ANDREA CAPPELLANO E GUITTONE D’AREZZO: IL RECUPERO DELL’ELEGIA NEL MEDIOEVO
2. Ovidio, Cappellano e Guittone: un’ottica di continuità
3.3 Il genere elegiaco all’interno del De amore
Come si è già anticipato, molti sono gli aspetti contenuti nel De amore che rimandano all’immaginario elegiaco, e lo stesso accade per il Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo. I tre libri di Cappellano riprendono la topica dell’ambito bellico, che ruota attorno alla metafora di ἔρος-πόλεμος: l’amore è una guerra perché l’esito di una relazione infelice è la distruzione interiore ed esteriore dell’innamorato. La guerra contro Amore rimanda, poi, al metaforismo della militia e del servitium amoris, frequentatissimi dall’elegia latina e riassorbiti nella logica cortese, e alle immagini di Cupido feritore che colpisce gli innamorati con i suoi strali. Ancora, l’aggressività e la violenza di Amore si mostrano sia nell’elegia latina che in quella medievale nella cattura della mente e del cuore dell’innamorato, che è reso schiavo della sua passione e del suo dolore. A questa condizione di prigionia ed alienazione corrisponde, poi, una forte tendenza all’esclusione, all’isolamento - in parte provocato e in parte ricercato - perché la solitudine è il rifugio ideale degli amanti infelici. Lo stesso Ovidio già aveva sottolineato i rischi dell’auto-esclusione, perché questa concilia il ricordo dell’amata. Per questo nei Remedia consigliava di fuggire i luoghi solitari e di circondarsi di amici. L’importanza della vicinanza degli altri e i rischi dell’isolamento e dell’ossessività malata del pensiero d’amore verranno riconosciuti dallo stesso Andrea Cappellano.
Quem enim amoris iacula tangunt, nil aliud cogitat nec sibi utile credit nisi coamanti placere et aius semper ministeriis inservire, et in amore neglectum vel amissum sibi male compensat amicum130.
129 A.CAPPELLANO, De amore, pp. 328-329.
99
(Andrea Cappellano, De amore, III, 33)
[Perciò che quelli ch’è fedito d’amore non pensa altro e non crede che sia altra sua attulità, se non di piacere e di servire al suo amore, e quando è innamorato, mal serve o rende guiderdone del servigio dell’amico]
E l’ossessione, l’immoderata cogitatio di un desiderio che per la sua natura è in costante crescita e che non verrà mai soddisfatto, apre la strada all’idea che ἔρος sia νόσος, che con la sua brutalità colpisce la mente e lascia i signa anche sul corpo. L’idea che l’amore fosse assimilabile ad una patologia era già assai radicata nel mondo latino, al punto tale che lo scopo dichiarato di Ovidio nei Remedia amoris è proprio quello di fornire un trattato di precetti medici che insegnino al malato a guarire dal mal d’amore.
