ANDREA CAPPELLANO E GUITTONE D’AREZZO: IL RECUPERO DELL’ELEGIA NEL MEDIOEVO
4. Il Trattato d’amore: l’opera e le influenze letterarie
4.4 Eροσ-θάνατοσ nel Trattato d’amore
Già nell’elegia latina ed ovidiana per indicare le sofferenze e i tormenti che derivano da Amore si ricorreva alle metafore della guerra o della malattia ed entrambe, se potenziate al massimo grado, potevano condurre a morte l’amante, piagato dagli strali del nemico Amore, squassato nella sua interiorità e incapace di guarire, quindi abbandonato al dolore della malattia. Insomma, già ai tempi di Ovidio la metafora di ἔρος-θάνατος era piuttosto frequentata e indicava il massimo grado di tragicità nella vicenda amorosa. Tuttavia, se la morte per amore nell’elegia classica è un’eventualità, nella poesia del Trattato d’amore la morte per amore diventa necessaria. Nell’immaginario moralizzatore di Guittone, infatti, chiunque si abbandoni ai desideri della carne non solo sarà sottoposto a sofferenze tali da condurlo alla morte sulla terra, ma la pena provocata lo tormenterà anche dopo il trapasso, condannato per sempre alla distruzione corporale e al tormento spirituale della dannazione eterna:
[…] en vita l’uomo sempre destruggendo, l’alma menando a morte e ‘n inferno. È mal sença rimedio algun trovato sol en voler seguir nonché compiendo, sí come conchiudo: però l’inferno170
.
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore XI, 10-14)
Insomma, è la necessità moralizzatrice a spingere Guittone a potenziare oltremisura la metafora di ἔρος-θάνατος e diverse sono le soluzioni stilistiche adottate sulle pagine del Trattato d’amore per dare nuovo vigore a questo binomio. Innanzitutto, l’interpretatio nominis. Come si diceva, la confutazione dell’amore-passione e della pericolosità ad esso connaturata passa attraverso la sua definizione. Per questa ragione Guittone all’interno del sonetto quarto Amor dogliosa morte si po' dire squarcia il velo dell’esteriorità del sentimento, sottolineando come il suo stesso nome celi in sé la morte di cui è portatore.
Amor dogliosa morte si pò dire, quasi en nomo logica spoxicione; ch’egli è nome lo qual si pò partire en «a» e «mor», che son due divixione. E «mor» si pone morte a diffinire: lo nome, en volgara locucione,
è con una «te»; l’«a» ven[e] da langire,
125
e ’n latin[o] si scrive entergessione. Und’io l’appello e dritamente el nomo dal «mor» morte, da l’«a» guai’ merveglioso: e ben è certo da meravegliare,
che, guai porgendo Amor ta’, ciascun uomo ch’a lui s’è dato l’à per delic[i]oso,
bene en onta faendol consumare171.
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore IV, 1-14)
Il sonetto quarto, che apre la tractatio sugli attributi di Amore, «fonda una sorta di “ontologia nominale”, nella quale la parola non descrive semplicemente, ma crea l’essere»172 di Amore. L’interpretatio nominis divide il sostantivo amore in due parti, entrambe dotate di significato, e ne viene spiegata la paraetimologia. Amore è «dogliosa morte» perché il sostantivo può essere scomposto in «a! mor», cioè “a! muore”, che è l’esclamazione di dolore che nasce in punto di morte. Oltretutto, in apertura della seconda terzina è presente un’appendice paraetimologica nella quale «Amor ta’» richiamerebbe ancora una volta, sia dal punto di vista fonico che visivo, la morte.
Prima di Guittone, già Cappellano aveva proposto una paraetimologia del sostantivo “amore”, riconducendolo al verbo amo nell’accezione di “prendere all’amo” ed “essere preso”.
Dicitur autem amor ab amo verbo, quod significat capere vel capi173. (Andrea Cappellano, De amore, I, 7)
[Amore è detto da “amo” verbo, il quale significa pigliare o essere preso]
Se confrontate, queste due intepretationes sono piuttosto simili, anche se si può riconoscere in quella guittoniana una forza evocativa diversa. La paraetimologia di Cappellano certamente sottolinea l’aggressività e la violenza con cui Amore agisce sugli innamorati, ma non ha nulla a che vedere con l’accezione cupa, apocalittica e mortifera che il sostantivo assume nella corona guittoniana, una mortalità, tra l’altro, celata in Amore e costantemente riecheggiata in tutto il sonetto.
E certo ben è natural figura
171 G. D’AREZZO, Del carnale amore: la corona di sonetti del codice Escorialense, p. 87.
172 Ivi, p. 86.
126
de esso Amor, cui guai’ e morte appello, sí come se mostra per li simblanti dei mortai ditti amorusi amanti, faendosi a raxion catun ribello, matto voler seguendo a dismisura174.
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore V, 9-14)
Il sostantivo “morte”, i verbi e gli aggettivi che ne derivano, ricorrono in quasi ogni testo della corona, esclusi i primi tre, che fungono da exordium, e l’ultimo, che è un congedo esortativo rivolto ai lettori. La ripetizione esagerata, quasi ossessiva della “morte” fa assumere un andamento quasi litaniante alla raccolta. Oltretutto, spesso la parola “morte” è inserita immediatamente, nella prima quartina, come monito del fatto che la fine è la conseguenza principale e più pericolosa che spetta a chiunque si abbandoni ad Amore:
De lui, cui dico morte, la figura se mostra nuda e nuda esser simillia d’ogni virtù e d’ogni diritura, d’allegreç’ e di gioi a meravellia175
.
