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PARTE II. ITALIA: R-ESISTENZE DALLA PERIFERIA ROMANA

II.4 Siamo quelli del “bare”

II.4.1 Amhed e la fratellanza

Ahmed è egiziano, ed è giunto in Italia nel 1998 a soli due anni con la madre e la sorella della madre, per raggiungere il padre e lo zio, che erano già a Roma. Solo al suo arrivo in Italia Ahmed conosce suo padre, essendo quest’ultimo partito dall’Egitto poco prima della sua nascita. Ahmed mi parla dei primi anni, attingendo più che altro ai ricordi dei genitori. I suoi discorsi ruotano per lo più attorno ai sacrifici della figura paterna, quasi mai presente nella sua quotidianità, perché sempre impegnato a lavorare. In Italia nascono le due sorelle di Ahmed e suo cugino, Tarek. Il padre di Ahmed, dopo diverse vicissitudini sue e dei familiari (cioè situazioni di precarietà abitativa e giuridica, come immigrato divenuto ‘irregolare’91), ottiene lo status di

“lungo-soggiornante”92 (titolare di quella che è stata per molto tempo nota come “carta

91 Sono “irregolari” gli stranieri che hanno perduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio

nazionale (per esempio, nel caso di permesso di soggiorno scaduto e non rinnovato), di cui erano in possesso al loro ingresso in Italia; ma sono – per la legge – “irregolari” anche quanti tentino l’immigrazione senza visto nel nostro paese: migranti irregolari o “non autorizzati”, appunto, e non clandestini. Pur se molte pubblicazioni, e tra queste anche informative istituzionali (ad esempio: Camera dei deputati 2008), impieghino la dicitura “immigrazione clandestina” o “reato di clandestinità”, i termini “clandestino”/“clandestinità” non sono rinvenibili nella giurisprudenza italiana. Essi non sono presenti nella così detta Bossi-Fini, né all’interno del Testo Unico sull’immigrazione (infra: note successive); allo stesso modo, non ve n’è traccia nella L. 94/2009 (“pacchetto sicurezza”) il cui articolo 10 bis che disciplina il così detto “reato di clandestinità”, pur non adoperando questa espressione, bensì “Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” (cfr. Redattore sociale 2013: 48-53).

92 Si tratta di un dispositivo che permette il soggiorno del cittadino straniero a tempo indeterminato.

Tale condizione giuridica può essere revocata e il soggetto che ne è titolare può venire espulso solo per gravi motivi di ordine pubblico e di sicurezza. La regolamentazione vigente fa riferimento al Testo Unico sull’Immigrazione, Titolo II (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286), “Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato”, in particolare art. 9 del T.U.I..

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di soggiorno”); tutto questo accade nel 200293. Quel passo in avanti nei diritti di

cittadinanza costituisce un momento importantissimo per la famiglia di Ahmed. Il padre, che fino a quel momento lavora alle dipendenze di un imprenditore italiano nel settore della ristorazione, si trova nella posizione giuridica di poter avviare un’attività in autonomia e, soprattutto, di aver accesso alla procedura per l’assegnazione di case popolari, inserendosi nelle liste del Comune.

Nel 2004 la famiglia di Ahmed ottiene il trasferimento, come soluzione ‘temporanea’ in attesa di un’assegnazione definitiva, alla casa di Marozia; al suo arrivo nel quartiere, Ahamed ha otto anni e, nel frattempo, è nata sua sorella Dalia. Ahmed, che ha iniziato le elementari in un altro quartiere, cambia scuola; la più vicina a Marozia dista poco più di tre chilometri che, però, percorre ogni mattina a piedi, con la madre e il cugino, Tarek. Anche Tarek e la sua famiglia, infatti, hanno seguito lo stesso percosso e sono arrivati a Marozia. Il padre di Ahmed, intanto, ottiene un miglioramento delle condizioni economiche. Il ristorante per il quale lavora, come aiuto cuoco, è convenzionato con un garage. Il proprietario di questo spazio decide di ritirarsi e di dare in gestione l’attività. Si tratta di un quartiere centrale di Roma; il padre di Ahmed coglie l’occasione al balzo e, considerato persona “affidabile”, riesce ad ottenere la gestione del garage, mettendosi così in proprio, assieme al fratello. L’uomo è quasi perennemente assente da Marozia, dove il ragazzo cresce con suo cugino, costruendo un rapporto stretto con gli altri bambini coetanei del comprensorio. La mamma e la zia si occupano delle faccende domestiche e dei più piccoli, raramente escono di casa. Per Ahmed, Marozia diviene da subito una grande dimora, un grande parco in cui scorrazzare.

