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Le riunioni con pazienti e famigliari: le nostre riflessioni

PARTE SECONDA LA REALTA‟ BIELLESE

1. DESCRIZIONE DEL NOSTRO CONTESTO DI OSSERVAZIONE

1.4 Le riunioni con pazienti e famigliari: le nostre riflessioni

La psicologa dell‟équipe ci ha proposto di partecipare agli incontri mensili che tiene con pazienti e famigliari, quali momenti di condivisione dei diversi vissuti nei confronti della malattia.

In queste riunioni l‟obiettivo è quello di parlare della propria esperienza e confrontarla con gli altri partecipanti che vivono situazioni simili sia come pazienti sia come famigliari.

Questo gruppo è composto da pazienti affetti da cancro che raccontano la loro storia e come hanno convissuto, talora per anni, con la malattia e da famigliari che, con la loro presenza, mantengono vivo il ricordo dei loro cari.

Ci troviamo, durante questi incontri, su un piano molto differente rispetto le riunioni d‟équipe di taglio prettamente medico; qui sono in gioco le emozioni e i vissuti personali.

La partecipazione a queste riunioni comporta un tipo di coinvolgimento diverso perché qui i contenuti toccano nel profondo e il clima che si crea è di forte condivisione empatica, in quanto ogni componente sa di essere intimamente compreso ed è quindi libero di esternare forti emozioni, anche di piangere, sapendo di non essere giudicati.

Al momento della diagnosi e durante il trattamento, il paziente non dovrà solamente affrontare la malattia e l‟ambiente sanitario, ma dovrà anche lottare per mantenere un equilibrio emotivo ragionevole ed un‟immagine di sé soddisfacente, salvaguardando quanto più possibile una buona integrazione sociale.

Si tratta di un compito che richiede la mobilitazione di tutte le risorse adattive del soggetto e, talvolta, anche l‟aiuto di certi meccanismi di difesa.

Nel caso di lunghe convivenze con la malattia, risalenti addirittura a quindici, diciassette anni fa, viene ripercorso il difficile cammino giornaliero dallo shock iniziale della scoperta della malattia, alla sua difficile accettazione.

Si può pensare che all‟inizio della malattia, il paziente possa beneficiare ancora dell‟energia, dell‟interesse e della speranza di tutti coloro che lo circondano; la situazione si modifica man mano che il tempo passa e le riserve psicologiche e fisiche vanno esaurendosi.

Una paziente apre così la riunione: “Quindici anni fa … sono andata fuori di testa … poi ho avuto la forza di reagire perché ho detto chiudo tutto, non penso al male vado avanti così, con la forza del Signore tirerò avanti, ma adesso sono tornata indietro lo stesso, … non penso al male, sono sicura che starò meglio. E vado avanti e non ci penso, se mi vengono dei pensieri cattivi li butto via, e mi metto a pensare a qualcosa di nuovo e mi metto a fare delle cose, dei lavoretti … e mi dico: – ma no … sto bene - e così vado avanti bene … io sono religiosa, e quindi anche accettare il fatto che se è il momento di fare le valigie e tornare a casa su da Lui, bisogna accettarlo … eh sì, perché non si può rimanere sempre qui, arrivato il nostro momento …”

Nel caso di questa signora è la profonda fede in Dio che le permette di trovare la forza di reagire, giorno per giorno, ma non tutti riescono a trovare questo

conforto nella religione; basti pensare a coloro che considerano il dolore come un castigo per il male compiuto, facendolo dipendere tutto da un Dio vendicatore e crudele, senza tenere conto dei fattori ambientali e personali che possono influire.

“Non riesco a pensare come la signora, sono contenta che lei creda che sia così e forse le persone che ragionano così si danno una scusante, una forza in più e dicono: – Va beh è arrivata la mia ora - ma io questa cosa non l‟accetto come non accetto che muore un bambino di 10 anni, è un‟ingiustizia troppo grossa … se ci fosse un Padre eterno … sicuramente non sono molto religiosa e lo dico, allora se ci fosse un Padre eterno a maggior ragione cosa fa? Si sta divertendo alle nostre spalle, io la vedo così, poi forse chi è religioso accetta di più tutto … per me è proprio difficile …”

Forte in queste persone è la preoccupazione per chi resta: “ … quando io mi sono ammalata ero convinta che non ce l‟avrei fatta, mi davo due anni di vita e ricordo questo particolare che ero preoccupata perché avevo un figlio imbranato che non riusciva allacciarsi le scarpe e mi ricordo che mi dicevo: – Beh quando morirò P. avrà imparato ad allacciarsi le scarpe e sarà un pochino più responsabile - quindi è stata dura mandarla giù …”