Discite sanari per quem didiscitis amare131. (Ovidio, Remedia amoris, 43)
[Imparate da me a guarire come da me imparaste ad amare]
L’incrocio tra il lessico patetico e quello medico inaugurato dai Remedia avrà una straordinaria fortuna nel genere elegiaco successivo e nello stesso Cappellano. Così come i «decepti iuvenes» di Ovidio, anche l’innamorato di cui parla Cappellano è un malato d’amore. Nel De amore diverse sono le spie lessicali che rimandano all’ambito tecnico-scientifico. Per esempio, Amore «debilitat» l’innamorato che “si nutrica di minor cibo e di minor bere, e perciò a ragione dè essere di minore potentia” (De amore, III, 33). Molti sono i riferimenti alla sfera corporale, perché Amore è «aegritudo» che colpisce il fisico umano, che manifesta difficoltà digestive, turbamento degli umori, febbre e altri malanni. Tuttavia, se nel mondo latino Amore era in pari misura un morbo fisico e mentale, l’elegia medievale sembra dare preminenza alla componente psichica della patologia amorosa. Infatti, è l’immoderata cogitatio di Andrea Cappellano a provocare in primo luogo il peggioramento della passione e, in secondo luogo, a determinare le successive degenerazioni del corpo. Ma c’è di più. L’immoderata cogitatio ostacola la capacità di discernimento e l’esercizio di tutte le altre virtù, proprio in nome della devianza del pensiero, che è sempre profondamente impegnato in quell’unica immagine che lo soggioga. Il ritirarsi a pensare all’amata, il desiderio di solitudine, l’essere preda della battaglia dei pensieri e della lotta contro Amore fanno tutti parte di quei sintomi che prima colpiscono l’anima e che solo successivamente debilitano il fisico. L’innamoramento, in
100
questo modo, assume la veste della patologia malinconica. La malinconia, allora, è il risultato finale di un amore eccessivo ed inappagato e può considerarsi il tratto distintivo ed innovativo della malattia d’amore nell’elegia medievale. A questo punto, le caratteristiche proprie dell’umore malinconico si aggregano attorno alle topiche mediche che indicano i sintomi del malato d’amore nella letteratura scientifica e nella letteratura d’arte come, appunto, lo stesso De amore. I sintomi fisici indicati da Cappellano hanno una lunga tradizione e ritorneranno successivamente in tutti gli altri autori che parleranno di amore in termini elegiaci. Il mal d’amore colpisce l’innamorato che diventa insonne ed inappetente, emaciato, con il volto pallido, sconvolto dal dolore amoroso e scosso da tremiti. Debilitato nello spirito e nel corpo, l’amante non è più in grado di celare i signa amoris.
Il pensiero ossessivo e malato dell’amata porta con sé un formulario legato alla gelosia, alla paura della lontananza, della perdita, del tradimento, che richiamano il timor ovidiano tanto sfruttato nelle Heroides.
Ut subito nostras Hymen cantatus ad aures Venit et accenso lampades igne micant Tibiaque effundit socialia carmina vobis, at mihi funerea flebioliora tuba,
pertimui nec adhuc tantum scelus esse putabam, sed tamen in toto pectore frigus erat132.
(Ovidio, Heroides, XII, 139-144)
[Come all’improvviso giunse alle mie orecchie il canto di Imene E le lampade brillano di fuochi accesi
E il flauto diffonde canti nuziali per voi, per me invece più tristi della tromba funebre, ho avuto una grande paura, ma ancora non credevo
che fosse un’infamia così grande, e tuttavia aveva il gelo in tutto il petto]
Anche nella didascalica dei Remedia amoris si fa riferimento al timor, da cui è consigliabile liberarsi se si vuole guarire dal morbo amoroso.
Fit quoque longus amor quem diffidentia nutrit: hunc tu si quaeres ponere, pone metum.
Qui timet ut sua sit, ne quis sibi detrahat illam, ille Machaonia vix ope sanus erit: […]133
(Ovidio, Remedia amoris, 543-546)
[Resiste a lungo anche l’amore alimentato dal sospetto:
132 OVIDIO, Eroidi, pp. 358-359.
101
se cercherai di liberartene, liberati dalla paura.
Chi teme che l’amata non sia sua, che qualcuno gliela porti via, a stento sarà guarito dalla medicina: […]]
Rifiutarsi di curare la patologia amorosa può condurre a morte. Il binomio di ἔρος e θάνατος è piuttosto frequentato nell’elegia classica, ma non è così fortemente sviluppato nel De amore, come invece accadrà nel Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo. Ad ogni modo, Cappellano suggerisce comunque ai lettori che Amore è un principio aggressivo e cacciatore, pericoloso e mortifero.
In sostanza, sia che lo si consideri un desiderio ossessivo e inappagato, sia che venga concepito come un principio aggressivo, una forma di schiavitù, una malattia che causa infermità ed esclusione, ciò che sopravvive nel passaggio dell’elegia dal mondo latino a quello medievale è che Amore per sua natura è infelicità, sofferenza e tormento. Quindi, al di là delle modificazioni superficiali, l’essenza dell’elegia sopravvive nei secoli, continuando ad essere il genere letterario che meglio di tutti «conveniat miseris».