II. Fascismo di confi ne
2. Trieste, Narodni Dom
L’eco di quanto accaduto raggiunse in maniera fragorosa anche Trieste, dove il 13 luglio le forze nazionaliste convocarono un comizio pubblico in piazza Unità, cuore della città, cui presero parte circa 2.000 persone. Ad arringare la folla, invitando a vendicare gli incidenti di Spalato, vi era Fran- cesco Giunta.
4. La ricostruzione degli incidenti di Spalato, le cui dinamiche non sono ancora oggi defi - nitivamente chiare, si è avvalsa del supporto di alcuni studi: C. Silvestri, Documenti america-
ni sui «Fatti di Spalato» del luglio 1920, in «Il Movimento di liberazione in Italia», 1 (1969),
pp. 62-81; L. Monzali, Gli italiani in Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Marsilio, Venezia 2015, p. 168; M. Kacin-Wohinz, Vivere al confi ne. Sloveni e italiani negli
anni 1918-1941, Goriška Mohorjeva, Gorizia 2004, p. 81. Si veda inoltre il contributo di
Valentina Petaros Jeromela che ricorrendo a fonti archivistiche fi no ad ora inedite, propone nuove ipotesi interpretative sulla vicenda, cfr. V. Petaros Jeromela, 11 luglio 1929: l’inci-
dente di Spalato e le scelte politico-militari, in «Quaderni del Centro di Ricerche Storiche di
Rovigno», 25 (2014), pp. 307-335.
5. Il comunicato dell’Agenzia Stefani si trova in Un grave incidente a Spalato. Ucciso il
comandante della Puglia, «Corriere della Sera», 13 luglio 1920.
Dipinto in una pubblicazione che ripercorreva le origini del fascismo triestino come un «uomo d’azione e di pensiero, di temperamento vigoroso,
capace di comandare e farsi obbedire dalle masse»7, Giunta nacque a San
Piero a Sieve, in provincia di Firenze, nel 1887.
Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, militò nel movimen- to interventista e partecipò come capitano di fanteria e mitragliere alla Grande guerra. Al termine del confl itto divenne membro del comitato fi o- rentino dell’Associazione nazionale combattenti del quale fu uno dei prin-
cipali animatori8.
Capitano e legionario dannunziano prese parte all’Impresa di Fiume, a seguito della quale fu chiamato da Benito Mussolini a Trieste per guidare i locali fasci di combattimento e disciplinare lo squadrismo cittadino al quale diede, a partire dal maggio 1920, una struttura di carattere militare attraver- so la creazione delle Squadre volontarie di difesa cittadina.
Composte da poco più di 150 elementi, spesso molto giovani, legati da rapporti di parentela, con alle spalle esperienze comuni quali la partecipa- zione all’impresa fi umana o l’emigrazione dalle regioni meridionali e dell’I- talia centrale, le squadre erano divise per presidii territoriali e la loro nascita
7. M. Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia. Dalle origini alla marcia su Roma, Celvi, Trieste 1932, pp. XIII-XIV.
8. Giunta fu membro del Gran consiglio del fascismo fi no al 1929, dopo essere diventato, nel 1923, segretario del Partito nazionale fascista. Mantenne quest’ultima carica fi no al 1924, anno in cui venne inquisito per reati minori connessi all’omicidio di Giacomo Matteotti. A seguito di tali eventi si allontanò momentaneamente dalla scena politica per poi essere però riabilitato dallo stesso Mussolini, che nel 1927 lo nominò sottosegretario alla Presidenza del Consiglio fi no al 1932, quando passò alla presidenza dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Trieste. L’11 febbraio 1943 fu inviato in Dalmazia in veste di governatore e dopo la cadu- ta del fascismo aderì alla Repubblica sociale italiana ricoprendo l’incarico di responsabile dell’uffi cio stampa del ministero della Difesa. Al termine della seconda guerra mondiale fu arrestato dagli Alleati e trasferito nel campo di internamento di Coltano (Pisa), da dove uscì nel novembre 1945 per essere consegnato all’Alto commissariato per le sanzioni contro i re- ati fascisti, che aveva deciso di riaprire la fase istruttoria per il delitto Matteotti. Il suo nome fi gurava insieme a quelli di altri imputati ma, come già accaduto durante il primo processo, venne nuovamente assolto. Fondatore nel 1920 de «Il popolo di Trieste», direttore del setti- manale «Milizia. Rivista delle camice nere», fu anche fervente pubblicista (tra le sue maggio- ri pubblicazioni si ricordano Essenza dello squadrismo, scritto nel 1932 e Un po’ di fascismo pubblicato nel 1935). Morì a Firenze nel 1971. Cfr. M. Canali, Le spie del regime, il Mulino, Bologna 2004, p. 39; Id. Francesco Giunta, in Dizionario biografi co degli italiani, 57 (2001), <http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-giunta_(Dizionario-Biografi co)/>, visitato il 5 aprile 2020; G. Mayda, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dùmini, sicario di Mat-
teotti, il Mulino, Bologna 2004, pp. 42, 121, 136; E. Apih, Italia, Fascismo ed Antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966, pp. 187-190; M. Cattaruzza, Italy and Its Eastern Border, 1866-2016, Routledge, New York and London, pp. 123-125; A. Scurati, M. Il fi glio del secolo, Bompiani, Milano 2018, pp. 107, 617, 652.