Il marito di una signora morta qualche mese fa ricorda: “ … lei mi guardava ed era cosciente, faceva finta di niente e diceva: - Io vado a fare qualcosa di importante … – come si fa a dire una cosa del genere? Ma lo diceva sempre con serenità al punto che insegnava a far da mangiare alla più piccola a mettere a posto tutte le cose di casa con una tranquillità addosso che era mostruosa …”

Un altro esempio molto toccante su quest‟argomento è raccontato dalla psicologa: “Io avevo un‟amica che è morta di tumore e aveva due bambine piccole e ad un certo punto si è ammalata … lei aveva due gemelle ed era preoccupata per una perché era troppo disordinata: - Se non impara a essere più ordinata farà confusione anche con i pensieri - e per l‟altra perché non studiava. Aveva preparato, mentre era in ospedale, due quadretti al punto croce e in uno aveva scritto: M. riordina e nell‟altro: V. studia … poi li aveva dati alle bambine dicendo: - Io morirò, però voglio che vi rimanga questo insegnamento -.

Sembravano una banalità, mentre questi quadretti seguono le ragazze … non sono le grandi cose quelle che restano… ma le piccole cose …”

A volte i pazienti, entro breve tempo, hanno l‟impressione di appartenere ad un mondo a parte, incompreso o anche evitato; piuttosto che la morte si teme l‟abbandono, il rifiuto, l‟isolamento, soprattutto all‟inizio e alla fine della malattia.

Emerge, con varie sfumature, il sentimento della solitudine, presente sia nei malati che nei parenti: “Ero comunque sola, io mi vedevo come se fossi stata una naufraga in lotta contro il mare e sulla riva mi immaginavo tutte le persone che mi erano care e che facevano il tifo per me, però loro erano al sicuro, io no …”; “Io ero sempre solo all‟ospedale, sempre solo sin da quando ho scoperto la malattia e l‟ha scoperta pure lei, eravamo sempre soli …”

Durante le riunioni emerge forte la difficoltà di parlare di argomenti delicati come la sofferenza e la morte con persone che godono di buona salute; spesso, in questi casi, si cerca il conforto di coloro che stanno vivendo momenti dolorosi che, si presume, possano capire ciò che si prova in simili circostanze.

“In alcuni momenti, quando mia madre non stava bene, mi chiedevo se ero normale o meno e mi sarebbe piaciuto confrontarmi con qualcuno, prediligevo la compagnia di persone con cui potevo parlare e sfogarmi; c‟è stato un riavvicinamento fortissimo con mia cugina che aveva perso il marito. Io provavo un forte imbarazzo nel parlare di ciò che mi stava capitando con alcune persone, magari che stavano bene … e le persone che stanno bene difficilmente capiscono

…”

A volte, però, per alleviare la solitudine è sufficiente la semplice presenza, piuttosto che una soffocante offerta d‟aiuto: “ … i miei parenti non sono venuti molte volte e non ci hanno mai chiesto come sta, o come non sta … ci portavano fuori a pranzo o a cena, senza mai chiedere come stava … mi bastava che fossero presenti … era troppo bello …”

Ci sono delle situazioni in cui il famigliare non è in grado di provvedere da solo all‟assistenza del malato terminale e ricorre a strutture adeguate come l‟hospice: “Io per esempio sono un caso diverso perché mia mamma era a casa malata terminale, io sono figlia unica, ho un papà malato, sono sposata, ma non ho figli … io ad un certo punto non me la sono sentita di vederla mancare in casa perché mi sembrava di impazzire, non ce l‟ho più fatta, ho chiesto per favore portatemela via gli ultimi giorni perché se muore qui, vado fuori … e quindi è morta là e io sono stata contenta perché anche quando è mancata con tutte „ste infermiere intorno che mi davano forza che mi dicevano signora la tenga stretta io già la baciavo … però se fossi stata da sola forse non avrei potuto ritornare a casa

dove lei era morta … quando è mancata io non ero sola … il marito non può darti come un fratello … io mi sentivo sola… io mi sentivo sola e lì mi sono sentita bene …”

Un buon adattamento alla malattia è possibile soltanto sulla base di un insieme di elementi personali e relazionali positivi: buona immagine di sé e della propria identità, disponibilità alla relazione, fiducia nella medicina e nell‟efficacia del trattamento, buona relazione fra le proprie aspettative di vita e la reale condizione di malattia.

