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Le scelte assistenziali effettuate nei diversi ambiti e realtà socio-culturali sono assai differenti sia per quanto concerne i presupposti teorici, sia per quanto riguarda le soluzioni pratiche offerte.

Il paziente terminale, soprattutto affetto da cancro, può essere seguito dal medico di famiglia, che può ricorrere all‟ospedalizzazione solo quando i problemi presentati non gli sembrano risolvibili al domicilio.

In altri casi il paziente può essere inviato a centri specializzati nel controllo del dolore inseriti in reparti o istituti di anestesiologia e rianimazione o di altra specialità medica competente nel trattamento della malattia cronica.

Più recentemente il paziente ha potuto usufruire, sia in ospedale che a domicilio, di équipes di cure palliative; purtroppo, però, questa soluzione è ancora poco attuata per l‟esiguità di personale medico e paramedico preparato a svolgere

un‟attività assistenziale delicata e complessa come questa, anche da un punto di vista personale e psicologico.

Infine, soprattutto nei paesi anglosassoni, il paziente in fase terminale può essere inviato a particolari strutture sanitarie dette “hospices”, che forniscono assistenza palliativa e di supporto in un ambiente più simile al domicilio che all‟ospedale.

Ciascuna di queste soluzioni assistenziali può presentare vantaggi e svantaggi che possono variare molto a seconda delle aspettative del malato e dei suoi famigliari nei confronti delle strutture sanitarie, ma anche in relazione alle attese del personale sanitario nei confronti dei pazienti, delle famiglie e dell‟attività assistenziale stessa.

I famigliari, generalmente, non rifiutano di assistere a casa il loro parente malato se non per paura di non sapere cosa fare e di essere lasciati soli ad affrontare la morte di una persona cara; tali paure nascono certamente dalla difficoltà del compito dal punto di vista psicologico, ma anche dai problemi pratici: di solito non si hanno competenze infermieristiche e alla paura della malattia si aggiunge, quindi, il timore di fare qualcosa che possa nuocere al malato, aumentandone le sofferenze.

Solo uno stretto contatto con gli operatori dell‟unità di cure palliative può consentire ai famigliari di offrire una valida assistenza domiciliare ad un malato grave; i sanitari, infatti, costituiscono “serbatoi” ausiliari di risorse emotive, di strategie adattative e di suggerimenti pratici indispensabili per sostenere il gravoso compito che la famiglia si trova ad affrontare nell‟aiutare il congiunto malato a vivere la propria situazione nel modo più sereno possibile.

1.4.1 L’ospedale

L‟ospedale come luogo di ricovero di malati inguaribili non esisteva nell‟antichità; nacque, in tutta Europa, con l‟etica cristiana. L‟ospitalità offerta dalle congregazioni religiose fu per secoli l‟unica possibilità per questi malati.

Per vedere realizzate strutture pubbliche in Italia bisogna aspettare la legge n.

132 del 1968, che convertiva tutti gli ospedali in enti pubblici, prevedendone il collegamento con strutture sanitarie di territorio e l‟istituzione dei dipartimenti e la legge di riforma n. 833 del 1978 attribuiva la gestione degli ospedali alle regioni e poneva fra gli obiettivi, all‟art. 2, “la diagnosi e la cura degli eventi morbosi, quali ne siano le cause, la fenomenologia e la durata.”

L‟ospedale si definisce, quindi, come luogo di passaggio legato ad uno stato transitorio di malattia; il malato inguaribile necessita, invece, di assistenza finale e totale che si rivolga a tutta la persona, con una cura fisica, psicologica, sociale e spirituale.

L‟ospedale è indirizzato alle acuzie e risulta incapace di provvedere alle necessità dei malati inguaribili.

Nei confronti di questi ultimi i compiti devono cambiare sia negli obiettivi che nei contenuti: i nuovi atteggiamenti vengono dunque definiti “cure palliative” e si rivolgono soprattutto al controllo dei sintomi fisici e psicologici, visto che la malattia non può più essere vinta.