spinse lo squadrismo triestino a rivendicare un ruolo di precursore rispetto
al resto del paese9.
Costituitosi il 3 aprile 1919 (dunque a brevissima distanza dalla riunione milanese di San Sepolcro che sancì, il 23 marzo, la fondazione del movi- mento dei Fasci di combattimento), il Fascio triestino dovette la sua precoce affermazione all’intreccio di una serie di fattori che si trovarono a coesistere nell’immediato contesto post-bellico. Alla pesante eredità lasciata dal con- fl itto in termini di vite umane e distruzioni morali e materiali, si mescola- vano anche il dissesto economico e sociale, l’incertezza per il futuro assetto dell’area, l’aggressività del discorso nazionalista e, non per ultimo, il pro- fondo rimescolamento demografi co, segnato dal ritorno a casa dei profughi fuggiti durante la guerra, dalla presenza di consistenti fl ussi migratori pro- venienti da altre regioni del Regno d’Italia e dall’allontanamento di gruppi di popolazione slovena e austro-ungherese.
Tra questi ultimi furono circa 28.000 quelli che tra il 1919 e il 1922 la- sciarono Trieste. Un’ondata alla quale si contrappose, nello stesso arco di tempo, l’arrivo di circa 50.000 persone giunte in città in cerca di opportunità lavorative: i cosiddetti regnicoli, che Attilio Tamaro, alfi ere del nazionali- smo giuliano, descriveva, non senza astio, come «uno stormo di parassiti,
tenori, baritoni, violinisti e mandolinisti»10, giunti alla spicciolata, senza ri-
sorse e senza molto da perdere.
Essi rappresentarono il maggiore serbatoio cui le Squadre di azione pote- rono attingere per le loro violenze, costituendo uno dei principali nuclei del fascismo triestino, che trovò quindi in città un terreno fertile sul quale fi ori- re. Lo dimostrano, ad esempio, gli oltre 14.750 iscritti nel 1921 alla locale federazione fascista (la prima in Italia per numero di aderenti) e la stampa de «Il Popolo di Trieste», fi liazione diretta de «Il Popolo d’Italia» che, pub- blicato per la prima volta nel dicembre 1920, raggiunse in poche settimane
una tiratura di 40.000 copie11.
Trieste, come scriveva Giunta a Mussolini nell’agosto del 1920, rappre- sentava dunque «la terra per il fascismo», da dove sarebbe potuta scoccare
«la scintilla per conquistare il paese alle nostre idee»12, nelle quali la bat-
9. Cfr. Irsrec-Fvg, Vademecum per il giorno del ricordo, cit., p. 9.
10. Per la citazione di Tamaro, cfr. A.M. Vinci, Il fascismo e la società giuliana, in Irsml,
Friuli e Venezia Giulia: storia del ’900, Leg, Gorizia 1997, p. 221.
11. A.M. Vinci, Il fascismo al confi ne orientale, in, A. Algostino [et al.], Dall’Impero
austro-ungarico alle foibe. Confl itti nell’area alto-adriatica, Bollati Boringhieri, Torino
2009, p. 84.
12. La citazione della lettera di Giunta a Mussolini si trova in S. Lupo, Il fascismo. La
taglia al bolscevismo si saldava a quella contro la popolazione slava, che lo stesso Giunta non esitava a defi nire, nel settembre 1920, «irreducibile»,
respingendo così ogni forma di «fratellanza e convivenza»13.
