Convegno di studi, Firenze, 20-21

marzo 1998, in «Rassegna storica toscana», 1999, 2, pp. 327-45, cit. p. 337.

119 Scandalizzate le parole con cui il ministro plenipotenziario francese a Firenze, La Rochefoucault, descriveva l’8 agosto

1847 a Guizot la situazione politica toscana, accusando il governo granducale (che «en présence de ce mouvement semble timide, irrésolu et marcher sans programmes») di totale assenza di fermezza e di condotta contraddittoria (vieta a Firenze dimostrazioni che in provincia si svolgono talora presenti le autorità e riceve petizioni che non c’è diritto di scrivere): cfr. Le relazioni diplomatiche fra la Francia, il Granducato di Toscana e il ducato di Lucca. II serie: 1830-1848, II, 9 gennaio 1844 - 29 febbraio 1848, a cura di Armando Saitta, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1960, pp. 175 e ss. 120 Cfr. le cronache sui giornali, per esempio «L’Alba», 25 agosto 1847 e svariati rapporti e note in ASFi, Presidenza del

Buongoverno 1814-1848. Archivio Segreto, Negozi 1847, f. 431, dove si contano fino a cinquemila i partecipanti.

121 «L’Italia», 28 agosto 1847.

122 In una comparazione tra Quarantotto francese e italiano, Gian Luca Fruci ha persuasivamente suggerito di leggere la

manifestazione come una delle figure della sovranità popolare, anche se occorrerebbe forse sottolineare che, in particolare nell’Italia del 1847, la connotazione di parte democratica delle dimostrazioni (pensiamo a quelle appena descritte) non solo spesso non fu esplicita, ma neppure esclusiva; cfr. G. L. Fruci, L’urne, la barricade et l’attroupement. Figures de la souveraineté populaire en France (et en Italie) au milieu du XIXe siècle, in J.-C. Caron, F. Chauvaud, E. Fureix, J.-N. Luc (sous la direction de), Entre violence et conciliation. Les résolutions des conflits sociopolitiques en Europe au XIXe siècle, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2008, pp. 243-254. In un’ottica assai più tradizionale ma assai informata analizza da vicino le piazze delle principali città D. Orta, Le piazze d’Italia (1846-1849), Carocci, Roma 2008. Sulle pratiche dello spazio pubblico in una ricostruzione di

Il testo teoricamente più impegnato a difesa delle dimostrazioni insiste proprio su questo dato. Si tratta di un articolo comparso sul giornale pisano di Giuseppe Montanelli all’acme delle manifestazioni dell’estate e alla vigilia della vera e propria festomania che avrebbe caratterizzato la scena pubblica dell’intero territorio granducale dopo la concessione della guardia civica. L’articolo è anonimo, ma la prosa pare inconfondibilmente quella del professore:

Queste dimostrazioni popolari non piacciono a tutti: v’è chi le disapprova temendo che quelle turbe le quali gridano Viva Pio IX, e la Confederazione dei Principi Italiani, da un momento all’altro gridino Morte ai proprietari, e sfondino le porte, e saccheggino i granai, e offendano la santità dell’asilo domestico; vi è chi le disapprova, temendo che l’intervento del popolo turbi la libertà dell’azione governativa, sostituisca l’anarchia alla legge, impedisca alla riforma di procedere pacata per la sua via123.

La paura sociale della piazza si comunicava dai ceti conservatori agli stessi liberali, causando anche nel partito favorevole alle riforme differenti vedute tattiche. Ma, secondo l’autore, questo sarebbe frutto di un equivoco.

Molti confondono la dimostrazione popolare colla dimostrazione plebea, ma la plebe è parte del popolo, e non tutto il popolo. La dimostrazione unicamente plebea noi la disapproviamo, e sono rei di grave colpa quei codardi che per loro fini aizzano la plebe a far clamore senza però mescolarsi con essa124.

Alla vigilia del Quarantotto, nelle dichiarazioni dei liberali che arrischiano una combattiva propaganda anti-establishment, la plebe viene considerata parte del nuovo teatro agito della politica soltanto con gravi ipoteche e diffidenze. L’immagine tradizionale dei food riots la qualifica troppo – soprattutto in anni in cui i tumulti annonari sono tornati a punteggiare l’intera Penisola125 – per non relegarla a ruolo di

passivo e pericoloso spettatore dell’azione di quel popolo di cui solo a fatica sembra riconosciuta parte. Di più: la possibilità di un’azione autonoma degli infimi ceti minaccia l’esistenza stessa del popolo come categoria del politico.

Prima condizione d’una dimostrazione popolare è adunque l’incolpabilità nello scopo, e nei mezzi; nello scopo manifestando collettivamente un’idea di cui non si potrebbe far rimprovero a nessuno dei singoli che la partecipano; nei mezzi

lungo periodo cfr. M. Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai nostri giorni, il Mulino, Bologna 2004 [Milano 1994].

123 «L’Italia», 4 settembre 1847. 124 Ibidem.

125 Cfr. E. Francia, Il pane e la politica. Moti annonari e opinione pubblica in Toscana alla vigilia del 1848, in H.-G. Haupt e S. Soldani

(a cura di), 1848. Scene da una rivoluzione europea, «Passato e presente», 1999, 46, pp. 129-55; F. Della Peruta, La rivoluzione del 1848 in Lombardia: momenti e aspetti, in N. Del Corno e V. Scotti Douglas (a cura di), Quando il popolo si desta... 1848: l’anno dei miracoli in Lombardia, FrancoAngeli, Milano 2002, pp. 11-45, in part. pp. 11-7.

procedendo ordinata e sotto una certa direzione. Seconda condizione, che sia veramente popolare, cioè che tutto un popolo esprima in essa con mirabile consentimento la sua volontà126.

