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Giuramenti, abbracci, lacrime: sedute melodrammatiche

ROMANTICI MALGRADO TUTTO?

5.3 Giuramenti, abbracci, lacrime: sedute melodrammatiche

Se la pubblicazione di lunghe pagine di dibattiti nelle sedi ufficiali, per quanto necessaria, non riusciva a restituire la dimensione più coinvolgente dell’actio e quindi molto toglieva alla spettacolarità delle sedute in aula, ciò era vero in particolare per alcune sedute. Tutti i parlamenti italiani conobbero infatti nel 1848-49 sedute che furono da subito concepite come monumentali. Sedute fondative, solenni – più o meno drammatiche, ora attese e attentamente preparate, ora invece improvvisate all’arrivo di notizie o personaggi – alle quali le assemblee affidarono deliberatamente due compiti: mostrare nel

presente che esse corrispondevano pienamente al mandato di rappresentanza ben oltre il mero vincolo

elettorale, e affidare a quegli atti specifici le coordinate base della propria memoria per il futuro. Da subito, fu intorno all’esperienza e al racconto di tali sedute che si concentrarò l’attenzione mediatica. Ed è interessante notare che proprio durante e intorno a quegli episodi – le sedute dell’unanimismo iscritto nelle parole e nei corpi, messo in scena per (o contro) i sovrani e per le rispettive società – i moduli discorsivi e comportamentali ai quali si uniformarono i depositari della voce del popolo, contrariamente alle procedure regolamentari che, durante le sedute ordinarie, facevano del discorso parlamentare il luogo di una parola altra, più regolata e più alta della politica discorsa altrove, erano invariabilmente affini a quelli del discorso pubblico corrente al di fuori delle sedi istituzionali. Proprio in quelle circostanze, in altre parole, sembrò emergere la necessità che in aula si parlasse, per così dire, secondo la stessa grammatica

romana e negli scambi epistolari tra privati; cfr. G. Pasolini, Memorie raccolte da suo figlio, Fratelli Bocca Editori, Torino 1915, I, pp. 174 e ss. per il punto di vista di chi difese in aula la pubblicità del voto.

421 A differenza di molti colleghi, proprio in virtù dell’autorità che gli veniva dal rivestire il più alto incarico di governo il

deputato Manin poteva sprezzantemente confessare: «Non mi occupava né anche di rivedere le prove di stampa dei discorsi da me pronunciati all’Assemblea, che da stenografi imperiti erano storpiati sconciamente»; cit. in S. Covino, Manin, Tommaseo cit., p. 144. Simmetricamente, avrebbe ricordato Niccolò Tommaseo, di non aver concesso al giornale governativo uno dei suoi più celebri discorsi, quello pronunciato il 4 luglio 1848, quasi da isolato, contro la fusione di Venezia al Regno di Sardegna: «Lo lessi svogliato e per adempiere sino all’ultimo al dovere mio, già sapendo che non sarebbe né inteso né ascoltato, e avrebbe mala accoglienza. E lo negai al giornale del Governo per istamparlo da me, dividendomi affatto da quella gente [...]»; N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848 e 1849. Memorie storiche inedite, vol. II, a cura di Giovanni Gambarin, Felice Le Monnier, Firenze, 1950, p. 66.

in cui si esprimevano i referenti esterni delle assemblee – l’opinione, il popolo, la nazione continuamente (anche se variamente) invocati.

In quelle circostanze almeno, occorre provare a guardare oltre il limite recentemente ribadito da Paul Ginsborg tra cultura romantica e sfera politica istituzionalizzata: «Il romanticismo, volto a educare le passioni e a coltivare relazioni fondamentali come quelle con la natura e con la storia, era in grado di accompagnare l’individuo fino alle soglie dello stato, ma non sapeva procedere molto oltre»422. Alcuni

esempi ci aiuteranno invece a tratteggiare un versante forse inatteso di autolegittimazione istituzionale per via drammatica (o più propriamente, forse, melodrammatica423) da parte degli istituti parlamentari

del 1848-49. Il più evidente di tutti si addensa intorno alle pratiche o alle metafore del giuramento. Il giuramento richiesto ai deputati durante le sedute inaugurali era un atto ordinario: si trattava dell’atto richiesto ai funzionari sia negli stati d’ancien régime che nei regimi liberali ottocenteschi per ritenere valida l’investitura della funzione pubblica424. E infatti esso si ripeté senza disordini in ciascuna

