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ANDREA CAPPELLANO E GUITTONE D’AREZZO: IL RECUPERO DELL’ELEGIA NEL MEDIOEVO

2. Ovidio, Cappellano e Guittone: un’ottica di continuità

3.4 Le ambivalenze nel De amore

Tutelata nella sua identità come quel genere che meglio di tutti esprime la tristezza e l’infelicità dell’amante, l’elegia vede sopravvivere anche un altro aspetto ad essa connaturato, un nodo che Ovidio sembrava aver sciolto nei Remedia amoris, ma che ritorna con Cappellano, seppur in forma diversa.

Com’è noto, nella letteratura latina il genere elegiaco si ergeva su una serie di contraddizioni. Innanzitutto, i poeti elegiaci preferivano una vita di otium e nequitia, ripudiando così il loro ruolo di civis. Contrapponendosi ai principi del mos maiorum con l’intento di fondarne di propri, gli elegiaci cadevano nel paradosso dell’incapacità della creazione di questi nuovi valori, costringendosi così a recuperare alcuni degli ideali della morale costituita o a farsi promotori di quei non valori derivanti dall’adesione all’universo dell’esclusione e della solitudine.

La seconda contraddizione di cui i poeti elegiaci erano vittima è l’impossibilità o, meglio, il rifiuto di accettare la guarigione dalla malattia d’amore, perché così avrebbero perso la possibilità stessa di comporre poesia.

Chiude la catena di paradossi l’aspirazione all’autárkeia, ossia all’autosufficienza. Gli elegiaci vedevano nell’amore un’esperienza totalizzante ed assoluta, l’unica sufficiente per poter raggiungere una vita realizzata e felice. Nonostante l’amante elegiaco miri

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all’autárkeia e si proclami libero ed indipendente all’interno dell’universo amoroso, di fatto, però, egli non è né completo né autosufficiente, perché è schiavo di un amore imprigionante e della poesia che da esso nasce.

Ovidio, con la sua didascalica d’amore e soprattutto con i Remedia amoris, era riuscito nell’impresa: sciogliendo i nodi paradossali su cui l’elegia latina si basava, era approdato ad un genere che vedeva completamente stravolta la sua identità, tanto da chiedersi se si potesse ancora parlare di elegia.

Ora, se si può ammettere che nello scheletro dell’opera di Cappellano prende vita un amore di tipo elegiaco, allo stesso modo si noterà come questa apra a nuove contraddizioni, certamente diverse rispetto a quelle della tradizione elegiaca latina, ma comunque riconoscibili.

Il primo evidente paradosso è presentato dallo stesso Cappellano. Il De amore è una summa di materia amorosa dedicata a Gualtieri, un collega più giovane di Cappellano, per soddisfare la sua curiosità sull’argomento. L’autore, allora, raccoglie tutto ciò che sa su Amore all’interno di tre libri, ma lo fa:

Quamvis igitur non multum videatur expediens huiusmodi rebus insistere ne deceat, quemquam prudentem huiusmodi vacare venatibus […]134

(Andrea Cappellano, De amore, III, 33)

[Benchè non sembri molto opportuno di sovrastare a queste cose, né ad alcuno savio se convegna d’usare di queste cacciagione […]]

Insomma, Cappellano decide di dedicare ben tre libri alla materia amorosa, nonostante abbia la consapevolezza della sconvenienza che deriva dalla trattazione di tali argomenti. Ancora più evidente è il paradosso rappresentato dall’intero libro terzo, in cui Cappellano demolisce tutto quanto aveva costruito nei primi due libri e, in più, mette in guardia Gualtieri dalle pericolosità di Amore, raccomandandosi di non cedergli, e lo fa forse per cercare di tutelarsi dal rischio di essere accusato di eresia per ciò che aveva sostenuto nei primi due libri.

Altre sono le contraddizioni che si aprono all’interno del De amore. Ad esempio, nella lettera che Maria di Champagne invia come risposta ai due amanti che le avevano posto dei quesiti, viene stabilito che Amore nasce solo nelle relazioni extra-coniugali e non nel

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matrimonio, che comunque non viene condannato del tutto. Tuttavia, nel libro terzo il peccato di adulterio viene fortemente disprezzato, perché il comandamento di Dio insegna che “Niuno parta coloro che Dio ragunò insieme” (De amore, III, 33).