Parole che sembravano ricalcare quelle dello stesso Mussolini, che la sera del 21 settembre pronunciò al Politeama Ciscutti di Pola, in Istria, un discorso dai toni e dai contenuti perentori, che avrebbero scandito la politica fascista degli anni successivi:
Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone […] I confi ni dell’Italia devono essere: il Brennero, il Nevoso e le Dinariche […] Chi è dentro le nostre terre di frodo o con frode deve andarsene. […] Oggi l’opera dei fascisti si riduce a quella di sprangare la porta di casa e rastrellare nell’interno. Noi non possiamo disarmare, fi nché gli altri non avranno disarmato; noi non possiamo trasformare le nostre spade in aratri, fi nché la stessa cosa non avranno fatto gli altri Stati e la Jugoslavia vicina! Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche14.
Dai passaggi sopraccitati emerge il carattere peculiare e la specifi ca iden- tità del fascio triestino che, fi n dai suoi primi passi, scelse la defi nizione di fascismo di confi ne per connotare la propria esperienza.
Ergendosi a «sentinella della patria»15 e a baluardo di difesa dell’italiani-
tà contro le pressioni del mondo sloveno e croato, nutrendosi di un linguag- gio caratterizzato da ampi e continui riferimenti alla violenza, alla sacraliz- zazione del sangue e al mito irredentista della Grande guerra, il fascismo
di confi ne assunse i contorni di un «movimento nazionalista e antislavo»16.
Elementi ricorrenti anche nel discorso di Mussolini, dietro al quale, a ben vedere, si può cogliere l’essenza del nucleo argomentativo del fascismo di confi ne che, consolidatosi con il percorso totalitario, mirava a raggiungere un duplice obiettivo.
Da un lato individuare, ponendoli defi nitivamente ai margini, i nemici interni (socialisti, comunisti, slavi e slavo – comunisti) ed esterni (la Jugo-
13. M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Feltrinelli, Milano 2019, p. 32.
14. Il discorso di Mussolini si trova in B. Mussolini, Discorso di Pola, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini, vol. XXXV, Aggiunte. Scritti e discorsi, lettere
e telegrammi, messaggi. Cronologia essenziale dal 13 settembre 1943 al 28 aprile 1945, La
Fenice, Firenze 1951, pp. 67-70. Per la citazione, cfr. p. 70.
15. Traggo l’espressione da A.M. Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confi ne
orientale d’Italia 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011.
16. Cfr. R. Wörsdörfer, Il confi ne orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, il Mu- lino, Bologna 2009, p. 27.
slavia), dall’altro creare una solida identifi cazione tra fascismo e italianità che, in nome di una presunta «purezza e superiorità di stirpe, cultura e civiltà
italiana»17, poggiava le sue fondamenta sull’esclusione dell’altro.
È però necessario sottolineare come la battaglia contro la «razza inferio- re e barbara» evocata dal futuro duce, trovò un prezioso e decisivo alleato nelle autorità militari e politiche (il Governatorato militare, divenuto poi un organismo civile) che, incaricate di gestire il passaggio all’amministrazione italiana delle aree redente, non operarono, di fatto, alcuna sostanziale azione di contrasto.
Intolleranza, aggressività ed esclusione divennero così le parole d’ordi- ne del fascismo di confi ne che, avvalendosi di una propaganda in grado di penetrare nelle diverse maglie della società giuliana, operò su vasta scala ricorrendo a pratiche intimidatorie e a violenze diffuse, il cui picco di mag- giore intensità venne raggiunto proprio a Trieste durante la manifestazio- ne organizzata a seguito dei fatti di Spalato. La città di San Giusto doveva quindi rappresentare il banco di prova dell’offensiva fascista, che il 13 luglio presentò il suo biglietto da visita.
Abbiamo visto come ad arringare la folla vi fosse Giunta, che dal palco di piazza Unità, con fervente oratoria, invitava i presenti a:
stabilire la legge del taglione. Bisogna ricordare e odiare […]. L’Italia ha portato qui il pane e la libertà. Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affi lati e lucidi, che deponemmo pacifi camente al fi nir della guerra e quei pugnali riprenderemo per la salvezza dell’Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno18.
Oltre a Giunta, come rivela un verbale fi rmato dal tenente colonnello Aldo Giungi, comandante della Legione dei carabinieri di Trieste, presero la parola anche lo zaratino Oscar Randi (pubblicista, autore di monografi e sulla storia dalmata e futuro aderente al fascismo), Ruggero Conforto, segre- tario del fascio triestino ed Ettore Dagnino sansepolcrista milanese apposi- tamente giunto in città.
Mentre il comizio volgeva al termine, iniziarono a manifestarsi segnali di tensione, che i carabinieri ricondussero alle provocazioni di «alcuni sla-
17. Cfr. A.M. Vinci, Per quale italianità? La nuova mitologia della patria al confi ne
orientale nel secondo dopoguerra, in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità. L’Uffi cio per le zone di confi ne a Bolzano, Trento e Trieste (1945- 1954), il Mulino, Bologna 2015, p. 336.