assemblea. Non così a Napoli. Qui l’atto si caricò da subito dello stesso appeal drammatico e fondativo dei giuramenti che da mesi avevano iniziato a punteggiare strade e piazze dell’intera Penisola, durante i banchetti, le dimostrazioni, le feste, fino alle commemorazioni nei luoghi di memoria del martirologio della libertà italiana. Ne abbiamo già parlato: dalla produzione poetica d’occasione fino ai rituali più o meno solenni o improvvisati per festeggiare le concessioni e gli statuti – oppure per celebrare i caduti dello sciopero del fumo (i funerali in requiem dei quali ebbero luogo in tutte le principali città d’Italia) – si era diffusa la pratica di pubblici giuramenti di gruppi di giovani uomini che, in un immaginario profondamente segnato dalla guerra come esperienza fondativa e catartica, si dichiaravano pronti a morire in difesa della patria italiana425. Per usare la metafora di una studiosa di metafore politiche, prima

ancora della concessione delle carte costituzionali, nei mesi di fine 1847 la preminenza dell’asse verticale nel sistema a croce implicato dalla relazione tra padre e figli/fratelli tipica del discorso pubblico paternalista d’ancien régime vide crescere a proprio discapito il braccio orizzontale, quello lungo il quale i soggetti si definiscono in nome di una relazione tra pari, magari ancora rispettosa ma potenzialmente

422 P. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l’io, l’amore e la nazione, in A. M. Banti e P. Ginsborg (a cura di), Storia d’Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007, pp. 6-67, cit. pp. 47-8.

423 È Carlotta Sorba ad aver recentemente portato l’attenzione sulla contiguità del discorso pubblico e delle pratiche della

politica del lungo Quarantotto con l’armamentario emozionale del melodramma: «si tratta d’un registro non solo alquanto diffuso, ma pressoché unanime in chi racconta il ’48 appena trascorso e ancor più in chi lo sta ancora vivendo»; C. Sorba, Il 1848 e la melodrammatizzazione della politica, ivi, pp. 481-508, cit. p. 482.

424 Sul caso francese riflette J.-Y. Piboubès, La liberté de conscience à l’épreuve du serment: individu, religion et politique au XIXe siècle, in

A.-E. Demartini e D. Kalifa (a cura di), Imaginaire et sensibilité au XIXe siècle. Études pour Alain Corbin, Creaphis, Paris 2005, pp.

157-67.

425 Tra i numerosi rimandi possibili cfr. almeno gli episodi pisani descritti da G. Montanelli, Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850 [1853], Sansoni, Firenze 1963, pp. 261 e 423. Un documento molto interessante sul rapporto tra commemorazione e mobilitazione attraverso il comportamento rituale e la retorica del giuramento è La Lega Lombarda giurata in Pontida il 7 aprile 1167 ivi festeggiata il 7 maggio 1848. Descrizione dei discorsi pronunziati dal sacerdote Locatelli, Cesare Cantù, Francesco Cusani, Pirotta, Milano 1848.

oppositiva rispetto alla stabilità del sistema d’autorità ricevuto e, piuttosto, passibile di rinnovare gli equilibri di potere della comunità politica con un nuovo patto426.

È questo significato del giuramento come patto che ci interessa qui. Patto e giuramento sono immagini derivate dall’antica tradizione contrattualistica del pensiero politico europeo, hanno conosciuto un rinnovamento destinato a grande fortuna nella declinazione rousseauiana del discorso democratico settecentesco e hanno trovato un posto di primo piano nell’immaginario simbolico dei rivoluzionari francesi in connessione con l’immagine della fraternité, come testimoniano il successo coevo e la duratura notorietà di alcune tra le più famose opere di Jacques-Louis David, dal Giuramento

degli Orazi (1785) al tableau preparatorio dedicato al Giuramento della Pallacorda (1789; episodio,

quest’ultimo, dal valore simbolico così accentuato che ne circolarono numerose versioni a stampa)427.

Niente affatto ignoti all’esperienza repubblicana del Triennio, più tardi segretamente mantenuti nella vita settaria e apertamente veicolati sulla scena teatrale dai melodrammi d’intonazione patriottica (si pensi solo a uno dei più celebri, rappresentati, o anche solo citati, l’Ernani verdiano), patti e giuramenti hanno conosciuto un importante revival nei mesi della progressiva affermazione del protagonismo dei

fratelli sulla scena pubblica degli stati italiani428.

Occorre contestualizzare i giuramenti a cui intendo riferirmi alla luce di questa pratica, oltre a ricondurli ai precedenti storici di epoca rivoluzionaria la cui performance – se vogliamo, nella forma di una consapevole mimesi – sembrò a molti di nuovo a portata di mano. Fu così soprattutto nei casi siciliano e napoletano, apparentemente assai diversi per condizioni ed esiti, ma, come spero di mostrare, in realtà accomunati da una più profonda concezione della rappresentanza in termini di circolarità tra

426 Mi riferisco a F. Rigotti, Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992, in part. pp. 77-115. Cfr. inoltre L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1992.