In hoc enim saeculo nihil debet aliquis homo tanta affectione dilifere quanta uxorem, quae legitimo est sibi iure coniucta. Nam cum viro carnem unam Deus indicavit uxorem et aliis cunctis relictis uxori iussit adhaerere maritum. Ait enim: “Propter hoc relinquet homo patrem et matrem et adhaerebit uxori suae, et erunt duo in carne una [persona]”135. (Andrea Cappellano, De amore, III, 33)

[Perciò che Dio giudicò la moglie col marito una carne e, lasciate tutte cose, comandò che tesse colla moglie l’uomo, e per ciò disse: “Per questa cagione lascierà l’uomo lo padre e la madre e congiugnerassi alla sua moglie, e ambendui saranno una carne”]

Un’altra incongruenza sorge nel momento in cui Cappellano afferma a più riprese che nell’amore non bisogna guardare alla bellezza e alla nobiltà di stirpe, ma alla nobiltà dell’animo, alla prodezza, alla virtù e ai buoni costumi, perché Amore nasce solo nei cuori cortesi, indipendentemente dall’appartenenza sociale degli amanti. Più avanti, però, Cappellano

rifiuta la sua teoria ai contadini, come a voler ribadire la rigida divisione in caste della società feudale136.

Anche la figura femminile sembra essere colpita dal paradosso. Il codice cortese, infatti, promuove il culto e la lode della donna, innalzata rispetto all’inferiorità del cavaliere, che le deve fedeltà, devozione assoluta e servitium, che si traduce in imprese militari per mezzo delle quali mostrare il proprio valore, in gesti nobili, in versi poetici o in umile obbedienza. La stessa esperienza d’amore è vista come forma di perfezionamento dell’animo, al punto tale che l’amante, grazie all’amore per la sua donna, si affina interiormente e moralmente. All’interno del libro terzo, invece, non solo Cappellano avverte Gualtieri della pericolosità di amore, ma spende molto inchiostro per sottolineare la responsabilità che la donna ha nel rendere l’amore peccaminoso, al punto da poter quasi parlare di misoginia.

Amorem namque mutuum, quem in femina quaeris, invenire non poteris137. (Andrea Cappellano, De amore, III, 33)

135 A.CAPPELLANO, De amore, pp. 304-305.

136 Ivi, p. XX.

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[Perciò che malagevolmente ti porterà la femmina a cotale amore come tu lei]

Avare, ingorde, invidiose e maldicenti, le donne sono descritte nel libro terzo come bugiarde, superbe, vanagloriose, volubili, inaffidabili, incapaci di ricambiare di buon cuore l’uomo nella stessa misura in cui sono amate. Insomma, hanno poco a che vedere con la rappresentazione della Midons dell’amor cortese, e anzi sembrano più vicine alle donne frivole, capricciose, infedeli e un po’ odiose dell’elegia classica.

Quali sono, a questo punto, le cause che portano all’insorgere di nuovi paradossi all’interno del De amore? Graziano Ruffini138 avanza una proposta, mettendo in discussione le tesi a lui precedenti che volevano vedere nel De amore e nell’amor cortese «un gioco che non va preso troppo sul serio»139. Secondo Ruffini era impossibile che ad un autore come Cappellano, che era un maestro della disputa, fossero sfuggite delle contraddizioni di tale portata. Pertanto, ciò lo porta a sostenere la tesi che i paradossi nel De amore siano stati inseriti volontariamente dal suo autore allo scopo di celare i segreti della materia narrata nell’opera dagli sguardi indiscreti, in modo tale che i consigli venissero compresi solo dal diretto destinatario, ovvero Gualtieri.

Andrea risolve il problema, come si è visto, facendo in modo che chi non possedeva la chiave di lettura dell’opera vi trovasse soltanto un cumulo di contraddizioni o, addirittura, delle pericolose verità da condannare […]140.

Ad ogni modo, la ragion d’essere di queste contraddizioni nella specificità del De amore è destinata a restare un problema aperto. Ciò su cui è importante soffermarsi, però, è la ricomparsa di questi paradossi all’interno del genere elegiaco nonostante l’operazione di smantellamento che era stata operata da Ovidio. Ovviamente, così come per l’elegia latina, anche le ambivalenze dell’elegia medievale sono figlie del contesto socio-culturale in cui il genere vive. Ed essendo il De amore la prima codificazione dell’amor cortese, necessariamente l’opera sarà il riflesso del conflitto fra le diverse tensioni interne all’esperienza cortese.