A scuola mi so’ trovato bene, nessun problema. Alle elementari studiavo... alle medie devo di’ ‘a verità, no... zero. Stavamo sempre qua in giro, co’ gli altri [ragazzi di Marozia]... eravamo sempre qui alla piazzetta pe’ radunarci. [...] Mio padre no, non lo vedevo mai, poi da quando ha preso il garage... peggio. Le notti se l’è fatte tutte l’ha... quando tornava, dormiva ma tanto io ero a scuola, dopo la scuola lui se n’era già andato al garage [...] Io sono di Marozia, sono

93Il padre di Ahmed ottiene il permesso di soggiorno di lunga durata grazie alla L. 222/2002, seguita

alla L. 189/2002, nota come legge “Bossi-Fini”. La prima è la conversione in legge del D.L. 195/2002, recante “disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari”: con tale decreto, chiunque nell’esercizio di un’attività di impresa, sia in forma individuale che societaria, che ha impiegato alle proprie dipendenze nel trimestre precedente all’entrata in vigore della norma (quindi a partire almeno dal 10 giugno 2002) lavoratori di nazionalità extracomunitaria in posizione “irregolare”, cioè in violazione delle norme sul rilascio dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro, ha potuto procedere alla regolarizzarne del rapporto lavorativo presentando una dichiarazione di emersione alla Prefettura, dietro pagamento di un contributo.

144 cresciuto qui... co’ tutti gli altri della comitiva, siamo ‘na fratellanza (Ahmed,

22-05-2018).

Il quartiere e il gruppo dei coetanei divengono anche più di una seconda casa, data l’assenza della figura paterna, dovuta a pesanti orari di lavoro, per garantire un reddito ‘adeguato’ alla famiglia. Il gruppo di ragazzi del “bare”, il gruppo a cui sono giunto attraverso gli ‘attacchi’ mediatici, sono una comitiva – così ‘normalizza’ Ahmed la loro posizione – sorridendo quando gli mostro un articolo di giornale che li chiama

gang (supra: II.3.2). Eppure, il gruppo è nelle sue parole sempre qualcosa di più,

anche della famiglia stessa, una “enclave”94 a cui far ritorno in caso di necessità, su cui

poter contare e, attraverso la quale, orientare il proprio essere al mondo.

Siamo ‘na comitiva, ma forse non come tante... ma questo perché siamo di Marozia. E non è per quello che scrivono i giornali. Perché in fondo è vero che siamo diversi, noi le cose ce le dobbiamo sudà sempre e più degli altri, e se non ce le prendiamo noi, in qualche modo, a noi le cose nun ce spettano mai. (Ibid.)

A volte, seguire i pensieri Ahmed mi risulta difficile. Quando dialogo con lui si attraversano molti piani temporali e relazionali, dalla sua infanzia alla sua adolescenza nel quartiere, attraverso il rapporto fraterno con gli amici e ancora di più col cugino Tarek.

Nei discorsi di Ahmed, sia sulla sua infanzia e adolescenza che sul suo presente, la figura materna fa solo da sfondo alle narrazioni: sta con le donne della famiglia e si occupa della casa, mi ripete. Mi parla attivamente della madre solo quando fa riferimento ad una lite, inerente alla sua assenza in moschea e al suo non sentirsi affatto religioso:

Mangio pure er maiale” per ditte, non c’è per me ‘sta cosa della religione. Me chiedono se so’ mussulmano, io rispondo mio padre e mia madre so’ mussulmani, ché vanno in moschea. Ma è ‘na questione de generazione secondo me, non è mancanza de rispetto (Ahmed, 22-05-2018).

Chiacchieriamo sulle arrugginite scale antincendio di una palazzina, il luogo che ironicamente chiamano il “bare” e lì ciò che contraddistingue i suoi discorsi è sempre un’appartenenza viscerale a quei palazzi e al comprensorio. Marozia è qualcosa che viene prima e oltre Roma, e certamente prima di ogni legame con un paese d’origine, l’Egitto, che ha conosciuto per brevi periodi di ‘vacanza’, dopo il suo arrivo in Italia.

