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Eρος-πόλεμος fra novità e tradizione

GUIDO CAVALCANTI E LA POESIA ELEGIACA

3. Il metaforismo elegiaco nella produzione cavalcantiana

3.1 Eρος-πόλεμος fra novità e tradizione

A partire dalla tradizione elegiaca preovidiana ed oltre, l’aggressività e la brutalità imputate ad Amore sono espresse attraverso una delle metafore più frequentate all’interno del genere: il binomio ἔρος-πόλεμος, che avvicina la crudeltà dell’esperienza amorosa alla violenza bellica. Se Cappellano e Guittone avevano in parte trovato spiegazione alla natura bellicosa e mortifera di Amore attraverso dell’analisi dell’intepretatio nominis, Cavalcanti ricorre ad una soluzione diversa. Egli non propone una paraetimologia di Amore per giustificare la violenza di cui si copre, ma la riconduce alla forza oscura ed aggressiva da cui la passione amorosa trae la sua origine.

In quella parte – dove sta memora prende suo stato, – sì formato, – come diaffan da lume, – d’una scuritate la qual da Marte – vène, e fa demora; elli è creato – ed ha sensato – nome, d’alma costume – e di cor volontate204

. (Guido Cavalcanti, Rime XVII, 15-20)

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In Donna me prega, infatti, Cavalcanti afferma che l’oscurità da cui Amore è generato origina dal pianeta Marte, considerato dall’astrologia medievale come un corpo celeste dagli influssi maligni, al punto che chiunque si fosse trovato sotto la sua influenza sarebbe stato colpito da un violento annebbiamento mentale e si sarebbe mostrato “lussurioso, fornicatore e colpevole di ogni abuso venereo”205 (Dino del Garbo). Insomma, riconducendo la generazione di Amore non al principio benefico associato a Venere, ma all’influenza oscura del pianeta Marte – il cui nome, tra l’altro, rimanda a quello del dio pagano della guerra – Cavalcanti giustifica l’aggressività della passione amorosa e pone la sua collocazione nella sfera dell’irascibile, scardinando così la tradizione che poneva l’amore nella parte concupiscibile.

Proseguendo, Cavalcanti condivide con Ovidio, Cappellano e Guittone parte della prosopopea d’Amore, che lo descrive come un fanciullo alato, nudo e cieco, armato di arco e faretra e pronto a ferire a morte gli innamorati. Tuttavia, contrariamente ai predecessori, Cavalcanti non descrive compiutamente Amore approfondendo ogni singola caratteristica dell’iconografia tradizionale, e questa scelta è perfettamente in linea con una poesia che tende costantemente all’eliminazione di tutti i referenti esterni e delle connotazioni esteriori in favore di un costante processo di interiorizzazione, nel quale il nemico stesso è coinvolto. Allora, nelle rime non si troveranno elencati tutti i tratti esteriori tradizionalmente associati ad Amore, anche se comunque è chiaro che Cavalcanti condividesse con i maestri l’idea che il sentimento personificato assumesse le vesti di un soldato pronto a fare dell’amante il bersaglio delle sue frecce. Infatti, in due occasioni all’interno della silloge Amore è chiamato «arcier sorïano» (Rime XX e XXI, 6 e 7), perché la sua abilità nel tiro con l’arco è paragonabile agli abilissimi arcieri di Siria. Il simbolismo che vede Amore dotato di arco è poi sviluppato in tutta la rima XX, anche se le caratteristiche di Amore-arciere ritornano anche altrove.

O tu, che porti nelli occhi sovente Amor tenendo tre saette in mano, questo mio spirto che vien di lontano ti raccomanda l’anima dolente, la quale ha già feruta nella mente di due saette l’arcier sorïano: a la terza apre l’arco, ma sì piano che non m’aggiunge essendoti presente:

205 E.FENZI, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Milano, Ledizioni, 2015, p. 97.

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perchè saria dell’alma la salute,

che quasi giace in fra le membra, morta di due saette che fan tre ferute:

la prima dà piacere e disconforta, e la seconda disia la vertute

della gran gioia, che la terza porta206. (Guido Cavalcanti, Rime XX, 1-14)