427 Cfr. E. Pii (a cura di), I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa XVII-XIX secolo, Olschki, Firenze 1992. Cfr. inoltre almeno

A. M. Banti, L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005, pp. 112-18 per il significato del giuramento nei testi di Rousseau e passim per David. Sul Serment cfr. A. De Baecque, Le Serment du Jeu de paume: le corps du politique idéal, in R. Michel (sous la direction de), David contre David, II, La Documentation française, Paris 1993, pp. 759-82.

428 Sebbene manchi per l’Ottocento italiano un approfondimento storiografico paragonabile agli studi francesi sul posto

occupato nell’immaginario politico dal terzo termine della devise rivoluzionaria, tuttavia si può senz’altro affermare che è nel corso della rottura delle tradizionali gerarchie dello spazio pubblico consumatasi durante il 1847 che la relazione fraterna irruppe massicciamente nel discorso pubblico. Parallelamente al montare di sfilate, dimostrazioni, feste che forzavano progressivamente gli interdetti legali, da Roma a Firenze a Torino, le masse via via più numerose in azione tra strade e piazze venivano immancabilmente rappresentate con quest’immagine, debitrice da un lato della tradizione democratica e dall’altro della tradizione cattolica. Per il caso francese cfr. M. David, Fraternité et Révolution française 1789-1799, Aubier, Paris 1987; Id. Le printemps de la fraternité. Genèse et vicissitudes 1830-1851, Aubier, Paris 1992; M. Ozouf, L’homme régénéré. Essais sur la Révolution Française, Gallimard, Paris 1989. Per il caso italiano cfr. la voce Fratelli in P. Brunello (a cura di), Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre marzo 1848-agosto 1849, Comune di Venezia, Venezia 1999, pp. 91-104 e S. Petrungaro (a cura di), Fratelli di chi. Libertà, uguaglianza e guerra nel Quarantotto asburgico, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2008. Sulla storia del termine nel lessico politico italiano cfr. E. Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 1991 e Id., 1848-1849: Lingua e rivoluzione, in P. L. Ballini (a cura di), 1848-49 Costituenti e costituzioni. Daniele Manin e la Repubblica di Venezia, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 2002, pp. 225-39. Segnalo infine che sul tema La fraternité comme catégorie de l’engagement politique en Italie et en Europe (1820-1930) lavora un gruppo internazionale di ricerca coordinato da Catherine Brice, che ha avviato le sue attività con un colloque tenutosi presso l’Ecole Française de Rome il 15-16 novembre 2008.

l’assemblea e i suoi rappresentati che prende forma proprio attraverso i gesti, le parole, le narrative che si addensano intorno a un atto presunto fondativo.

In Sicilia un simile atto – inteso come evento che porta a compimento l’insurrezione del 12 gennaio – fu la dichiarazione di decadenza dei Borboni dal trono dell’isola, decretata congiuntamente dalle due camere il 13 aprile 1848.

Come si ricava dalle memorie di Leonardo Vigo, poiché già da parte dei giornali e dei circoli politici più radicali la proposta aveva preso a essere formulata, nei giorni precedenti erano corsi diversi incontri in abitazioni private tra deputati e membri del governo, allo scopo di «discutersi ampiamente la materia e così evitare dispareri nella Camera»429. Un atto tanto solenne non avrebbe potuto presentarsi

ufficialmente se non come unanime. E in effetti, chi lo propose in aula, nonostante le differenze di opinione in merito al regime da adottare, se la Costituzione (la monarchia costituzionale, con l’offerta del trono a un principe italiano) o la repubblica o piuttosto una monarchia repubblicana, si premurò di rappresentare in primo luogo la decadenza dei Borbone come un dato ormai comprovato dal sentimento comune: «molti cittadini riuniti in diversi club se ne sono occupati, e di già una mozione preparavasi per presentarsi alle Camere»430; «l’opinione pubblica interna ha già pronunziato il suo

decreto sulla casa di Borbone; a noi non rimane che promulgarlo»431; perfino il ministro delle finanze