18. Il passaggio del discorso di Giunta si trova in. A. Apollonio, Dagli Asburgo a Musso-
vi frammischiati alla folla»19. Scoppiarono così i primi tafferugli, durante i
quali furono accoltellate due persone: l’istriano Antonio Raikovic, colpito perché accusato di aver pronunciato una frase in sloveno mentre si recava al lavoro e Giovanni Ninni, giovane cuoco in servizio presso il ristorante Bo- navia. Il primo riuscì a salvarsi, mentre il secondo morì durante il trasporto in ospedale.
Poco dopo, come si evince ancora dal verbale redatto da Giungi, salì sul palco Randi informando i presenti che uno sloveno, riuscito a dileguarsi,
aveva «proditoriamente ucciso con due pugnalate»20 il Ninni la cui morte,
avvenuta in realtà con dinamiche mai chiarite fi no in fondo, fu immediata- mente identifi cata come una diretta conseguenza delle provocazioni slave.
A questo punto, quasi vi fosse un piano preordinato, circa 500 perso- ne lasciarono la piazza dirigendosi verso una serie di obiettivi predefi ni- ti: il giornale sloveno «Edinost», il quotidiano «Il Lavoratore», organo del Partito socialista triestino e la sede della Rappresentanza uffi ciale jugoslava.
L’imponente spiegamento di forze dell’ordine schierate a difesa degli edifi ci già dalle prime ore del pomeriggio, fece desistere i dimostranti dal loro obiettivo. Un gruppo riuscì però a raggiungere il Narodni Dom. Lo stabile, un palazzo di sei piani edifi cato tra il 1901 e il 1904 su progetto dell’architetto Max Fabiani, rappresentava il cuore pulsante della presenza slovena in città, poiché oltre all’Hotel Balkan (che occupava un intero lato dell’edifi cio) ospitava, unitamente a una sala teatrale, le principali organiz- zazioni culturali ed economiche slovene. Con la sua presenza contribuiva dunque a incrinare l’immagine di Trieste come un centro compattamente
italiano e, per tale motivo, andava colpito ed eliminato21.
Erano appena scoccate le 19 quando le squadre di Giunta, divise in tre colonne che marciavano disciplinate utilizzando tecniche e strategie parami- litari, circondarono l’edifi cio, dinnanzi al quale, su diretta disposizione del questore Adolfo Perilli, stazionavano circa 450 tra guardie regie, soldati e carabinieri presenti.
19. Rapporto del tenente colonnello Aldo Giungi, comandante interinale della legione dei carabinieri di Trieste, del 15 luglio 1920 (prot. n. 558/15), in Archivio di Stato di Trie- ste (d’ora in avanti Ast), Commissariato Generale Civile (CGS), Gabinetto, Fondo Balkan, Busta (B.) 85.
20. Cfr. Lettera inviata da Adolfo Perilli, questore di Trieste, al Commissariato generale civile per la Venezia Giulia il 14 luglio 1920, in Ast, CGS, Gabinetto, Fondo Balkan, B. 85.
21. Cfr. D. Nanut, Le memorie e la guerra, in G. Musetti (a cura di), Donne di frontiera.
Vita, società, cultura, lotta politica nel territorio del confi ne orientale italiano nei racconti delle protagoniste, Il Ramo d’Oro, Trieste 2007, p. 14.
Secondo la testimonianza di Giungi, sulla quale si sarebbe poi basata la versione uffi ciale delle autorità, non appena il primo gruppo fece la sua comparsa sulla piazza, da una fi nestra dell’albergo esplosero alcuni colpi di arma da fuoco, seguiti dallo scoppio di due bombe a mano, le cui scheg- ge ferirono mortalmente Luigi Casciana, tenente dell’esercito originario di Caltanissetta in attesa di congedo, che si trovava – non è chiaro in quale veste – sul luogo.
Contemporaneamente dal tetto dello stabile si levarono altri colpi di fu- cile rivolti verso la forza pubblica, impegnata a controbattere al fuoco. Un gruppo di carabinieri e di militari si unì però ai dimostranti che, entrati nel palazzo, devastarono i circoli sloveni e appiccarono un incendio. Le fi amme, divampate in breve tempo senza che ai pompieri fosse consentito di interve- nire, costarono la vita a Ugo Kablek, ospite dell’albergo che, nel tentativo di salvarsi, si gettò dal terzo piano insieme alla moglie rimasta invece gra-
vemente ferita22.
