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LO SPETTACOLO PRIMA DELLO SPETTACOLO

3.1 Quale teatralità?

Appena un mese dopo l’inizio delle attività parlamentari a Roma, il deputato moderato Francesco Mayr, giurista di origine ferrarese, confidava in una lettera privata al cugino Carlo, animatore di uno dei più attivi giornali provinciali, un accenno assai severo sullo svolgimento delle sedute: «Alle sezioni dei Consigli interviene molto popolo, il quale vi strepita e vi applaude come in un teatro senza che si imponga silenzio»213.

Molti anni fa Carlo Ghisalberti posò di passaggio la sua attenzione sulle parole di Mayr. Vi scorgeva la conferma che, dinanzi alla prova di quella prima esperienza parlamentare, gli eletti non furono i soli a rivelarsi «ancora mal preparati»: «né il popolo – scriveva infatti Ghisalberti – mostrava di intendere meglio i compiti delle Camere e il proprio dovere», se interferiva con una partecipazione tanto esuberante ai dibattiti dell’assemblea214. La circolarità di categorie tra il vocabolario dello storico e

la sua fonte, evidente soprattutto nel ricorso al medesimo soggetto collettivo di popolo, rivela la matrice intimamente storicista della prospettiva di Ghisalberti. Secondo questa prospettiva esisterebbe una curva evolutiva della modernità politica e in gran parte coinciderebbe con l’avanzamento di una presunta razionalità e disciplina, tanto nella storia delle istituzioni liberali quanto, parallelamente, in quella dei soggetti trans-storici della politica (deputati, popolo). Per chi si muova in una prospettiva di storia culturale della politica, però, sono profondamente diverse le direzioni in cui invita a indagare il paragone usato da Mayr e ripetuto da molti: al parlamento come in un teatro.

Cominciare da un paragone col teatro l’analisi del discorso parlamentare in cui si espresse il primo apprendistato istituzionale della cultura politica liberale negli antichi stati italiani, non significa cedere al fascino di una categoria – quella di teatralità – tanto abusata quanto in fondo generica e insoddisfacente. Risulta fin troppo facile, infatti, definire sbrigativamente “teatrali” una serie di fenomeni storico-sociali a loro volta fin troppo variegati e diversi tra loro: dai rituali del potere alle manifestazioni di piazza (cortei ordinati o folle in rivolta che siano), dai codici culturali dell’interazione

213

C. Panigada, Governo e Stato Pontificio nei giudizi di un deputato del 1848, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1937, pp. 1773-802, cit. p. 1795.

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C. Ghisalberti, Il Consiglio dei Deputati a Roma nel 1848, in Il centenario del Parlamento. 8 maggio 1848 – 8 maggio 1948, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1948, pp. 75-101, cit. p. 101.

quotidiana fino alla costruzione stessa della soggettività, più o meno indifferentemente dall’antichità a oggi. Non a caso anche l’aula parlamentare è già stata descritta, peraltro persuasivamente e con intelligenza, nella sua qualità di théâtre des opinions215. Tuttavia, credo che le diverse discipline che hanno

fatto uso della categoria di teatralità – accanto alla storia, antropologia, sociologia e psicologia – corrano il rischio di interpretare alla luce di una metafora vaga e riduttiva qualsiasi processo comunicativo216.

Diverso è il caso, come ha suggerito recentemente Carlotta Sorba, che si voglia guardare al teatro come specifica istituzione culturale, che nel corso dell’Ottocento ha fornito alle esperienze e agli immaginari di uomini e donne dei contesti più disparati un serbatoio di figure e saperi condivisi e assai popolari217. Non è più, allora, a una presunta, intrinseca qualità teatrale delle cose (la teatralità) che

bisogna prestare attenzione. Occorre piuttosto scoprire, se e dove esiste, il ruolo giocato in uno specifico contesto dalla chiave di lettura teatrale intesa come codice culturale tra i più noti nel XIX secolo, capace di socializzare un pubblico ampio oltre le barriere dell’alfabetizzazione, del ceto, del genere: un codice culturale di cui, data la sua popolarità, si appropriarono le agencies istituzionali, i media del tempo e gli individui per immaginare, progettare, interpretare, narrare specifici eventi.