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Ahmed parla correntemente egiziano e ama raccontarmi episodi che definisce “buffi”, con una spontaneità che mi lascia, a volte, sorpreso:

La gente è confusa quando me sente parlà romano, ma poi è confusa pure quando me sente parlà egiziano, fuori de qua dico. Per esempio, mezz’ora fa ero alla metropolitana, avevano rapinato ‘na signora egiziana e ho fatto da interprete, ‘a gente me guardava e me diceva «ma nun ce credo, com’è che parli pure romano?». Succedono ste cose... nun è razzismo, cioè non è quella cosa che te vogliono ammazzà... se te sentono parlà va bene, se te guardano di sfuggita così, cor cappelletto, la visiera, le robe addosso (come gli altri del gruppo attinge molto dallo stile hip-hop nel vestire) pure niente... ma se te guardano ‘na seconda volta vedono uno straniero. Allora me piglia de fa’ i pezzi (“fare delle scenate”) in romano! Chessò, me metto a litiga’ pure pe finta con qualcuno che me sta vicino, a parole [...] però questo succede fuori, fuori de qua. (Ahmed, 22-05-2018)

Ahmed distingue bene un ‘dentro’ Marozia, da un ‘fuori’. Entrare e uscire dal quartiere comporta diversi passaggi e negoziazioni nell’esperienza quotidiana del ragazzo. Intanto, c’è da precisare che Ahmed frequenta maggiormente l’area periferica ovest di Roma, attorno ad una fermata della metropolitana. Lì ha i suoi “giretti”, con il che intende un piccolo spaccio di droghe ‘leggere’, ma soprattutto lì sono i luoghi del divertimento. Quando è nel quartiere Ahmed è chiaramente a casa. La tonalità affettiva è quella della “fratellanza”; ed anche per gli adulti ‘romani’ di Marozia come Umberto, giovani quali Ahmed e Tarek sono “nipoti”, figli del quartiere, cresciuti “in casa loro”, sono i migliori amici dei loro figli:

Qui se passava sempre il tempo assieme. Si dormiva spesso a casa degli amichetti o gli amichetti dormivano a casa mia. Nun ce sta razzismo tra di noi, macché... anzi mia madre se po’ di’ che l’ha cresciuti gli amichetti mia... come Giulio o Miki... le loro mamme poi stavano spesso a lavorà, s’arrangiavano. Poi ce stava il doposcuola... che almeno ce faceva fare qualcosa... se pure lì abbiamo fatto un po’ di casini, però poi alla fine era ‘na cosa buona. Si stava sempre tutti assieme. (Ahmed, 22-05-2018)

La madre di Ahmed non lavora ma è riuscita ad entrare in sintonia con il circuito di mutua assistenza che le donne del comprensorio hanno, autonomamente, messo in piedi. Assieme al doposcuola, la condivisione di ambienti familiari ‘del vicino’ scandisce coesistenze che tracciano un senso di condivisione morale e materiale, nonché di comune appartenenza per i ragazzi “del bare”, sin dai primissimi anni della loro formazione e della socializzazione primaria: fattore non trascurabile nell’auto-

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percezione che Ahmed e i suoi hanno della loro comitiva, o del gruppo, rispetto ai ragazzi che vivono oltre la collinetta di Marozia. Ad ogni modo, i discorsi del mio giovane informatore dipingono un’adolescenza esplosiva, anche nei tempi. L’infanzia, se la si considera come dimensione più domestica, circoscritta dalle attenzioni – anche disciplinanti – di scuola e famiglia, è una parentesi che sembra scorrere in un lampo, nei suoi discorsi; le sue narrazioni appaiono quasi il racconto di una crescita distratta più volte e poi attratta inevitabilmente dalla strada e dalla piazza:

Man mano che se cresce... se comincia ad anna’ in giro, dico a dodici, tredici anni... a fare un po’ di impiccetti [...] Imparavamo dai ragazzi più grandi ... principalmente a rubare all’inizio […] La prima volta che mi hanno messo in celletta (la camera di detenzione dopo un arresto), c’avevo quattordici anni, me pare... è stato per un motorino... nun è che ne avevo bisogno, che dovevo anda’ a vendere i pezzi... ci divertivamo, tutto qui! Avevo ‘mparato a fa’ partì i motorini e m’era presa la fissa (ride). Ne ho presi diversi... ce se divertiva e poi li abbandonavamo... ma una volta, mio cugino stava tornando con un motorino regolare, io stavo su uno rubato... prima della salita qua sotto, m’hanno fermato e m’hanno portato al commissariato. Pe’ mio padre è stata ‘na tragedia ... ma po’ se n’è fatta una ragione. (Ibid.)

