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La malattia d’amore cavalcantiana e la sintomatologia fisica

GUIDO CAVALCANTI E LA POESIA ELEGIACA

3. Il metaforismo elegiaco nella produzione cavalcantiana

3.2 La fisiologia del mal d’amore ed ἔρος-νόσος

3.2.1 La malattia d’amore cavalcantiana e la sintomatologia fisica

La sintomatologia associata alla patologia d’amore ha una tradizione letteraria antica, di matrice classica ed ovidiana, che trova poi organizzazione scientifica nei trattati medici e riscrittura poetica nella letteratura coeva. Nonostante Cavalcanti riprenda gran parte di quanto codificato nei manuali scientifici del tempo, molti signa verranno comunque rielaborati con una certa novità e coerentemente adeguati alla sua poetica.

Le alterazioni del corpo sono fra i sintomi fisici più facilmente riconoscibili. Donna me prega, infatti, recita:

Move, cangiando – color, riso in pianto, e la figura – con paura – storna221; (Guido Cavalcanti, Rime XVII, 46-47)

Insomma, se il mal d’amore inizia a germinare, l’amante a volte riderà e sarà gioioso, altre volte sarà preda di paura e disperazione e il suo viso diventerà scarno, emaciato e si coprirà di un pallore che ricorda la morte.

Allor si mise nel morto colore

l’anima trista per voler trar guai; […]222

(Guido Cavalcanti, Rime XXII, 7-8) Guardi ciascuno e miri

che Morte m’è nel viso già salita223

!

221 G.CAVALCANTI, Rime, p. 120.

222 Ivi, p. 108.

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(Guido Cavalcanti, Rime XXXII, 13-14) Io pur rimango in tant’aversitate

Che, qual mira de fòre,

vede la Morte sotto al meo colore224. (Guido Cavalcanti, Rime XXXIV, 39-31)

Fra le diverse parti del corpo che mostrano l’alterazione della malattia, è il volto a rivelare i signa più lampanti, così evidenti da essere facilmente identificabili non solo dai medici, ma anche da amici e conoscenti. Per tal ragione coloro che compartecipano al dolore del poeta spesso si rendono conto della misera condizione che lo affligge e dei signa amoris che porta sul suo volto.

[…] le persone accorte,

che dicono infra lor: «Quest’ha dolore, e già, secondo che ne par de fòre, dovrebbe dentro aver novi martiri»225. (Guido Cavalcanti, Rime X, 9-12) Poi che mi vider così sbigottito, disse l’una, che rise:

«Guarda come conquise forza d’amor costui!»226.

(Guido Cavalcanti, Rime XXX, 17-20)

Quando lo stadio della malattia avanza, l’innamorato abbandona ogni naturale istinto alla sopravvivenza. A causa dell’immoderata cogitatio che reprime la sua mente, egli non si occupa più del suo sostentamento ed inizia a soffrire di insonnia: tutto ciò comporta un conseguente deperimento fisico pericolosamente vicino alla consunzione.

All’interno della poesia cavalcantiana, così tendente all’astrazione, all’interiorizzazione e alla rimozione dei referenti esteriori, non si troveranno descritti episodi in cui il poeta rifiuta il cibo o trascorre notti insonni, ma la debilitazione fisica e la perdita dell’energia vitale sono comunque ribadite varie volte. Ad esempio, nell’ultima terzina di O donna mia, non vedestù colui la Morte e i martiri che l’accompagnano portano gli altri a consunzione a forza di lacrime e pianto, mentre ne Gli occhi di quella gentile foresetta l’Io è «disfatto» e così debilitato da vedere

[…] piover per l’aere martiri

224G.CAVALCANTI, Rime, p. 135.

225 Ivi, pp. 88-89.

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che struggon di dolor la mia persona, sì che ciascuna vertù m’abandona, in guisa ch’i’ non so là ’v’i’ mi sia: sol par che Morte m’aggia ’n sua balìa227. (Guido Cavalcanti, Rime XXXI, 13-17)

La debilitazione dovuta alla consunzione si accompagna a violenti tremiti, provocati dalla visione dell’amata, che cominciano dal cuore per poi diffondersi in tutto il corpo. Secondo la tradizione letteraria del tempo, sono soprattutto i polsi ad essere soggetto dei tremori della paura, come se l’anima volesse fuggire da essi, come nel sonetto dantesco Spesse fiate vegnomi a la mente.

Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare; e così smorto, d’onne valor voto, vegno a vedervi, credendo guerire: e se io levo li occhi per guardare, nel cor mi si comincia uno tremoto, che fa de’ polsi l’anima partire228

.

