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2. UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA: DAL CURARE AL PRENDERSI CURA

2.1 L’Umanizzazione della medicina

“Chi si arricchisce con le lacrime degli altri, non potrà mai piangere di gioia.” (L. Somma)

“Le cure palliative hanno comportato un enorme cambiamento all‟interno della prospettiva medica; hanno permesso, infatti, il passaggio da un ambito in cui veniva posta al centro la malattia ad un altro, in cui è il malato, con la sua sofferenza, il vero protagonista dell‟intervento. Più che una nuova specializzazione medica, esse sono dunque frutto di una mentalità che non privilegia solo il tecnicismo e l‟efficientismo, ma recupera un rapporto più antico e profondo tra medico e paziente, per cui il medico ha un compito ed un ruolo anche quando non può guarire” (Ghislandi, 1994).

Spinsanti (1996) definisce le cure palliative come “una medicina dal sapore materno”, esse partono infatti dal presupposto che, se il contatto fisico è il primo dei bisogni dell‟essere umano quando viene al mondo, nessuno stupore che sia anche l‟ultimo a scomparire.

Il cammino verso la realizzazione della “medicina umana” parte dal riconoscimento e dall‟accettazione delle seguenti riflessioni:

 la constatazione della tendenza della medicina verso un tecnicismo e la promessa di guarigione e di sconfitta della morte, ma che ha prodotto l‟alienazione del rapporto umano;

 la constatazione della propria impotenza e del relativo fallimento terapeutico nei confronti di alcuni patologie croniche e mortali per le quali non è possibile garantire la guarigione.

Altri elementi fondanti l‟umanizzazione sono: il rispetto per la persona e per l‟essere umano umiliato e offeso dalla malattia, la restituzione della soggettività, l‟impegno a fornire risposte nuove nell‟ottica del “prendersi cura” e dell‟accompagnare.

L‟attenzione deve, quindi, essere spostata dalla malattia e dall‟organismo malato all‟uomo e ai suoi bisogni, ancora più critici nella malattia.

Considerando l‟essere umano come un sistema, le scienze biomediche lo hanno oggettivizzato, lo hanno astratto dalla sua storia, dalla sua soggettività e dalla sua esistenza.

Nel momento della malattia, caratterizzata da fragilità, vulnerabilità, sofferenza e da bisogni di risoluzione urgenti e intensi, si realizza, da parte del paziente, un affidamento completo all‟efficacia ed alla precisione della scienza e della tecnica, dalle quali egli si aspetta risposte e risultati in grado di controllare l‟invasività della malattia e della paura.

C‟è, infatti, un bisogno psicologico che spinge il malato ad affidare la propria vulnerabilità ad una forza rassicuratrice, considerata potenzialmente infallibile: in nome di tale infallibilità il malato è disposto ad accettare anche la spersonalizzazione dei rapporti e anche la disumanizzazione della tecnica.

Tuttavia, se la tecnica fallisce, se non mantiene le promesse, se non “aggiusta”

l‟organismo, essa non fornisce nessun‟altra risposta all‟uomo malato, che si trova solo a cercare di dare un senso a quello che è successo.

La malattia che irrompe nella vita dell‟uomo interrompe la sua storia, perché lo offende nella sua integrità fisica; l‟interruzione del racconto genera la crisi che mette in gioco l‟identità dell‟individuo.

L‟uomo malato non ha mai una parte “difettosa” separata dal tutto; chi è malato lo è fisicamente e psicologicamente insieme e, quindi, ha bisogno di servizi non solo tecnicamente validi, ma anche predisposti per una presa in carico totale.

Per affrontare proficuamente la complessità e la varietà dei bisogni, serve la combinazione di tutte le competenze: medica, psicologica, sociologica.

Perché sia possibile realizzare una medicina umana è necessario un cambiamento di mentalità, di cultura ed anche un tempo che consolidi il cambiamento.

Nella nostra cultura, la qualità di vita è considerata un valore importante:

quando non può guarire, infatti, la medicina sente l‟obbligo di alleviare i dolori del malato per rendere la fase terminale più vivibile, più umana.

Ma il malato che considera più importante la quantità di vita rispetto alla qualità, lotta angosciato contro la disperazione; in questo caso è necessario, allora, aiutare la persona ad avere speranza attraverso la sua valorizzazione, il rispetto per le sue scelte, i suoi stili di vita, la sua storia personale.

E‟ questa la medicina personalizzata, che ricorre all‟intervento della psicologia per promuovere condizioni più umane.

Esiste, però, un‟altra categoria di persone che non privilegia né la qualità né la quantità di vita, ma il senso: questi individui sono impegnati a far sì che, morendo, la vita non perda significato. Aiutare la persona affinché la morte non tolga senso alla vita è il vero, autentico significato dell‟umanizzazione.