La disciplina dell’azione e il profilo sociale dei partecipanti avrebbero in altre parole dovuto legittimare presso i governi il diritto di espressione di questo soggetto, che implicitamente l’articolo avoca sulla scena pubblica a giudicare l’azione governativa e quella che definisce «la riforma». L’autore distingue infatti tra tre tipologie di dimostrazioni: «o di protesta – o di supplica – o di plauso». L’anonimo giornalista è disposto ad accogliere le prime solo nella forma di sfilate silenziose, capaci di mostrare pubblicamente il dissenso, ma le trova in genere le più passibili di scivolare nel tumulto, preferendo come strumento di protesta la penna (ma non l’anonimato). Le ultime, in quanto vere e proprie feste popolari, hanno il solo rischio di perdersi in una dissipazione incontrollata di tempo e sostanze. Le seconde sembrano incarnare il senso più profondo della dimostrazione.

Le dimostrazioni SUPPLICANTI possono essere talvolta d’una suprema necessità quando si tema il Sovrano circondato da chi gli nasconda il vero stato delle cose, e attenui l’importanza dei voti comuni per altro verso dimostrati. Allora il popolo che nella piena luce del giorno comparisce avanti alla Reggia, e SUPPLICA, è spettacolo che impone il rispetto, come quello delle turbe supplicanti nel Tempio127.

Non per caso, il termine supplica rimanda alla tradizione testuale da cui negli stessi mesi viene emancipandosi l’altro strumento di manifestazione della sedicente opinione pubblica, ovvero le petizioni128. Se, per il momento, queste ultime continuano ad essere indirizzate al re, cominciano a non

essere più le postulazioni private di singoli sudditi ma, come abbiamo visto, l’atto collettivo e pubblico di soggetti che definiscono i contenuti della propria comune identità proprio nell’atto di associarsi in una richiesta sentita come diritto. Apporre una firma, al pari della sfilata in una dimostrazione e delle scritture non anonime, situa e definisce il modello ideale della “pubblicità” maturato alla metà degli anni

126 «L’Italia», 4 settembre 1847, art. cit. (corsivo mio). 127 Ibid.

128 Emblematica la retorica dell’incipit del testo seguito alle vicende del primo ottobre a Torino: «I sottoscritti sudditi tutti di

V.M. e residenti nella fedelissima sua città di Torino, vengono a deporre umilmente sulla soglia del regio trono la rispettosa espressione del dolore profondissimo che risentono [...]»; cfr. Protesta degli abitanti di Torino, in A. Brofferio, Storia delle rivoluzioni cit., p. LVI. Non solo: Proposta di supplica chiamò Cesare Balbo il testo che pubblicò sul secondo numero del «Risorgimento» nel dicembre 1847 per invitare Ferdinando II «alla politica di Pio IX, di Leopoldo II e di Carlo Alberto; alla politica italiana, alla politica della Provvidenza, del perdono, della civiltà e della carità cristiana». La fama del re costringeva il cattolico conte, allora giobertiano, a spingersi più in là delle immagini sacramentali e provvidenziali della politica consuete nel discorso pubblico di quei mesi. Balbo aggiungeva un passaggio a ben vedere poco riguardoso: «Noi non entriamo in memorie di altri tempi; noi sappiamo che Iddio misericordioso tien conto a ciascuno delle difficoltà, degli incitamenti stessi e delle buone intenzioni con che egli poté operare, od anche errare. E sappiamo, che in terra come in cielo, ogni uomo rimane poi giustificato o no, secondo che furono i fatti ultimi determinatori di sua vita. Ed ora, o Sire, voi siete giunto al punto culminante, all’atto sommo della vita vostra, al fatto duce di ciò che ve ne resta»; cfr. «Il Risorgimento», 21 dicembre 1847. L’insigne suddito di un altro stato poteva invitare alle riforme re Ferdinando facendo pubblicamente appello alla sua più intima coscienza e lasciando intendere che non fosse immacolata: i confini della sedicente supplica – esposta a mezzo stampa, pubblicata con l’intenzione di farla sottoscrivere – si stavano evidentemente aggiornando in direzione della forma- petizione. Continuità e fratture nei linguaggi e nei contenuti, nelle pratiche e nei destinatari delle petizioni non sarebbero un angolo visuale meno interessante per studiare l’avvento e la ricezione delle istituzioni liberali sulla Penisola.

Quaranta in opposizione al segreto delle strategie insurrezionali. Non per caso nell’articolo sull’«Italia» compare la più frequente metafora della pubblicità: la «piena luce del giorno», opposta implicitamente alle tenebre, cioè, indirettamente, al segreto dei regimi assoluti ma anche alla cospirazione, se non tout

court al delitto.

Anche se in assenza della parola, nell’articolo appena citato ci troviamo di fronte a una delle più classiche definizioni della “cosa” opinione pubblica. L’assenza del nome costringe però a non sottovalutare le sovrapposizioni di campo semantico tra il termine opinione e quelli – contigui, non meno vaghi e polisemici, e perfino potenzialmente divergenti – di popolo e nazione. Del resto, dalla seconda metà del Settecento le definizioni di opinione pubblica che sono circolate nel mondo letterario e politico della Penisola furono numerose e stupisce che manchino tuttora adeguati lavori di sintesi sul tema129.