Michele Amari – in attesa del giudizio definitivo dei pari sul diritto di voto dei ministri, che i comuni avevano per il momento proibito – ritenne che «in questo momento non posson soffrire un sì gran sacrifizio: domando che ci si permetta contribuire ad un voto di sì generale tripudio»432. A questo, come

a ognuno dei passaggi che ho citato, e in molti altri punti il resoconto registra applausi fragorosi e

prolungati dei deputati e soprattutto del pubblico alle ringhiere, tra grida entusiaste di Fuori i Borboni! E in

effetti la seduta si fece presto più convulsa. Emerico Amari propose allora: «qui votare è ben poco, dobbiamo giurare; ponghiamoci la sinistra sul cuore, alziamo la destra, e tutti ad una voce gridiamolo innanzi a Dio: Ferdinando e la sua dinastia non dovranno più regnare in Sicilia!». Dappertutto esplosero voci che il resoconto registra come tumultuose. Mentre la presidenza elaborava il testo da sottoscrivere, si discuteva sull’ordine delle firme e ciascuno interveniva, senza più ordine. «Non basta; si dichiari pubblico parricida, che deve pagare col sangue e con tutta la sua ladra fortuna le enormi atrocità per le quali ha fatto fremere l’intera natura» (così l’avvocato Giuseppe Tedaldi). Sebastiano Carnazza aveva chiesto di essere il primo a giurare e firmare: «Voi primo, ma nessuno sia l’ultimo; tutti in un cerchio» rispose concitato ancora Tebaldi. Carnazza corse allora alla tribuna e intanto un altro deputato, Vincenzo Di Marco, proclamava: «Ora i martiri son vendicati, ed i miei tra i primi. La mia famiglia è stata distrutta dal Governo borbonico per la causa della libertà. Voi l’avete vendicata, pienamente

429 G. Grassi Bertazzi, Lionardo Vigo e i suoi tempi, Giannotta Editore, Catania 1897, p. 167, corsivo mio. 430 Così Paolo Paternostro; Ass.Ris., XII, Sicilia, I, Camera dei comuni, 13 aprile 1848, p. 182.

431 Così Giuseppe La Farina, che non nascose le sue simpatie repubblicano-unitarie e che raccomandò infatti di non

affrettarsi ad adottare alcuna soluzione istituzionale vincolante prima della definitiva redazione di una costituzione; ibidem.

vendicata»433. Governo, assemblea, popolo – un popolo incarnato nelle sue diverse figurazioni: dai club

all’opinione, dalla voce e dagli applausi del pubblico in aula fino all’identità custodita nella memoria dei martiri – appaiono concordi tra gesti e parole sempre più enfatici. Ma la rappresentazione dell’unanimismo è compiuta solo con due ulteriori passaggi, uno immediato, uno differito. Il primo: giunse la notizia che la camera dei pari, sparsasi la voce della decisione in corso, si era radunata eccezionalmente alle sette di sera, dopo che aveva concluso da ore la sua seduta ordinaria; il pubblico accorse allora nell’aula contigua, dove in mezz’ora la decisione fu presa434; tornò così nella sala dei

comuni e qui giunse finalmente una commissione di pari a riunire i due rami del parlamento, con l’annuncio che anche la camera alta aveva adottato per acclamazione la decadenza di Ferdinando II. Ancora una volta si battono fragorosamente le mani, si sventolano fazzoletti, si grida in mille sensi. Poco dopo la seduta era sciolta, mentre i rappresentanti che non avevano potuto ancora firmare si affollavano intorno al banco della presidenza. Di mezzo al tumulto si udì la voce di Francesco Ferrara: «Firmiamo ora, qualcuno può morire stanotte, morrebbe col rimorso di non aver potuto col suo nome sanzionare la caduta di Ferdinando!»435.

Nel parossismo crescente delle immagini, delle emozioni, dei gesti, dei termini – che portano nell’aula parlamentare le stesse scene di entusiasmo che hanno occupato palcoscenici e platee dei teatri di quella stagione – le camere siciliane fondano il proprio potere costituente. Il resoconto non certifica il giuramento come effettivamente avvenuto, ma è interessante che sia quello il modello – politico, emotivo, narrativo – a cui si ritenne di doversi riferire anche solo apponendo una firma, soprattutto poi in un contesto come quello siciliano, dove appaiono assai ben conosciuti i precedenti storici dell’Assemblea Nazionale del 1789 e dove nei giorni seguenti si sarebbero ripetuti i più noti atti di rifondazione simbolica dell’identità collettiva di età rivoluzionaria. È interessante notare, che – si trattasse del rinnovo della toponomastica 436, della fusione delle statue dei tiranni Borboni per avere

cannoni da puntare contro il loro esercito437, dell’adozione di orfani dei combattenti caduti da parte

dello stato438 – sospendendo le procedure ordinarie di voto queste misure sarebbero state accolte «ad

acclamazione».