La medicina umana deve riconoscere uno spazio alla parola; è attraverso di essa che può realizzarsi la comprensione di chi si ha di fronte, dei suoi desideri, del suo modo di porsi nel mondo.

La relazione medico-paziente è un esercizio di comunicazione che richiede una profonda percezione dei significati delle parole, del linguaggio e della cultura.

Nell‟incontro con il medico, il paziente parla solitamente dei suoi sintomi e raramente delle sue preoccupazioni, dei suoi desideri, delle sue speranze o illusioni; anche il medico parla, solitamente facendo considerazioni tecniche.

Ma il malato, nel suo intimo, ha bisogno di colloquiare, di esprimere timori, ansie, affetti ed anche risentimenti, ha la necessità di conoscere meglio la natura della sua malattia.

Il processo di umanizzazione, in quanto implica una serie di cambiamenti culturali in ambito sanitario, non può essere né parziale né selettivo.

Se è vero che la medicina si è trasformata in scienza, affidandosi alla tecnologia, è altrettanto vero che è rimasto invariato l‟oggetto della sua ricerca:

l‟uomo.

E l‟uomo, oggetto di attenzione, non è soltanto il paziente, ma anche l‟operatore sanitario; il prolungamento della vita, in presenza di malattie croniche inguaribili, richiede infatti al personale lo svolgimento di funzioni che vanno al di là degli aspetti tecnici.

Gli operatori devono affrontare costantemente la minaccia e la realtà della sofferenza e della morte e questo evoca situazioni emotive molto personali, nei confronti delle quali il distacco ed il controllo dei sentimenti nella relazione rappresentano un‟importante difesa psicologica.

La prima struttura da modificare è l‟ospedale e il fulcro del processo di umanizzazione è costituito dalla qualità delle relazioni interpersonali e dallo stile di comunicazione che gli operatori sanitari mettono in atto.

Le relazioni fra i membri dell‟équipe curante sono uno dei fattori fondamentali del processo nelle strutture ospedaliere; la qualità e il tipo di relazione che si sviluppano attorno al paziente assumono una funzione terapeutica fondamentale.

Aspetti importanti sono però anche l‟integrazione delle competenze, per superare i limiti delle varie impostazioni ed avvicinarsi sempre più all‟uomo.

I risultati di queste componenti si misurano in una bassa quantità di abbandoni ed in un esiguo numero di richieste di cambio di reparto nel corso degli ultimi tempi.

La promozione di un processo umanizzante è la scommessa fondamentale della medicina contemporanea, per la quale l‟aspirazione olistica resta la vera intenzione e norma deontologica.

E‟ evidente che tale scommessa ruota attorno a certi settori particolari dell‟attività medica, di cui uno è certamente la fase terminale della vita: è importante che il medico sia consapevole del divario tra la speranza in un potere che è frutto di un sapere e di un limite oggettivo che è restituito dalla finitezza dell‟uomo.

Si è affermato che la medicina sta cambiando: proprio a questo proposito Campione (1986) presenta il “Manifesto per l‟Umanizzazione della Medicina”

attraverso quindici punti esplicativi (vedi Allegato n. 2 in appendice).

La cura, pertanto, deve fare un gran passo e mettere al centro la persona e la famiglia non come soggetti da assistere, ma come individui dotati di una propria individualità e specificità; la “nuova medicina” deve divenire il luogo d‟incontro di molti saperi.

In ciò che stiamo dicendo non vi è nulla di nuovo, ma solo qualcosa dimenticato, invece, da tempo; in un passo di Seneca, infatti, troviamo le seguenti parole:

E allora, perché al medico e al precettore sono debitore di qualcosa di più e anche pagandoli resta ancora in debito? Ma proprio perché da un medico e da un precettore essi si trasformano in amici e noi non restiamo obbligati per le loro prestazioni professionali, che paghiamo, ma per la loro benevola e affettuosa disposizione nei nostri riguardi. E così se il medico non fa altro che tastarmi il polso e considerarmi uno dei tanti pazienti, prescrivendomi freddamente ciò che debbo fare o evitare, io non gli sono debitore di nulla poiché egli in me non vede un amico, ma solo un paziente….Perché allora dovremmo essere debitori di molto a costoro? Perché hanno dato qualcosa a noi personalmente; il medico si è preoccupato per me più di quanto fosse necessario alla sua attività professionale: è stato in ansia per me non per la sua reputazione; non si è limitato ad indicarmi rimedi, ma li ha applicati con le sue stesse mani; è accorso nei momenti difficili …io sono in debito ad un uomo simile non come medico, ma come amico.” (Seneca, I benefici, VI, 16)