• Non ci sono risultati.

CAVALCANTI, DANTE E LA VITA NOVA: LA FINE DELL’ESPERIENZA ELEGIACA

1. Le premesse alla Vita nova

Il libello della Vita nova è una raccolta di trentuno liriche dantesche, composte in vario metro nel periodo giovanile, le quali raccontano la storia dell’amore per Beatrice – fortemente idealizzata ed arricchita di connotazioni simboliche – appoggiandosi alle parti in prosa le quali, oltre ad illustrare il significato dei componimenti lirici, sono finalizzate al progredire della narrazione. La Vita nova, insomma, è un prosimetrum che si configura come il racconto di una storia d’amore straordinaria, non conclusa a causa della morte dell’amata, ma destinata a risorgere con maggior vigore dopo i traviamenti successivi alla sua scomparsa e a raccontare di un amore tanto forte da vincere persino la morte. In genere, la convenzione ottocentesca suddivideva il testo della Vita nova in quarantadue capitoli. All’interno di questa analisi, però, ci si atterrà alla divisione in trentuno paragrafi – tanti quanti il numero delle liriche, seppur con qualche sfasatura – proposta da Guglielmo Gorni all’interno della sua edizione289.

Tra le opere dantesche la Vita nova è forse quella più conflittuale, tumultuosa, sottoposta ad interpretazioni divergenti e la stessa questione su quale sia il genere letterario di appartenenza è un problema tutt’altro che secondario. Nel corso degli studi passati, si è proposto nel corso della critica un ampio ventaglio di definizioni, dal testo autobiografico e spirituale all’antologia di rime, dalla leggenda agiografica di Beatrice

alla esteriore nozione di prosimetrum. Romanzo, trattato, autobiografia letteraria e spirituale, allegoresi e, perché no, canzoniere; sono tutti aspetti presenti, ma nessuno è egemonico290.

In altre parole, ogni soluzione proposta si è rivelata insufficiente, in quanto parziale. All’interno del problema ancora aperto di definizione del genere, ai fini di questa indagine si farà fede all’interpretazione che legge la Vita nova come la confessione, in una

289 D.ALIGHIERI, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996.

290 M.SANTAGATA, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 1989, p. 148.

196

prospettiva autobiografica, della propria (triste) vicenda amorosa, ma anche del congedo del poeta dalle dolci rime d’amore: in altre parole, si considererà la Vita nova come un racconto elegiaco.

2. La Vita nova come racconto elegiaco

Innanzitutto, la lettura della Vita nova come vicenda elegiaca parte dalla riflessione sui modelli letterari da cui Dante trae ispirazione. Fra questi, si riconoscono le Confessiones di Agostino, segnate da un forte soggettivismo e un evidente autobiografismo, che sono fra le caratteristiche principali del genere elegiaco. Nell’alternanza fra prosa e poesia si vede, poi, l’influsso dei modelli di bipartizione autobiografica, culturale e letteraria propri dei commenti medievali alle opere elegiache ovidiane Ars amatoria e Remedia amoris. Ma soprattutto, è probabile che la prima fonte di ispirazione nella composizione del libello – e ciò è testimoniato anche da calchi situazionali e letterali – fosse il prosimetrum della Consolatio di Boezio la quale, nella visione medievale, è a tutti gli effetti un’opera elegiaca.

Nel Medioevo l’elegia è identificata non più da fattori metrici, come accadeva nel mondo classico, ma da aspetti stilistici, che la caratterizzano come un genere umile, ed elementi tonali e contenutistici, riguardanti la specializzazione del genere nell’espressione della sofferenza e del dolore provocati principalmente da Amore, anche se ciò non esclude la loro associazione a qualsiasi altra esperienza infelice, come quella che Boezio racconta nella Consolatio. E se la Consolatio è elegia, Boezio è ritenuto nel Medioevo il rappresentante per eccellenza del genere.