433 Ivi, p. 191.

434 In un’assemblea in cui sedevano molti pari spirituali, il teatino Luigi Ventura proclamò tra gli applausi la giustificazione

teologica della rivoluzione: «Io so che vi è stato detto, che il potere dei Re vien direttamente da Dio; ma questa è la dottrina dei teologi di Corte, non già la dottrina professata dai Santi Padri, dai teologi e dai dottori della Chiesa, la quale insegna che i Re ricevono il loro potere dall’intera società a cui Dio l’ha conferita»; poiché il potere ha attentato palesemente alle leggi fondamentali e all’intera società, «la società rientra nel diritto di riprendere ciò che da Dio stesso ha ricevuto»; Ass.Ris., XIV, Sicilia, III, Camera dei pari, 13 aprile 1848, p. 385.

435 Ass.Ris., XII, Sicilia, I, Camera dei comuni, 13 aprile 1848, p. 191.

436 Già nella seduta dell’indomani, su proposta dei pari la camera dei comuni accolse «ad acclamazione» la proposta di

inaugurare una via della Libertà e ribattezzare Foro Italico il Foro Borbonico; ivi, 14 aprile 1848, pp. 204-5.

437 Il bronzo, si decise, sarebbe stato destinato all’artiglieria, ma fu necessario nominare una commissione che valutasse quali

opere d’arte, una volta abbattute, dovessero però essere conservate; cfr. ivi, 6 maggio 1848, p. 427.

438 Il primo, pochi giorni dopo il 13 aprile, ancora «ad acclamazione», fu il figlio del tenente-colonnello Giovanni Romei

(«egregio vecchio, inviso a Ferdinando»), morto a Messina, che fu collocato in un seminario a spese delle stato. Il ministro della guerra Paternò intervenne commosso rivelando che aveva personalmente promesso al padre che, se fosse morto in

L’acclamazione, associata a una decisa esibizione della condivisione collettiva delle stesse emozioni, dovrebbe riflettere dunque il presunto olismo del soggetto che ha commissionato a deputati (e senatori, nel caso siciliano) il loro mandato. Proprio per questo, però, occorre essere certi che si compia l’ultimo atto della legittimazione, il quale avviene quando il circuito drammatico della rappresentanza si chiude. Infatti, oltre all’assenso del pubblico presente in aula (contro le cui intemperanze ci si sarebbe scagliati, nel caso di sedute ordinarie), occorre ricevere e rendere pubblici nello spazio dell’assemblea ulteriori attestati di consenso. Così a Palermo, nelle settimane seguenti alla proclamazione della decadenza dei Borbone, saranno più volte letti in aula gli indirizzi di corpi e comunità che informavano il parlamento di aver aderito con pubblici festeggiamenti appena giunta la notizia e che lo ringraziavano per aver finalmente portato a compimento un pensiero invariabilmente definito di tutti439.

Spostiamoci ora a Napoli. Com’è noto, la convocazione delle camere era fissata per il 15 maggio 1848. Fin dal giorno 11 i deputati affluiti alla capitale iniziarono a riunirsi in forma privata per delle sedute preparatorie nella casa di Francesco Paolo Ruggiero. Cresciuto il loro numero, nei giorni seguenti essi presero a riunirsi nella sala municipale del palazzo di Monteoliveto. Qui emerse l’eventualità che nel testo del giuramento dei deputati che il governo stava redigendo non si facesse riferimento alla facoltà di modificare lo statuto. Una protesta scritta dal gruppo più radicale della camera precisava:

Il giuramento non è altro se non la promessa fatta alla presenza di Dio dell’osservanza di un patto. Or la promessa deve riguardare un patto già convenuto e certo in tutte le sue parti. E quindi, se una delle principali occupazioni delle Camere legislative deve essere quella di modificare lo Statuto, è chiaro che non può essere giurato lo Statuto tale e quale ora si trova440.

battaglia, «la patria adotterà vostro figlio; io ve lo giuro in nome della nazione. E voi, o signori, avete adempiuto il mio giuramento»; ivi, 24 aprile 1848, pp. 250-1.

439 Il 24 fu letto per esempio l’indirizzo di Piazza, il cui Comitato descriveva i festeggiamenti per un atto che costituiva

«l’assoluto risorgimento di tutto il popolo siciliano»; ivi, 24 aprile 1848, p. 251. Ancora il 6 maggio se ne continuarono a leggere; ivi, pp. 426-7. Analoghi indirizzi avrebbero continuato a giungere per mesi al parlamento e al governo dopo la