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore VI, 1-4) Appresso che fatt’agio discernenza
di passion di lui, cui morte scrivo, […]176
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore IX, 1-2) Già per l’arco si mostra esser guerere,
per le saite mortal feridore, […]177
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore X, 1-2) La sovraditta morte per l’artilia
mostra esser[e] cosa che ’ngreffisce […]178
(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore XII, 1-2)
La potenza devastatrice di Amore, inoltre, è vivificata anche dal fatto che la risonanza della morte nel Trattato d’amore aumenta per mezzo dell’associazione con altri elementi lessicali riconducibili alla sfera del pericolo, del rischio, del dolore che, appunto, ne ampliano la valenza. Quindi, nella corona di sonetti la morte è «dolorosa» (Trattato d’amore V, 1) e il dolore che affligge l’innamorato è «mortale» (Trattato d’amore VIII, 3). Amore, poi, è «feridore mortale» (Trattato d’amore X, 2), che uccide l’amante che
174 G. D’AREZZO, Del carnale amore: la corona di sonetti del codice Escorialense, p. 91.
175 Ivi, p. 95.
176 Ivi, p. 106.
177 Ivi, p. 110.
127
viene «a morte piagato» (Trattato d’amore VII, 7) e non esiste un «mortal venen» (Trattato d’amore XII, 12) che più di Amore porti tormento e prigionia di catene.
Come è evidente, la metafora di ἔρος-θάνατος con Guittone conosce una forza cupa ed una risonanza sconosciute all’elegia precedente, al punto tale da configurarsi come binomio assoluto inglobante tutte le altre sfumature metaforiche con cui l’amore elegiaco poteva essere espresso, ovvero la guerra e la patologia, perché la morte corporale e dell’anima è la condanna che meritano i peccatori che in vita si sono abbandonati all’amore-passione. Un potenziamento del genere per il moralizzatore Guittone era necessario, perché solo evidenziando al massimo grado la natura mortifera di Amore è possibile condannare l’amore carnale, volgere l’animo all’amor spiritualis e, forse, spaventare l’animo dei lettori.
In sintesi, con il Trattato d’amore Guittone concepisce la possibilità di allargamento della parola d’amore in direzione del recupero dei valori della visionarietà, che è ciò che gli consente di introdurre – e questo accade per la prima volta nel genere elegiaco – una prima forma di gnoseologia d’amore, che mette in risalto l’importanza della vista e che procede su tre tappe diverse: la definizione o determinazione di Amore, l’interpretatio nominis e la prosopopea.
A questo punto, Guittone conosce Amore e possiede le armi per svelarne e far conoscere al mondo la natura ingannevole: l’amor carnalis che egli vuole condannare si cela sotto la facciata seduttiva dell’esteriorità, ma in realtà è un desiderio distorto, malato, che porta con sé tormenti e, soprattutto, morte, continuamente ricordata e con Guittone vivificata da un’intensità apocalittica fino a quel punto sconosciuta.
A questo punto dell’analisi sarà opportuno porsi dei quesiti.
Innanzitutto, è chiaro come Guittone con il Trattato d’amore si sia posto in relazione a quella che forse è la principale ambivalenza dell’amor cortese ed uno dei paradossi su cui l’elegia medievale si fonda, ovvero la convivenza, nel sentimento amoroso, di una componente sensuale e terrena e di una spirituale e nobilitante. Se Cappellano è il primo ad introdurre la questione – il cui riflesso è il libro terzo del De amore, totalmente in contrapposizione rispetto alla codificazione dei primi due – senza però risolvere il nodo, Guittone ritorna sul problema con l’obiettivo di denunciare la componente carnale, che è quella che provoca l’infelicità sulla terra e la dannazione eterna, e di volgere l’animo
128
verso l’amore vero, che è quello di Dio. Ora, ci si può chiedere se Guittone abbia avuto successo nei suoi intenti. E la risposta è no.
A ben vedere, Guittone non è in grado di sciogliere correttamente il paradosso cortese del rapporto fra carne e spirito e questo per due ragioni. In primo luogo, la gnoseologia d’amore guittoniana per quanto innovativa nell’apertura alla visionarietà delle immagini icastiche, non è veicolo di vera conoscenza, perché non si serve di alcun strumento filosofico per cui si possa definirla tale. Guittone, in sostanza, ha creato una corona dall’impalcatura moralistica e con intenti didattico-pedagogici che però non basa le proprie tesi e gli insegnamenti su una conoscenza acquisita per mezzo di strumenti filosofici, configurandosi più che altro come una raccolta di principi morali. Questi hanno certamente permesso a Guittone di sostenere la sua condanna dell’amore carnale in favore dell’amore spirituale, ma non gli hanno permesso di analizzare a fondo e coerentemente la psicologia amorosa cortese, cosa che a sua volta gli ha impedito di sciogliere il nodo paradossale di corpo e spirito e di eliminare la componente che a suo parere è fonte di sofferenza (cioè la carne), ma semplicemente di cassare, eliminare, condannare una parte, ma senza servirsi di fondamento logico o filosofico alcuno.
Nonostante fosse debitore di Guittone rispetto al recupero del binomio ἔρος-θάνατος e della paraetimologia proposta in Donna me prega, sarà proprio Cavalcanti a condannare la filosofia, o non filosofia, guittoniana. Cavalcanti, infatti, non solo condannerà la scelta guittoniana di affrontare la fenomenologia amorosa attraverso il gioco analogico, di avvicinamento delle immagini icastiche, e il linguaggio concettuale, ma lo accuserà di argomentare in modo fallace, di ragionare secondo sofismi e, quindi, di essere sostenitore di una falsa filosofia che, appunto, non porta a vera conoscenza.