Il ricovero in ospedale è sempre un momento di crisi per il malato, per la sua famiglia, ma anche per l‟istituzione; l‟ospedalizzazione risulta corretta, se è la soluzione per un problema acuto (frattura patologica, emorragia); scorretta, se è richiesta per problemi affrontabili da un‟adeguata assistenza domiciliare (vomito, piaghe); inappropriata, se è un modo per assicurare la sopravvivenza mediante mezzi sproporzionati.

L‟ospedale è un microcosmo che riproduce le attitudini e le contraddizioni tipiche della nostra società nella quale non esiste ancora una filosofia della palliazione; vi esiste una profonda discordanza fra l‟orientamento della struttura, teso a diagnosticare, curare, guarire, prolungare la vita e i bisogni del malato.

Per quanto riguarda l‟ambiente, il primo disagio segnalato è la mancanza di locali confortevoli ed attrezzati per l‟uso del tempo libero; l‟ospedale dovrebbe permettere e favorire il mantenimento della socialità, degli scambi relazionali, delle funzioni superiori, dei riferimenti spaziali e temporali e dell‟alimentazione.

Ogni progetto di complesso ospedaliero dovrebbe porre attenzione agli stimoli sensoriali, ai colori, all‟illuminazione, all‟insonorizzazione e all‟ergonomia

dell‟arredamento ed anche le norme che regolano l‟istituzione dovrebbero prevedere modifiche e deroghe quali il permesso di tenere oggetti in stanza, di ricevere visite ad ogni ora e di avere eventualmente compagnia durante la notte.

L‟Unità di Cure Palliative si integra con i servizi dell‟ospedale, riduce i costi, personalizza l‟assistenza, crea un clima di accoglienza per i malati e le famiglie e permette di liberare i letti per malati acuti; per i malati seguiti a domicilio, infatti, l‟Unità mette a disposizione rapidamente i servizi ospedalieri e territoriali, diventando il luogo di mediazione fra chi ha bisogno di aiuto e chi lo offre.

1.4.2 Il domicilio

Stare a casa propria significa, per il malato, essere circondato dai propri affetti, persone e cose, ed è stato verificato che il malato a domicilio prova meno dolore, meno ansia e meno depressione di chi è curato nello stesso modo in ospedale.

Da uno studio condotto nel 1986 da Toscani, Mancini, Tamburini e Di Mola su 165 pazienti, tolti 13 pazienti che non hanno risposto, ben il 91,5% dei malati desiderava tornare a casa il più presto possibile, contro il 3,9% che voleva restare in ospedale.

La casa è stata generalmente considerata preferibile rispetto all‟ospedale perché più comoda, perché consente di avere più compagnia da parte dei famigliari ed inoltre offre maggiori possibilità di distrazione.

D‟altra parte la casa presenta anche gli svantaggi di una minore adeguatezza dell‟assistenza sanitaria, offerta sia dal medico di famiglia, sia dai famigliari qualora si presentassero situazioni di emergenza.

Per realizzare un servizio di assistenza domiciliare continua sono necessari tre requisiti: il consenso del malato, un buon livello organizzativo della struttura sanitaria ed un adeguato grado di accettazione e di preparazione della famiglia.

Il consenso del malato è assai frequente; in molti casi l‟incognita maggiore consiste nelle reazioni della famiglia, se è chiamata a farsi carico del proprio congiunto a domicilio.

In passato si pensava che i requisiti di una famiglia che decideva di farsi carico di un‟assistenza domiciliare ruotassero tutti attorno alla sua numerosità; diversi studi hanno, invece, dimostrato che essa è ininfluente sulla scelta “domiciliare.”

Il numero dei componenti favorisce la divisione dell‟impegno; le fatiche, le preoccupazioni e le ansie si diluiscono fra i diversi membri ed ognuno dedica al malato solo una parte del proprio tempo.

E‟ giusto sottolineare, però, che il modello della grande famiglia unita e compatta intorno al caro ammalato è abbastanza difficile da trovare.

Appare più importante, quindi, la consistenza etica ed affettiva della famiglia, piuttosto che la sua composizione strutturale e organizzativa; la scelta del domicilio e la capacità di sostenere fino in fondo la situazione, anche in solitudine di fronte al malato, non sono mai stati determinate dal semplice senso del dovere, ma piuttosto dalla preesistenza di un vero rapporto di amore, vivificato dalla circostanza.

