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GUIDO CAVALCANTI E LA POESIA ELEGIACA

4. La filosofia della condanna

4.1 Il rapporto con i predecessori

Incapace di trovare una funzione di elevazione e un valore positivo alle passioni all’interno di una visione in cui Amore è a tutti gli effetti passio nel senso medico-scientifico del termine, Cavalcanti non riuscirà a trovare una soluzione alla contraddizione fondamentale su cui si erge l’elegia medievale, ovvero la compresenza di carne e spirito. Imprigionato nelle reti della sfera terrena e sensibile, l’Io cavalcantiano andrà incontro alla fine più drammatica, perché totale, disgregante e veramente assoluta così da lasciare di sé solo il pianto dolente, la tragica voce della sua poesia.

4.1 Il rapporto con i predecessori

Da Ovidio a Guittone, gli autori analizzati fino a questo punto si sono fatti tutti portavoce di un tentativo di risoluzione e superamento di quell’infelicità amorosa insita nell’elegia. Ovidio aveva offerto una raccolta di rimedi pratici utili alla guarigione i quali, tuttavia, non erano avvalorati da fondamenti gnoseologici o scientifici esibiti, in quanto desunti dall’esperienza quotidiana e personale del poeta. Sarà con l’elegia medievale che si sentirà il bisogno di ostacolare l’insorgenza della malattia e di sconfiggere l’infelicità attraverso la vera conoscenza di Amore, servendosi di più solide basi scientifiche, filosofiche e conoscitive, che consentano di indagarne la natura per mezzo dell’indagine delle componenti che lo determinano, come il nome, la definizione, la generazione, gli

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effetti e le conseguenze. I protagonisti della prima stagione elegiaca medievale, Andrea Cappellano e Guittone d’Arezzo, si inseriranno perfettamente all’interno di questo nuovo clima di speculazione filosofica in materia d’amore. Anzi, è proprio Cappellano a porre in nuce i primissimi fondamenti utili per condurre un’analisi adeguata di Amore, che passa in primo luogo dalla determinazione della sua natura e dall’interpretazione del nome. Il contributo di Cappellano è innegabilmente un punto di partenza fondamentale per quanto concerne gli studi successivi, ma a ben vedere il De amore non è propriamente un trattato gnoseologico che consenta di contrastare l’amore elegiaco. L’opera, infatti, è molto più vicina ad un manuale empirico e descrittivo, basato sullo studio dei rapporti d’amore e delle interazioni sociali sullo scenario della società cortese, che ad un trattato filosofico in materia d’amore. In sintesi il trattato di Cappellano, per quanto essenziale per l’introduzione della determinazione di Amore, per la descrizione delle dinamiche fisiologiche quali sintesi delle dottrine mediche diffuse al tempo e per l’analisi dello spaccato cortese, dal punto di vista meramente gnoseologico e filosofico non è considerabile un contributo sufficientemente significativo.

Successivamente, Guittone partirà dalle basi poste dal suo predecessore nel tentativo di realizzare una vera gnoseologia d’amore che permetta di conoscere a fondo il sentimento ed individuarne le componenti che, responsabili dell’insorgere della malattia, sarebbero poi state debellate. Guittone riprende allora la definizione e le dinamiche della fisiologia amorosa introdotte nel De amore, ma completa la propria riflessione introducendo il concetto polisemico di figura. All’interno del Trattato d’amore il poeta si serve della figura per conferire visibilità ad Amore e ai suoi attributi, allo scopo di costruire una gnoseologia che fosse in linea con le dottrine della conoscenza aristoteliche ed arabe, che si reggevano sull’idea che la conoscenza, così come Amore, originasse dalla vista. In pratica, per mezzo della figura – che da un lato indica le immagini iconiche che corredano il codice Escorialense e che rappresentano gli attributi di Cupido, mentre dall’altro rimanda alla personificazione del concetto astratto di Amore – Guittone ha l’ambizione di rendere visibile e, di conseguenza, conoscibile la natura del sentimento.