Altre liriche hanno per protagonista Amore che con le saette trafigge l’innamorato, che dopo ogni scontro appare sempre più indebolito nel corpo e squassato nell’anima. In Voi che per li occhi mi passaste ‘l core, ad esempio, sono esibiti gli effetti della distruzione operata dai colpi di Amore sulle facoltà vitali umane.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’ occhi gentil’ presta si mosse: un dardo mi gittò dentro dal fianco. Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse veggendo morto ’l cor nel lato manco. (Guido Cavalcanti, Rime XIII, 9-14)

O ancora in I’ prego voi che di dolor parlate:

Davante agli occhi miei vegg’io lo core e l’anima dolente che s’ancide,

che mor d’un colpo che li diede Amore ed in quel punto che madonna vide207. (Guido Cavalcanti, Rime XIX, 4-7)

Molto tradizionalmente, accanto alla rappresentazione di Amore come arciere e «feridore», ritorna nelle liriche il lessico tipico della metafora di ἔρος-πόλεμος, che emerge per esempio nella ripetizione quasi ossessiva del sostantivo battaglia o nell’idea della supremazia che Amore esercita sui suoi sudditi, resa evidente nelle parole che sottolineano il concetto di dominio, come «segnoria» (Rime XIII, 7) o «conquise» (Rime XXIII, 8). All’assoggettamento, poi, segue convenzionalmente la prigionia d’Amore, che trasforma l’Io in un «servidore» che deve prestare al suo aguzzino il suo servitium.

Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro

206 G.CAVALCANTI, Rime, pp. 104-105.

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vostra figura piena di valore,

fuor quei che di voi, donna, m’acusaro nel fero loco ove ten corte Amore, e mantenente avanti lui mostraro ch’io era fatto vostro servidore: […]208

(Guido Cavalcanti, Rime V, 1-6)

«Questa vostra servente Vien per istar con voi, partita da colui

che fu servo d’Amore»209

.

(Guido Cavalcanti, Rime XXXV, 33-36)

Proseguendo, le occorrenze lessicali legate all’area semantica della devastazione e della distruzione che seguono sia ai conflitti bellici che alla guerra del cuore ricorrono con una frequenza quasi ossessiva, a sottolineare la drammaticità dell’esperienza amorosa. Oltretutto, sono usuali i termini che rimandano al concetto di abbandono e fuga, soluzione piuttosto innovativa della lirica cavalcantiana e scarsamente impiegata nella tradizione precedente. Nella raccolta, allora, si hanno sei occorrenze di “disfatto” o “desfatto”, undici di “distruggere”, “destruggere” e “struggere” in esiti verbali e nominali, nove occorrenze di “fuggire” in forme verbali e nominali e quattordici di “partire” o “partirsi”.

La forte e nova mia disaventura m’ ha desfatto nel core

ogni dolce penser, ch’ i’ avea d' amore. Disfatta m’ha già tanto de la vita, che la gentil, piacevol donna mia dall’anima destrutta s’è partita, sì ch’i’ non veggio là dov’ ella sia210

. (Guido Cavalcanti, Rime XXXIV, 1-7)

Se quelli analizzati fino a questo punto possono apparire impieghi piuttosto tradizionali, la metafora di ἔρος-πόλεμος è in realtà sfruttata da Cavalcanti con modalità originali, innovative e coerenti alla sua poetica. Si è già parlato precedentemente di come la poesia cavalcantiana tenda fortemente all’interiorizzazione e la stessa metafora bellica verrà inglobata in questo processo di assorbimento, che porta il poeta a rappresentare l’amore-guerra in due modi differenti. Da un lato la l’amore-guerra viene condotta contro Amore o contro

208 G.CAVALCANTI, Rime, p. 77.

209 Ivi, p. 137.

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l’amata, rappresentati come nemici esterni, impietosi ed invincibili, contro i quali la sconfitta e la morte sono già preannunciate. Questo tipo di raffigurazione emerge nelle rime in cui il sentimento è personificato e si veste delle caratteristiche dell’arciere della prosopopea tradizionale o in quei casi in cui Amore si rivolge direttamente al poeta, dialogando con lui.