Esistono diversi tipi di “Home Care”: l‟assistenza domiciliare programmata, l‟assistenza domiciliare integrata e l‟ospedalizzazione domiciliare.

Nell‟ADP (assistenza domiciliare programmata) il medico di medicina generale, anziché recarsi al domicilio del paziente solo se chiamato, programma un vero piano terapeutico e prevede l‟effettuazione di visite periodiche.

Nell‟assistenza domiciliare integrata (ADI) il medico di famiglia, responsabile terapeutico, oltre ad effettuare accessi domiciliari programmati, coordina l‟intervento di altre figure professionali e ne richiede l‟intervento; a loro volta i medici di medicina generale sono coordinati dal responsabile organizzativo del distretto per l‟assistenza domiciliare.

L‟Ospedalizzazione Domiciliare (OD) prevede: un rapporto stretto fra fornitore del servizio e dipartimento ospedaliero, l‟assunzione di responsabilità terapeutica da parte del medico specialista ospedaliero (la squadra che opera è la stessa dell‟ADI, cambia il capitano che non è più il medico di medicina generale, ma il medico specialista ospedaliero), la reperibilità medico-infermieristica continua e la suddivisione del territorio in reparti e camere come in ospedale.

Sulla realtà famigliare deve, quindi, innestarsi l‟intervento dell‟équipe ed emergono in questo caso, quattro suoi obblighi o compiti fondamentali:

 l‟équipe deve condurre correttamente il piano terapeutico del malato: deve essere costantemente presente, illustrare le proprie terapie e prevedere decisioni in base alle sue mutevoli condizioni;

 l‟équipe deve avere funzioni informative sulla famiglia: le principali paure derivano, infatti, dalla mancanza di informazioni su cosa potrà accadere;

 l‟équipe può avere funzioni sostitutive del famigliare, soprattutto quando è solo ad affrontare la situazione;

 infine, essa deve farsi carico di favorire una continua comunicazione con i famigliari.

La terapia e l‟assistenza al domicilio del malato si possono realizzare solo attraverso l‟interazione di tre poli: malato, famiglia ed équipe sanitaria; se il malato è l‟obiettivo degli sforzi, la famiglia è, infatti, il mezzo attraverso cui si concretizza l‟attività assistenziale.

“Trascurare e misconoscere sia le forze positive che alimentano le intenzioni famigliari, sia le difficoltà e i timori, è la causa principale di insuccesso nella scelta dell‟approccio domiciliare al malato” (Di Mola, 1993).

1.4.3 L’Hospice

“Hospice” è il termine inglese che oggi indica il luogo dove si curano i malati terminali, ed è il nome del movimento culturale (l‟Hospice Movement) che ha portato alla nascita della medicina palliativa.

Tale struttura di ricovero può essere inserita in un normale ospedale o essere autonoma e separata da esso; ciò che la differenzia da un normale reparto ospedaliero è la filosofia d‟intervento, gli obiettivi che si pone e l‟architettura.

L‟hospice è riservato ai malati terminali che, per qualche ragione, non possono essere più curati in casa ed il suo obiettivo è quello di curare la qualità e non la quantità di vita.

Anche l‟architettura appare molto lontana da quella dell‟ospedale tradizionale:

poiché dà notevole importanza alla privacy, dispone di spazi privati e comuni,

dove i familiari possono restare col malato o tra loro e dove può essere dato libero sfogo ai sentimenti.

Ai familiari è permesso di risiedere col malato, di cucinare i cibi che egli preferisce, di dormire con lui; non esistono limitazioni né di numero, né d‟orario alle visite e l‟arredamento è quello di una casa con camere che possono essere personalizzate.

L‟hospice non è il luogo dove le persone vanno a morire, né tanto meno è rivolto alla lungo degenza, ma si pone come una struttura residenziale in grado di fornire cure palliative e assistenza qualificata senza accanimento terapeutico.

E‟ il luogo adeguato ad ospitare quei pazienti che necessitano di assistenza più intensa che non trovano soluzione al domicilio o per l‟inadeguatezza dello stesso, o per la mancanza di un nucleo familiare in grado di fronteggiare situazioni più impegnative.