[…] in quattro stili ogni autentico parlare si conchiude: de’ quali il primo “tragidia” è chiamato, sotto ‘l quale particularmente d’architettoniche magnificenze si tratta, sì come Lucano, e Vergilio nell’Eneidos; il secondo “commedia”, sotto il quale generalmente e universalmente si tratta de tutte le cose, e quindi il titol del presente volume procede; il terzo “satira”, sotto il quale si tratta in modo di riprensione, sì come Orazio; il quarto e l’ultimo “eligia”, sotto ‘l quale d’alcuna miseria si tratta, sì come Boezio291

.

Che l’opera boeziana sia percepita dai lettori medievali come elegia è dovuto all’apertura della Consolatio con la lamentazione dell’autore riguardo alla propria condizione di vittima, imprigionata ingiustamente. In questo modo, si segnala preliminarmente

197

l’appartenenza del testo allo sfogo dell’infelicità, resa ancor più evidente dai pianti e dalle lacrime che ricorrono in tutto il libro primo del prosimetrum.

Accanto alla caratteristica contenutistica distintiva del genere, secondo la lettura di Stefano Carrai la Consolatio è un’opera elegiaca anche per «un dato concreto e a suo modo tecnico»292, ovvero la forma del prosimetrum, funzionale ad un duplice scopo: confortare i miseri mediante la razionalità della prosa e lenire il dolore con il piacere della poesia. In altre parole, l’alternanza fra le parti in prosa e le rime appariva agli occhi dei lettori medievali appropriata ad un testo che vuole al contempo confortare l’infelicità e sfogare il dolore. Ma c’è di più: a supportare il valore della tesi qui accolta vale anche una ragione metrica.

L’alternanza di prosa e poesia crea dunque nel testo una sorta di continua altalena fra il crescer e l’allentarsi della tensione intellettuale e stilistica, proprio come nella successione dei distici l’alternarsi fra il ritmo dell’esametro e quello più disteso del pentametro, secondo la lunga tradizione coagulatasi nella nota immagine di Ovidio (Amores, 1, 1 17-18 «Cum bene surrexit versu nova pagina primo, | attenuat nervos proximus ille meos»)293.

Insomma, tutto nel Medioevo porta a pensare che la Consolatio di Boezio sia elegia. E a questo punto della lettura di Carrai non è difficile ipotizzare che Dante, nella composizione del prosimetrum della Vita nova, fosse consapevole dell’operazione elegiaca che stava compiendo.

Fin dalle battute iniziali, il libello di Dante racconta la propria e personalissima vicenda amorosa, invocando non solo i toni dolorosi ed auto-compassionevoli, ma prestando fede anche a tutti gli aspetti metaforici, contenutistici e filosofici propri dell’elegia, inseriti in un’opera in cui la prosa è la fase analitica della trattazione, mentre le rime sono il momento «della melodica effusione»294.

Ad un certo punto della Vita nova, però, Dante sarà colto da un’intuizione: capirà di non poter più parlare di Amore e di Beatrice in termini elegiaci ancora legati all’idea di umiltà dello stile e avvierà il superamento della visione amorosa e dell’esperienza poetica che hanno segnato la sua giovinezza.

292 S.CARRAI, Dante elegiaco. Una chiave di lettura per la Vita nova, Firenze, L. S. Olschki, 2006, p. 20.

293 Ivi, p. 21.

198

L’operazione dantesca si muove su due piani. In primo luogo, Dante formulerà una concezione d’Amore che gli permetterà di liberarsi dall’idea che il sentimento fosse indissolubilmente ancorato all’orizzonte terreno, estraneo ad ogni possibilità di elevazione spirituale e intimamente connesso all’infelicità. In secondo luogo, cercherà di spiegare le conquiste ottenute in materia d’Amore e di cantare la propria condizione tentando di innalzare l’elegia, considerata un genere umile, perché solo uno stile illustre poteva essere adatto alla beatitudine dell’oggetto del suo Amore e agli effetti suscitati sull’Io.