Dalla certezza, o presunzione, di poter conoscere Amore grazie alla dottrina gnoseologica elaborata, Guittone individua quella dimensione che all’interno del sentimento amoroso cortese è veicolo di infelicità, la carnalità, dalla quale è necessario liberarsi. È a questo punto, però, che l’impianto filosofico costruito da Guittone inizia a crollare e a dimostrare la sua infondatezza. Innanzitutto, il poeta non risolve il nodo problematico della tensione

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fra la dimensione carnale e le spinte spirituali e nobilitanti interne all’amore di tipo cortese, introdotta dal De amore e sulla quale l’elegia medievale fonda la propria essenza. Guittone d’Arezzo, infatti, non propone una filosofia che è veicolo di vera conoscenza, perché di fatto non si serve di alcuno strumento filosofico per cui si possa definirla tale. Al massimo, il Trattato d’amore è una raccolta di rime dall’impalcatura moralistica e con intenti didattico-pedagogici, ma è, appunto, di morale che si tratta, non di filosofia. Pertanto, anche il contributo gnoseologico guittoniano alle discussioni su Amore andrà incontro al fallimento e sarà proprio Cavalcanti a dimostrarne l’infondatezza.

Nella sezione delle rime di corrispondenza della raccolta cavalcantiana compare il sonetto Da più a uno face un sollegismo, in cui la difficoltà dei termini, l’astrusità del contenuto e la tormentata trasmissione filologica lo rendono uno dei testi più complessi ed oscuri dell’intera produzione cavalcantiana.

Nella grande varietà di ipotesi interpretative alle quali il sonetto è stato sottoposto, ai fini di questa analisi ci si soffermerà prevalentemente su quella avanzata da Marcello Ciccuto, che legge in Da più a uno face un sollegismo una polemica di Cavalcanti contro il Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo, per cui il «d’insegnamento volume» (vv. 12-13) sarebbe, appunto, un’allusione pungente agli intenti didattici della corona guittoniana.

Da più a uno face un sollegismo: in maggiore e in minor pezzo si pone, che pruova necessario sanza rismo; da ciò ti parti forse di ragione? Nel profferer, che cade ‘n barbarismo, difetto di saver ti dà cagione;

e come far poteresti un sofismo per silabate carte, fra Guittone? Per te non fu giammai una figura; non fòri ha posto il tuo un argomento; induri quanto più disci; e pon’ cura, chè ‘ntes’ ho che compon’ d’insegnamento volume: e fòr principio ha da natura. Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento263. (Guido Cavalcanti, Rime XLVII, 1-14)

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Com’è noto, il codice Escorialense, che tramanda il Trattato d’amore, è un manoscritto figurato e le miniature di cui è corredato sono, da un lato, il segno della sperimentazione poetica guittoniana e, dall’altro, sono in parte funzionali alla gnoseologia costruita nella corona poetica a partire dalla convinzione che vedere equivale a conoscere. Il Trattato d’amore, insomma, è uno dei tentativi di sperimentazione operati da Guittone e dai suoi seguaci, che ora parlano d’amore non solo attraverso l’uso della parola poetica, ma anche per mezzo della potenza visionaria che deriva dalla compenetrazione fra l’immagine figurativa e il potere evocativo della parola. La polemica che contrappone Cavalcanti e Guittone, allora, sarebbe legata proprio al tentativo guittoniano di teorizzare l’apertura della parola poetica verso la figura, assolutamente intollerata dalla cerchia dei poeti nuovi e degli stilnovisti fra i quali, chiaramente, lo stesso Cavalcanti, sostenitori di una poesia logo-centrica e basata sull’autoreferenzialità del linguaggio.