I problemi con le istituzioni, dunque con la polizia, si fanno poi frequenti. Quando Ahmed parla del padre, il discorso cade sempre sulla ‘differenza’ tra generazioni: al padre, allo zio e ai primi immigrati vengono attribuite qualità nelle quali il mio informatore non si riconosce.

Loro (la prima generazione migrante, quella dei suoi genitori) so’ tutta n’altra cosa. Hanno dovuto combatte’ per lavorare, e per loro c’è il lavoro, la casa e la moschea. Per noi che c’è? C’è ‘a pischellanza (“fratellanza”) e c’è Marozia. E non dico questo perché so’ figlio di egiziano... nun c’è niente manco per Ettore, per Lucio, per Leo (gli altri ragazzi italiani del gruppo). Voglio di’... mio padre lavora da ‘na vita, ha dovuto fa il doppio... pure degli italiani quando è arrivato, ma il massimo dove c’ha portato dov’è? Qua... a Marozia. Me capisci, no? Io se posso, non voglio fa’ la stessa fine. (Ahmed, 13-05-2018)

Il rapporto con il quartiere, nei discorsi di Ahmed, è un misto di senso di appartenenza, di localismo esistenziale e di critica ad una società escludente: per Ahmed gli sforzi paterni non sono stati ripagati adeguatamente e quando gli faccio notare che comunque il genitore garantisce a lui e alla sua famiglia la stabilità, grazie al permesso di

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soggiorno indeterminato, che si estende ai familiari – anche al figlio maggiorenne – per via del reddito sufficiente e stabile, il ragazzo cambia tono.

Sì, lo so che lui se spacca la schiena e per questo io voglio combina’ qualcosa, ma non a lavora’ come gli altri pischelli (“ragazzi”) qua attorno nei cantieri o agli autolavaggi... là te fai troppo il mazzo. Io comunque un po’ gli do una mano in garage a mio padre, ma non tutti i giorni ... mi piacerebbe trovare qualcosa fuori di qua, almeno con mio cugino. Sto vedendo se parte una cosa ... ce sta uno che vuole aprire un bar stile orientale, coi narghilè... capito come? Dice che ci può mettere dentro a me e mio cugino, perché lì, vicino Termini, ci sono tanti egiziani. (Ibid.)

Ahmed ha conseguito una qualifica in elettronica, dunque si è fermato al termine di un ciclo triennale presso un istituto professionale pubblico, rispettando l’obbligo scolastico, ma non raggiungendo un vero diploma; inoltre, egli afferma senza mezzi termini che quel percorso non gli sia servito a nulla. Ahmed insiste su un punto in particolare, sul quale ragionerò, allargando l’analisi, alla fine di questa sezione:

C’ho ventidue anni e ti dico la verità, se lavorare è quello che tocca a tutti quelli de qua... sì, sti lavori de merda insomma, tutta sta voglia non c’è. Se arriva ‘na svolta... che non ti devi immaginare chissà cosa... lo so che non ho studiato io... ‘na svolta, cioè un posto buono, normale... allora penso pure di andarmene da qui, sennò va bene così per ora, non voglio scegliere subito! (Ahmed, 22-05-2018)

La scelta che Ahmed non vuole fare è quella di sacrificare tutte le energie e tutte le sue giornate ad uno dei lavori considerati “i soliti” o “gli unici” nel ventaglio di possibilità che i ragazzi di Marozia percepiscono di avere95. Ahmed non vuole sentirsi costretto –

almeno per ora, dice – a scegliere un lavoro che lo assorba completamente e che lo

95 Vi è convergenza anche con il punto di vista di altri giovani (sia maschi che femmine), con cui ho

affrontato l’argomento delle possibilità lavorative. Attilio, un ragazzo italiano, romano, nato e cresciuto a Marozia, passa le sue giornate, dopo aver abbandonato l’istituto superiore, ad aiutare le suore nella fabbricazione di piccoli oggetti artigianali (ad esempio candelabri o calendari decorati); si tratta di un piccolo commercio di beneficenza, che le suore hanno attivato con alcuni negozi non troppo lontani da Marozia. Il ricavato è adoperato dalle missionarie per aiutare le famiglie del posto che hanno più bisogno di supporto, come quella di Attilio. Soffermandomi a parlare con il ragazzo, durante una pausa dal suo lavoro, ne traspare più che scoramento un’acuta dose di rabbia, specialmente quando gli chiedo se abbia degli amici tra i giovani nel comprensorio: «Che ci dovrei fa’ con gli altri ragazzi di qua? Dovrei mettermi a spaccia’ e ad ammazzarmi de canne? Io sto qua e aspetto se qualcosa arriva ... l’ultima volta ho lavorato sempre nell’edilizia, ma lo faccio pure con piacere, solo che ti pigliano per poco, due, tre giornate... poi se sentono che sei di Marozia, non ti danno neanche una giornata [...] Io metto in giro la voce, attraverso persone con cui ho lavorato, che posso fare tutto... vado pure a bussa’ in giro, finché non mi stufo [...] però no, non dico mai che sono di qua, dico che sono di B*** (quartiere vicino)» (13-04-2018). Si ritrova qui lo stesso senso di spaesamento e di impotenza che contraddistinguono la testimonianza di Michele (supra: II.1): «Il lavoro è finito. Chissà come me l’hanno fatto fa’. Io speravo che la ditta me pigliava pe altre cose… ma so’ sempre uno de qua, chi te piglia? Nun ce stava che da tornà sotto “ar bare”» (16-12-2017).