Le dinamiche della devastazione appaiono avvolte da numerose incer- tezze, anche se l’appurata partecipazione di alcuni esponenti della forza pubblica che, di fatto, permise l’assalto pur essendo in grado di reprimerlo, evidenziava la connivenza tra l’ala più radicale delle autorità civili e militari e i fascisti, ai quali esse avevano lasciato campo libero. Lo scopo era pro- babilmente quello di rafforzare la posizione italiana nelle trattative con la Jugoslavia per la defi nizione dei confi ni conclusasi, come si è visto, con la
fi rma del Trattato di Rapallo23.
Come e per quale motivo le autorità locali avessero voluto «portare a fondo il disordine» era una domanda echeggiante anche sulle pagine dell’«Avanti!» in un contributo che ricostruiva fedelmente la cronaca delle giornate triestine. Secondo il quotidiano socialista, la risposta andava individuata nella volontà di «gruppi di facinorosi» di acuire il «rinfocolamento degli odi nazionali», destinati – si legge nelle righe conclusive dell’articolo – a provocare «nuovi
lutti e nuovi guai ai due paesi»24.
Un’altra testimonianza che fornisce una versione dei fatti alternativa a quella uffi ciale arriva da Giuseppe Piemontese, redattore de «Il Lavoratore», in un suo libro che ripercorre le tappe più signifi cative del movimento ope-
22. Cfr. Rapporto di Aldo Giungi, 15 luglio 1920, cit. Una ricostruzione dettagliata degli eventi si trova anche in C. Schiffrer, Fascisti, militari all’assalto del Balkan, in «Trieste», 55 (1963), pp. 1-12 e in M. Kacin Wohinz, L’incendio del Narodni Dom a Trieste, in «Qualesto- ria», 1 (2000), pp. 89-99.
23. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., p. 33.
raio triestino. Testimone diretto degli avvenimenti, scrisse che la bomba non fu lanciata dal Balkan ma esplose per errore nelle mani di un dimostrante e affermò anche di aver visto gruppi di militari partecipare ai disordini sotto lo sguardo compiaciuto di alcuni funzionari di polizia, certifi cando così la
connivenza tra i dimostranti e la forza pubblica25.
Punto di svolta tra le violenze occasionali compiute fi no a quel momento
e lo «squadrismo organizzato»26 che da lì a poco avrebbe terrorizzato le
campagne della pianura padana, l’incendio del Balkan, così come sarà defi - nito dalle fonti fasciste, trovò spazio nella memoria degli autori e in quella delle vittime, assumendo naturalmente sfumature e signifi cati differenti.
Nel suo pamphlet Un po’ di fascismo, Giunta, ripercorrendo quei momenti, pose al centro della narrazione le fi amme che, divampate, trasformarono «il tetro edifi cio in un braciere ardente», mentre la città sfi lava «davanti alle rovi- ne incandescenti con l’anima leggera e il respiro come chi è stato tolto da un
incubo»27. Alle sue parole si contrappongono quelle dello scrittore sloveno Bo-
ris Pahor, all’epoca poco più di un bambino che, testimone insieme alla sorella della distruzione del Balkan, ricorda nel suo romanzo Necropoli «il cielo color sangue sopra il porto, e i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle
mura aristocratiche danzavano come selvaggi attorno al grande rogo»28.
Il rogo del Narodni Dom assume in entrambe le testimonianze un signi- fi cato di assoluta rilevanza: per i fascisti esso coincise con la distruzione del luogo simbolo e simbolico della comunità slovena e della sua identità, mentre per gli sloveni certifi cò l’inizio della lunga stagione di oppressioni e
violenze che accompagnarono l’intero ventennio mussoliniano29.
Ritornando alla cronaca del 13 luglio, occorre ancora sottolineare come, dopo gli incidenti del Balkan, si verifi carono in diversi punti della città altri
attacchi a istituzioni slovene: una «folla esacerbata»30 – scriveva il «Corriere
della Sera» – si diresse infatti, danneggiandoli gravemente, verso uffi ci ban- cari (Banca Adriatica e Banca di Lubiana), esercizi commerciali (Caffè del Commercio) e abitazioni private di cittadini sloveni.
25. Cfr. G. Piemontese, Il movimento operaio a Trieste, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 371-376.
26. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1995, p. 624. 27. F. Giunta, Un po’ di fascismo, Consalvo, Milano 1935, pp. 12-13. 28. B. Pahor, Necropoli, Fazi Editore, Roma, 2008, p. 43.
29. Cfr. A.M. Vinci, Il fascismo al confi ne orientale. Appunti e considerazioni, in «Storia