Ora, la condanna delle nuove scelte liriche dei guittoniani comporta, necessariamente, la messa in discussione della prima parte della gnoseologia di Guittone, che grazie alle figure, ossia alle raffigurazioni grafiche di Amore e dei suoi attributi, ambisce a porre sub oculis dei lettori la natura del sentimento. Da qui in avanti la polemica cavalcantiana contro Guittone si muoverà su due fronti, perché la critica riguardante le scelte di poetica si accompagna sempre ad una pesante condanna del modo di fare filosofia, entrambe inadatte a parlare correttamente d’amore. Infatti, stigmatizzato l’uso delle immagini all’interno della poesia d’amore, Cavalcanti si sofferma sul concetto fondante la sperimentazione e la gnoseologia guittoniane: la figura. Stando all’interpretazione che Ciccuto offre nell’edizione delle rime, la figura al v. 9 può essere intesa come personificazione o sintesi figurale, che Guittone non è in grado di realizzare correttamente. La critica sull’incapacità di poetare si compone, poi, del giudizio negativo sullo stile guittoniano, duro, oscuro, infarcito di municipalismi e barbarismi, che rendono Guittone un poeta disprezzabile. Insomma, ad un primo livello di analisi il sonetto cavalcantiano altro non sarebbe che una parte della polemica, diffusa al tempo, che vedeva la poesia di Guittone, così astrusa, artificiosa e danielina, oggetto di critiche da parte dei poeti appartenenti alle altre cerchie, fra cui Dante e lo stesso Cavalcanti. Ma come si diceva precedentemente, Da più a uno face in sollegismo è un testo oscurissimo, che si presta ad interpretazioni diverse. È a questo punto, infatti, che si può avanzare un secondo livello di critica, sempre veicolato, tra l’altro, dal concetto di figura. Infatti, quella che in un primo momento può apparire una polemica al modo di poetare guittoniano, ad una lettura più approfondita diventa una denuncia al modo di argomentare

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e filosofare. Il termine figura, infatti, può essere interpretato anche come figura del sillogismo, che Guittone non sa costruire correttamente. Questa lettura sarebbe poi supportata dal v. 1, nel quale Cavalcanti accusa Guittone di non essere in grado, appunto, di formulare un sillogismo corretto che proceda «da più ad uno», dalla pluralità di dati ad un unico significato universale. L’incapacità di argomentare, inoltre, costringe Guittone a servirsi di sofismi, ragionamenti solo apparentemente veri, ma che in realtà si rivelano fasulli o portatori di conclusioni inammissibili. L’accusa cavalcantiana, poi, è ulteriormente aggravata: non solo Guittone è portavoce di una sperimentazione poetica rifiutata dai più, non solo è il simbolo di uno stile astruso e municipale, non solo si dimostra totalmente incapace di argomentare correttamente ma, chiudendo il cerchio e data la sua completa incapacità, come potrebbe fare «un sofismo | per silabate carte» (vv. 7-8)?

Per riassumere, la polemica di Cavalcanti contro Guittone si muove su due piani ed entrambi prendono le mosse dalla polisemia del concetto di figura. Il primo livello, più superficiale e tradizionale, legge il sonetto come parte di quella polemica che vede Guittone l’oggetto di critica di poeti appartenenti a cerchie diverse, che lo considerano il simbolo di un’espressività artificiosa, oscura, difficile, di una poesia che non sa esprimersi con mezzi retorici adeguati e che non può porre «per silabate carte» il pensiero di cui è sostenitore. Il secondo piano di analisi, invece, svela l’incapacità guittoniana di costruire correttamente le figure dei sillogismi e di utilizzare categorie logiche e filosofiche adeguate. In virtù di tali ragioni, l’operazione gnoseologica compiuta nel Trattato d’amore è giudicata fallace e inadatta a trasmettere vera conoscenza in materia amorosa. Al massimo, l’opera può considerarsi una raccolta di principi morali dall’impalcatura didattica e pedagogica, i quali hanno certamente permesso a Guittone di condurre la denuncia della carnalità e di promuovere l’esercizio dell’amore spirituale, ma non gli hanno consentito di analizzare adeguatamente la psicologia amorosa cortese e di sciogliere il nodo paradossale di corpo e spirito.

Se Da più a uno face un sollegismo segna la messa in discussione da parte di Cavalcanti del primo tentativo di sistemazione filosofica di Amore in quella rete di connessioni, opposizioni e reciproche influenze che lega gli autori elegiaci finora analizzati, sarà opportuno soffermarsi sull’approdo della visione cavalcantiana dopo la critica alla gnoseologia di fra Guittone. E tale approdo è rappresentato da Donna me prega.

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