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‘esaurisca’ totalmente. I suoi discorsi ruotano sempre attorno alla ‘fatica’, allo ‘sforzo’, che porta via la vita e, in ultima analisi, la giovinezza, intesa come spensieratezza. Il riferimento al padre, alla generazione precedente, è una costante che si fonde con ragioni condivise anche dai suoi amici romani ‘originari’, per dire così.

Me voglio pote’ diverti’ un altro po’. Fare le cose che mi piacciono, come tutti gli altri, come i ragazzi normali. Questo facciamo col nostro gruppo. La differenza è che fuori da qui (da Marozia) i ragazzi c’hanno certe cose normalmente. Noi ci dobbiamo attrezzare con qualche lavoretto, ma poi pure con gli ‘impicci’. Alla fine, non è vero quello che scrivono sti giornali... almeno per me e gli altri amici miei. Non siamo una banda, come scrivono loro, anche perché qui a Marozia, se glie vogliamo fa’ vedere i criminali veri, hai voglia che ce ne sono qui... ma i giornali nun ce pigliano mica! (Ahmed, 22-05-2018)

Ahmed è stato arrestato altre due volte. La seconda volta che ha trascorso la notte in cella di custodia è stato per una rissa nel centro cittadino.

Non siamo una gang tipo americana, ma c’abbiamo delle regole, questo sì. La prima è che da qui (da Marozia) usciamo in gruppo e torniamo sempre assieme. Mai nessuno indietro. Se c’è un problema per uno di noi, ce lo gestiamo assieme. E poi ci prendiamo il rispetto [...] se qualcuno te guarda storto, per esempio fa il coatto, non c’è storia, si deve partì e dargli addosso [...] La seconda regola è che gli infamelli e gli infami vanno puniti subito. (Ahmed, 13- 05-2018)

Se mi riconoscono che so’ de Marozia è diverso... m’è capitato qualche volta che dei pischelli m’hanno fermato e m’hanno detto «noi lo sappiamo chi sei, tu sei Ahmed, quello de Marozia!». Da un lato me pare esagerato, perché non sono un gangster vero... ma è pure forte, perché se si viene a sapere che sei de Marozia, allora te temono... stanno tutti ‘impanicati’, ma davvero, non dico per dire! Basta che fai uno sguardo e si stanno al posto loro. Un po’ perché è da sempre che si dicono le peggio cose del quartiere, un po’ perché comunque da bambini cresciamo co’ sta cosa che non ti devi tene’ niente... se ce sta ‘na cosa che non va, la devi risolvere subito! Io sono così, se per esempio stanno aggredendo un amico mio in dieci, io parto lo stesso, pure se me la rischio... non ci sta ‘na scelta diversa, sennò sei un infame! (Ahmed, 22-05-2018)

Le narrazioni di Ahmed si concentrano su due motivazioni a lasciarsi andare in risse o ‘spedizioni’ violente: la mancanza di rispetto, legata spesso a questioni di ‘onore’ di quartiere e alle ragazze (se una delle fidanzate viene avvicinata da qualcuno che non si cura dei rapporti di ‘appartenenza’, non si chiedono spiegazioni, ma si agisce subito con violenza), e dal denaro. La spedizione violenta, narrata nell’articolo di giornale di sopra, riguarda il primo livello d’azione, conservare e ribadire il ‘rispetto’, in più è

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motivata, supportata dagli adulti ‘custodi’ di Marozia. Gli “infami” e gli “infamelli” sono coloro che provano a tradire – le due espressioni variano per ‘gravità’ – sia in termini di “spiate” alla polizia, che in termini di furto di denaro al gruppo, il tutto