Le attività svolte all‟interno dell‟hospice riguardano l‟assistenza globale alla persona malata e alla sua famiglia, comprendendo sia prestazioni di tipo medico-infermieristico, sia interventi volti a migliorare la qualità della vita in senso più generale: attività ricreative e d‟intrattenimento, di sostegno, d‟aiuto alla famiglia e di disbrigo di pratiche burocratiche.

L‟interesse per un‟assistenza strutturata ed organizzata per i malati terminali, è fatto del tutto recente nel nostro paese; non altrettanto lo è nei paesi anglosassoni, soprattutto in Inghilterra, dove per tradizione già nel Medioevo esistevano luoghi di ricovero e di cura per i malati terminali.

“La realtà odierna ci dice che metà delle persone ammesse in ospedale muoiono entro due anni dal ricovero, mentre il numero di persone che muore in casa è andato progressivamente diminuendo; da ciò l‟evidenza della necessità di dover fornire un‟assistenza ospedaliera in ambiente adeguato, a pazienti affetti da gravi malattie inguaribili, come il cancro in fase avanzata” (Corli,1988).

L‟hospice è una struttura di ricovero nata in Gran Bretagna e diffusa in tutti i paesi anglosassoni; il primo hospice moderno fu il Saint Cristopher‟s, sorto nel 1967 alla periferia di Londra.

Volendo sottolineare le principali finalità dell‟hospice possiamo ricordare le seguenti:

 definizione e realizzazione di un programma di “cure palliative”

personalizzato e orientato a migliorare la qualità della vita residua del paziente attraverso una risposta globale ed efficace ai suoi bisogni;

 realizzazione di una valida alternativa alla casa quando questa non è, temporaneamente o definitivamente, idonea da accogliere il malato;

 accompagnamento alla morte;

 preparazione e supporto al lutto dei familiari;

 formazione e preparazione pratica del personale;

 rinnovamento della pratica medica in termini umanistici.

Una profonda convinzione, tutt‟altro che banale, alla base della “filosofia”

dell‟hospice è quella di considerare la morte come un fatto naturale, non come risultato di una patologia.

In Italia una diffusa incomprensione culturale nei confronti delle cure palliative e dell‟hospice ha enormemente ritardato la presa di coscienza delle problematiche connesse all‟assistenza del malato terminale; “… i contenuti del programma Hospice, la filosofia delle Cure Palliative sono dirompenti nei confronti della medicina tradizionalmente votata a debellare la malattia” (Nicoscìa,1997).

Il rapporto medico-paziente nell‟hospice, infatti, risulta enormemente cambiato ed è, per così dire, paritario; il medico riconosce la propria impotenza di fronte a patologie incurabili, mentre la centralità del paziente, la sua autonomia decisionale si pongono come momenti di rottura e di frattura rispetto ad una tradizione precedente.

Un altro grosso ostacolo alla diffusione degli hospices in Italia è rappresentato dal fatto che, nelle università, le cure palliative non esistono come disciplina istituzionale e non sono oggetto di insegnamento accademico nelle facoltà mediche.

Questa carenza ha ostacolato la diffusione degli hospices ancor più che delle Unità Operative di Cure Palliative Domiciliari come afferma Nicoscìa: “Alla nascita di queste ultime è stato sufficiente il connubio fra le inclinazioni individuali di medici, soprattutto terapisti del dolore e oncologi, e il supporto di fondazioni o associazioni, solo in tempi successivi queste iniziative sono confluite

nell‟ambito delle prestazioni erogate da parte delle Unità Sanitarie Locali”

(Nicoscìa, 1997).

Per gli hospices non vale lo stesso discorso; essendo strutture di degenza, esse richiedono la volontà e l‟impegno di diverse persone: medici, amministratori, politici e disponibilità finanziarie maggiori.

Sul modello del “St. Christopher‟s”, circa 10 anni dopo la nascita delle prime Assistenze Domiciliari Organizzate è stato creato il primo hospice italiano, il “Pio Albergo Trivulzio” di Milano, a cui ha fatto seguito quello della Domus Salutis di Brescia; l‟originalità e la completezza di questa prima realizzazione italiana, dovuta all‟impegno economico privato dell‟ordine delle “Ancelle della Carità”, non è stata, però, facilmente replicabile in altre città e contesti sociali.

2. UN CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA: DAL