Amor, che lo tuo grande valor sente, dice: «E’ mi duol che ti convien morire per questa fiera donna, che nïente par che piatate di te voglia udire». (Guido Cavalcanti, Rime VIII, 5-8)

Dall’altro lato però, e in questo sta la grande novità, la battaglia è condotta nelle profondità dell’Io, quando Amore non è più un avversario esterno, ma un nemico interiorizzato e al contempo rivelatore di un pericolo congenito all’anima sensitiva. Infatti, quando Amore valica i confini della misura nell’anima sensitiva, questi diventa eccesso: l’innamorato è così assediato dal suo nemico e condannato ad una morte che attraversa diverse tappe. Ossessionato dall’unico pensiero che desidera Amore, l’amante è prima abbandonato da ogni istinto alla sopravvivenza e successivamente la sua interiorità diventa il palcoscenico delle lotte fra le facoltà intellettuali e fisiche, le quali teatralizzano le dinamiche contradditorie di un’interiorità sfregiata dalla guerra contro Amore, ormai interiorizzato e veramente invincibile. E se da un lato il metaforismo di ἔρος-πόλεμος è interiorizzato dall’ambientazione della guerra nelle profondità dell’Io, dall’altro si teatralizza con la battaglia degli spiritelli, che sono materializzazione delle facoltà umane, gli attori che riproducono sul palcoscenico della profondità umana la devastazione che consegue alla guerra per Amore.

E prego umilemente a lei tu guidi li spiriti fuggiti del mio core, che per soverchio de lo su’ valore eran distrutti, se non fosser vòlti: e vanno soli, senza compagnia, e son pien’ di paura.

Però li mena per fidata via

e poi le di’, quando le se’ presente: «Questi sono in figura

d’un che si more sbigottitamente»211. (Guido Cavalcanti, Rime IX, 47-56)

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La poesia di Cavalcanti, segnata da un senso tragico dell’esistenza e da una filosofia fatalista, non prevede speranze di liberazione dall’amore infelice. Per questo la guerra contro Amore ha esito drammatico e conosce solo un destino di morte. Cavalcanti in questo senso si dimostrerà fortemente debitore del Guittone del Trattato d’amore, che per primo aveva una violenza e un significato nuovo al binomio di ἔρος-θάνατος. Se nel mondo classico la morte per Amore era solo la conseguenza più tragica di una patologia sentimentale non curata o di una guerra del cuore non vinta, sarà proprio con Guittone che la Morte aleggerà su ogni lirica del Trattato d’amore perché, abbandonata la dimensione della contingenza e potenziandosi di un’oscurità apocalittica inedita, essa diventa necessità. Nel caso di Guittone, tuttavia, la necessità della morte per Amore è legata agli intenti moralizzatori della sua opera: solo sottolineando al massimo grado la natura mortifera della carnalità Guittone avrebbe potuto giustificare la peccaminosità di Amore e spinto la sensibilità dei lettori a volgere il loro animo verso l’amore giusto, cioè l’amore dello spirito. Per questo nella corona guittoniana la morte per Amore assume una furia tale da assorbire in sé anche gli altri due binomi tipici del metaforismo elegiaco, ossia ἔρος-πόλεμος e ἔρος-νόσος.

Amor dogliosa morte si pò dire, quasi en nomo logica spoxicione: ch’egli è nome lo qual si pò partire en «a» e «mor», che son due divixione212. (Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore IV, 1-4) E certo ben è natural figura

de esso Amor, cui guai’ e morte appello, sí come se mostra per li simblanti dei mortai ditti amorusi amanti, faendosi a raxion catun ribello, matto voler seguendo a dismisura213.

(Guittone d’Arezzo, Trattato d’amore V, 9-14)

Ora, la forza accentratrice di θάνατος nella corona guittoniana è il preludio di ciò che avverrà anche nella poesia di Cavalcanti, dove la Morte è perdita corporale, spirituale ed intellettuale e diventa così assoluto nel fenomeno amoroso. Ciò avviene, come si vedrà,

212 G. D’AREZZO, Del carnale amore: la corona di sonetti del codice Escorialense, a cura di R. Capelli, Roma, Carocci editore, 2007, p. 87.

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per ragioni strettamente connesse alla visione filosofica cavalcantiana che, per la portata straordinaria che ha all’interno della poesia, verrà trattata in modo approfondito successivamente, insieme alle conseguenze dirette di cui è radice.

Cavalcanti è dunque il primo, e l’unico, in cui Amore si identifica di fatto con una Morte “assoluta”, a priori, del Soggetto: la necessità della morte non è sottoposta a diegesi, è precondizione della Poesia […]214.