Quello tracciato nella Vita nova sarà un percorso doloroso e sofferto, segnato anche da frequenti ricadute nella poetica della tristitia e dello sfogo di sé, che fanno del libello un’opera di fatto ingabbiata nella cornice elegiaca contraddistinta dallo stile umile, ma al contempo animata da forti spinte volte alla liberazione dalla sofferenza e dalla malattia d’amore. Tuttavia, se all’interno della Vita nova Dante sembra finalmente teorizzare una visione d’Amore scardinata dall’infelicità, non riuscirà a trovare parole adeguate ad esprimere i risultati raggiunti e la grandezza e la trascendenza di una donna e di un Amore che, alla fine della Vita nova, Dante riesce a conoscere e capire, ma non ancora ad esprimere.

Ai fini dell’indagine qui compiuta, così come è valso per gli autori elegiaci trattati finora, anche per quanto concerne la Vita nova ci si soffermerà prevalentemente sui contributi di natura poetica e filosofica, mentre le implicazioni di carattere stilistico verranno trattate (purtroppo) marginalmente.

3. Dante, Cavalcanti e l’elegia della prima novena

La prima novena di paragrafi della Vita nova è innegabilmente segnata dall’influenza della tradizione amorosa anteriore e coeva e, soprattutto, dal legame affettivo ed intellettuale con il principale poeta elegiaco della stagione medievale: Guido Cavalcanti.

Il sodalizio affettivo e poetico fra Dante e Cavalcanti ha origine proprio con l’esordio della Vita nova. All’interno del primo paragrafo, Dante racconta del primo incontro con Beatrice, avvenuto a nove anni, e dichiara che da quel momento Amore si è fatto suo Dominus, prendendo potere della sua anima. Già a partire dalle prime pagine, allora, si possono riconoscere alcuni degli stilemi tradizionalmente elegiaci, come la

199

rappresentazione di Amore come signore che, con la sua potenza, sottomette gli innamorati che, diventando suoi fedeli, servono con riverenza e soggezione colui che li signoreggia.

D’allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto aˑllui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicuratate e tanta signoria per la virtù che gli dava la mia ymaginatione, che mi convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente295.

(Dante Alighieri, Vita nova, I, 8)

Tuttavia, Dante precisa fin da subito che il suo signore Amore è di una così nobile virtù da essere sempre sorretto e guidato dalla Ragione: dichiarazione, questa, che si rivelerà fondamentale e necessaria.

Dante racconta di aver visto per la seconda volta Beatrice all’età di diciotto anni e, una volta tornato a casa, è stato colpito da una meravigliosa visione onirica in cui il suo signore, in principio lieto, tiene in braccio Beatrice dormiente e avvolta da un drappo rosso sanguigno. La giovane viene svegliata e Amore le dà in pasto il cuore di Dante. È così che la letizia di Amore si tramuta in pianto e, insieme a Beatrice, ascende al cielo. Dante, angosciato, scrive il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, rivolto a molti famosi rimatori del tempo, in cui racconta loro il sogno e li prega di offrire un’interpretazione alla sua visione.

Dal paragrafo secondo si apprende che molti hanno risposto al quesito dantesco, ma solo uno, Guido Cavalcanti, si avvicina al significato del sogno.

A questo sonetto fu risposto da molti, e di diverse sententie: tra li quali fu responditore quelli cui io chiamo primo delli miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia

Vedesti, al mio parere, omne valore296. (Dante Alighieri, Vita nova, II, 1)

Secondo la lettura cavalcantiana, Amore avrebbe nutrito Beatrice con il cuore del poeta per scongiurarne la morte, mentre il pianto finale sarebbe il segno che i dolci inganni del sonno si stavano dileguando a causa del risveglio. In altre parole, Cavalcanti non fa che sottolineare che il ritorno alla realtà dovuto al risveglio è doloroso perché sopprime la dimensione di illusoria letizia in cui Amore si muove all’interno della visione onirica. È questo il momento che segna l’inizio dell’amicizia poetica ed intellettuale fra Dante e

295 D.ALIGHIERI, Vita nova, pp. 10-11.