Solo in questo senso, credo, è utile osservare anche l’istituzionalizzazione dei parlamenti nell’Italia del 1848, per così dire, sub specie theatrali. Non perché la forma semicircolare delle aule richiami quella del teatro classico, o perché l’intento performativo degli oratori che improvvisano o recitano i loro discorsi ne faccia quasi altrettanti attori intenti a toccare l’intelletto e le emozioni di un pubblico. Suggestioni affascinanti o poco più218. Molto diverso sarà provare a capire se, perché e cosa hanno

eventualmente in comune agli occhi dei contemporanei le aule, i teatri e i loro rispettivi protagonisti e

215

Cfr. J.-Ph. Heurtin, L’espace public parlementaire. Essai sur les raisons du législateur, Presses Universitaires de France, Paris 1999, pp. 108-59.

216

Correnti ormai acquisite di filosofia del linguaggio sostengono per esempio che è una qualità specifica del genere umano quella di essere eloquens, più che meramente loquens: pertanto figura e teatralità finiscono per definire la modalità specifica della relazione umana: cfr. S. Petrosino, Homo eloquens, in «Comunicazioni sociali», 1995, 4, pp. 347-79.

217

Cfr. C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, in A. M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 481-508.

218

Certo, anche se non è la strada seguita da questa ricerca, non voglio negare che sia stimolante spingersi molto più avanti, alla ricerca di tentativi di sintesi a un livello superiore. Nel nostro caso, viene da pensare, oltre ai parlamenti anche le sale di anatomia di alcune università europee nel Settecento acquistano la stessa forma emiciclica del teatro antico, o quella ellittica dell’anfiteatro. Ci troviamo forse dinanzi a un ulteriore indizio del privilegio plurisecolare accordato alla vista nella conoscenza e nell’organizzazione delle conoscenze in Occidente? E se è così, in che cosa l’elaborazione delle leggi – processo comunemente ritenuto il frutto dei depositari ideali del più alto sapere sociale – è erede di questa “mistica laicizzata” della visione? Non sembra un caso che uno dei più lucidi e spietati osservatori della modernità statu nascenti, Jeremy Bentham, da un lato abbia eretto il panopticon a modello di organizzazione carceraria e, metaforicamente, del controllo sociale e dall’altro – cosa assai meno nota – abbia posto lo stesso senso, la vista, a tutela della trasparenza del processo legislativo, quando ha immaginato che nelle aule parlamentari dovessero trovare posto enormi pannelli illuminati a caratteri mobili, sui quali voleva fosse riportata per intero ogni mozione oggetto di voto. Per una via lunga e malagevole, di cui ho accennato solo ad alcune delle tappe possibili – le aule di anatomia, gli scritti di Bentham – è possibile provare a porre domande inusuali, per esempio quale nesso esiste tra la vista/visione e il concetto moderno di pubblicità, un valore costantemente rivendicato dalle assemblee sette e ottocentesche contro agli arcana imperii dei governi e delle diplomazie. Per le possibilità euristiche di una comparazione dagli orizzonti così ampi cfr. P. Rosanvallon, Les vertus d’un comparatisme dérangeant, in M. Detienne (sous la direction de), Qui veut prendre la parole?, Seuil, Paris 2003, pp. 7-12. Per le pagine di Bentham a cui ho fatto rapidamente cenno cfr. J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Marsilio, Venezia 2002 e G. Bentham, Tattica delle assemblee legislative, seguita da un trattato di sofismi politici, Tipografia Francese, Napoli 1820, pp 95-102.

frequentatori (come i protagonisti e i frequentatori di spazi di parola da loro ritenuti affini). E valutarlo in rapporto a un doppio contesto storico: quello delle specifiche caratteristiche e dei linguaggi del teatro nell’Italia del primo Ottocento, e, parallelamente, quello della formazione di una sfera pubblica post- rivoluzionaria e delle sue lente traduzioni politico-istituzionali219.