“Si ha l‟impressione che le capacità adattive siano inversamente proporzionali alla debolezza: i pazienti più “forti” affrontano la realtà, ne selezionano gli aspetti positivi e si sottopongono al trattamento con fiducia; gli altri, più “deboli” fanno spesso ricorso a meccanismi di evitamento, alla passività, alla sottomissione stoica” (Weisman, 1976 citato in Guex, 1988).

Durante una riunione si è discusso su come la forza d‟animo di una persona influisca sul modo di affrontare la malattia: “ … quando sono andata dal chirurgo piangevo perché c‟era la tabella con le aspettative di vita e il chirurgo mi ha detto:

– Guardi pianga pure, si sfoghi pure, ma si ricordi che quando sarà ricoverata dovrà essere forte, dovrà essere forte perché io faccio la mia parte e lei deve fare la sua e l‟atteggiamento del paziente conta tanto -. Poi in effetti ho smesso di piangere … – Ho avuto un tumore e ho vinto, ho vinto! – e mi sentivo forte, poi questa forza per altri motivi ha cominciato ad abbandonarmi perché non ci sono soltanto le malattie, il tumore nella vita … a volte succedono cose ad altri livelli.

E allora mi sentivo colpevole perché mi lasciavo andare giù. E finalmente ho trovato un giornale, non so più quale, un articolo in cui si parlava di questa gran favola: - Se sei forte ce la fai - quei poveretti che la forza non ce l‟hanno, cosa si devono sentire? … non è vero che se sei forte ce la farai, non è vero che stai meglio, ti senti meglio e la vivi meglio …”

A volte i momenti di debolezza sono molto preziosi perché permettono un riavvicinamento emotivo: “Mia madre si dimostrò molto forte, cominciò a dimostrarsi molto forte, stupendoci, quando si è ammalata. Lei non era un tipo coccolone, lei non faceva le coccole, per dire, però i suoi momenti di debolezza sono stati per noi anche un‟occasione per accarezzarla in particolare negli ultimi mesi, in questo periodo io, parlo per me naturalmente, ho recuperato molto di quello che mi è venuto a mancare, non appena sono diventata un po‟ grandina quando avevo sei, sette anni e non era più il caso di venire coccolata … è stato un modo buono, l‟unico modo per recuperare il rapporto, ed erano momenti in cui lei diceva – Non ce la faccio, ho voglia di piangere …- certe volte ho anche pensato che stavo rischiando di idealizzarla un po‟ questa madre così forte, mi sono trovata a chiedermi più di una volta: - Io non riuscirei mai ad essere come lei – e quindi anche queste cose sono state un‟occasione per ridimensionare …”

Nell‟ultima riunione a cui abbiamo assistito la psicologa ha proposto la suddivisione in due gruppi, quello dei pazienti e quello dei famigliari per non disilludere le speranze dei primi e favorire l‟elaborazione del lutto negli altri.

“Il discorso è che le vostre storie portano a parlare di lutto, di morte, si costruisce un discorso orientato verso l‟elaborazione e non verso il -Ce la possiamo fare-.”

Inizialmente non erano tutti dello stesso parere, ma si è riflettuto sul fatto che molte volte la comunicazione tra i famigliari sia stata inibita dalla presenza di malati che stanno ancora lottando contro la malattia.

Come ultima riflessione riportiamo la proposta del primario del dipartimento oncologico e della psicologa di scrivere una lettera di condoglianze ai famigliari dei pazienti deceduti, seguiti dall‟UOCP.

Abbiamo riflettuto, insieme a loro, su come un gesto che richiede così poco tempo e impegno, sia, in realtà molto prezioso e indice di un‟assistenza che non termina bruscamente con la morte del paziente.

I famigliari potranno così non sentirsi del tutto abbandonati in un momento così delicato quale quello della morte del congiunto: “Io l‟ho ricevuta la lettera, in quel momento ci avrei sputato sopra, ora ne capisco l‟importanza ed è stato un grande dono.”

Siamo molto grate a questo gruppo di pazienti e famigliari per aver condiviso con noi i racconti della loro difficile convivenza con la malattia: le loro narrazioni hanno dato “vita” alla nostra tesi e lezioni indimenticabili; è stato emotivamente forte udire i racconti dalle loro voci, a volte rotte dal pianto e non mediati da una scheda di osservazione.

PARTE TERZA

STORIE DI PAZIENTI TERMINALI

1. STRUMENTI UTILIZZATI E MOTIVAZIONE