(Dante Alighieri, Vita nova, IX, 9-10, 9-14)

In genere, anche nella raccolta cavalcantiana i tremiti che squassano il corpo dell’amate sono provocati dalla visione dell’amata. Tuttavia, ancora una volta fedelissimo ad una poesia che si svolge tutta nell’intimità dell’Io, Cavalcanti percepisce i sussulti del timore non nell’esteriorità del corpo e dei polsi, ma all’interno del cuore e dell’anima.

Tant’è gentil che, quand’eo penso bene, l’anima sento per lo cor tremare, sì come quella che non pò durare

davanti al gran valore ch’è i.llei dimostro229

. (Guido Cavalcanti, Rime IX, 19-22)

Là dove questa bella donna appare s’ode una voce che le vèn davanti e par che d’umiltà Il su’ nome canti sì dolcemente, che, s’i’ ’l vo’ contare sento che ’l su’ valor mi fa tremare; e movonsi nell’anima sospiri

che dicon: «Guarda; se tu coste’ miri, vedra’ la sua vertù nel ciel salita»230

. (Guido Cavalcanti, Rime XXVI, 13-20)

227 G.CAVALCANTI, Rime, p. 129.

228 D.ALIGHIERI, Vita nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, pp. 83-84.

229 G.CAVALCANTI, Rime, p. 85.

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Ella mi fere sì, quado la sguardo,

ch’i’ sento lo sospir tremar nel core: […]231

(Guido Cavalcanti, Rime XXXI, 4-5)

E se l’innamoramento e la paura hanno la loro genesi nella visio della donna amata che attraversa gli occhi dell’amante, sarà proprio da qui che gli spiriti vitali, materializzazione emblematica della poesia cavalcantiana e della tradizione medica del tempo, cercheranno una via di fuga. Gli occhi, a questo punto, sono teatro di un altro dei signa ex parte corporis della patologia amorosa, perché in essi si riconosce l’aspetto depresso e lacrimevole del malato d’amore.

Nelle rime Cavalcanti dà sfogo alla sua personalissima e desolata condizione, che lo fa «doler e pianger forte» (Rime X, 6). Sono gli occhi, allora, ad essere lo scenario del suo pianto dolente e la via di fuga degli spiritelli, che si dileguano per non sopportare il dolore di un’interiorità distrutta dalla battaglia che proprio dagli occhi è partita. Quella che si profila nelle liriche di Cavalcanti è, allora, una scena di devastazione, fuga e pianto, che si ripete sempre uguale, con un’ossessività martellante che ricorda la causa prima della malattia d’amore, l’immoderata cogitatio, che allo stesso tempo determina le successive degenerazioni patologiche.

[…] lassò lo core

a la battaglia ove madonna è stata: la qual degli occhi suoi venne a ferire in tal guisa, ch’Amore

ruppe tutt’i miei spiriti a fuggire232. (Guido Cavalcanti, Rime IX, 10-14) Voi che per li occhi mi passaste ’l core e destaste la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore. E’ vèn tagliando di sì gran valore, che’ deboletti spiriti van via: […]233

(Guido Cavalcanti, Rime XIII, 1-6) L’anima mia dolente e paurosa Piange ne li sospir’ che nel cor trova, sì che bagnati di pianti escon fòre234. (Guido Cavalcanti, Rime XVII, 9-11)

231 G.CAVALCANTI, Rime, p. 128.

232 Ivi, p. 85.

233 Ivi, p. 93.

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Chiude la lista dei sintomi corporei cavalcantiani un aspetto assente nel repertorio medico del tempo, ma recuperato e risemantizzato da Cavalcanti a partire dalla lirica guinizzelliana: la mineralizzazione dell’amante. Nella fenomenologia tragica cavalcantiana la malattia d’amore debilita e sfinisce il corpo dell’innamorato al punto tale da distruggerne le funzioni e le energie vitali. Dell’amante, insomma, non resta che un fantoccio, un automa completamente svuotato della propria volontà e asservito alla malattia. Per indicare questo stato di assoggettamento paralizzante e mortale Cavalcanti paragona l’amante ad una statua di ottone, in pietra o in legno, condizione che oggettiva nella pietrificazione le conseguenze tragiche della patologia d’amore.

I’ vo come colui ch’è fuor di vita, che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia fatto di rame o di pietra o di legno, che si conduca sol per maestria e porti ne lo core una ferita

che sia, com’egli è morto, aperto segno235

. (Guido Cavalcanti, Rime VIII, 9-14)