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PARTE I. PERCORSI TEORICI

I. 2.2 ‘Decivilizzare’ la periferia Lo Stato e i ritiri urbani

I.4 Multidimensionalità della violenza Una breve nota

La ‘violenza’, intesa come dimensione plurima dell’esistenza umana, ha attraversato di certo questa prima parte della tesi, sia ripercorrendo la storia degli studi sulle bande giovanili che tentando di offrire un quadro teorico di riferimento per le successive sezioni etnografiche. La questione di un rischio per l’antropologia di trovarsi ‘fuori contesto’, di perdere cioè la dimensione storica, analizzando la società attraverso la lente della violenza e del suo rapporto con lo Stato, è posta da Fabio Dei (2005: 33) nella sua introduzione ad una raccolta di celebri saggi, sottolineando come «in relazione al contesto contemporaneo, attribuire le cause della violenza e della discriminazione a un fattore così generale come lo Stato non ha molto senso, e non ci pone in grado di distinguere società più o meno violente (al loro interno e nei confronti di altre); né ci consente di valutare, nelle forme “moderne” di gestione del potere, il rapporto e la tensione tra gli aspetti repressivi, da un lato, e dall’altro il riconoscimento dei diritti e della dignità degli individui (ancora una volta, e in varia misura, interni ed esterni)». Dei (ivi: 36) riprende le riflessioni della Arendt (2001 [1969]) per discutere dell’ambiguità violenza/potere: «lontano dal rappresentare la diretta espressione del potere, la violenza “compare dove il potere è scosso” [ivi: 61]. Il potere, scrive la filosofa, fa parte dell’essenza di tutti i governi: non così la violenza, la quale da sola non può mai fondare un potere [ivi: 54-57]». Così, leggere lo Stato come soggetto che tenta – quando non riesce – di accaparrarsi il monopolio della violenza (anziché del potere) ha senso solo in una visione marxiana dello Stato, che si configura «“come strumento di oppressione nelle mani della classe dominante”, cosicché “l’insieme della politica e delle sue leggi e istituzioni [sarebbero] pure e semplici sovrastrutture coercitive, manifestazioni secondarie di altre forze sottostanti” [ivi: 37-38]» (Dei 2005: 37).

Ad ogni modo, attraverso la riflessione di Wacquant (2006, 2008a, 2008b) si è già evidenziato come talune politiche neoliberali producano una inquietante ed iniqua “civilizzazione a zone”, nel senso della produzione sociale di un settore marginale della società, specie urbana, settore che paga il prezzo più alto del crollo del welfare e del trionfo di una società punitiva e del controllo. In tal senso, parte della letteratura

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antropologica tende a riconoscere come la riproduzione di marginalità e iniquità sociali – in un mondo complesso, al di là delle forme statali che si incontrano – sia intrinsecamente legata alla ‘violenza quotidiana’ «di cui le istituzioni sono spesso direttamente responsabili: dall’indifferenza al ritardo delle risposte, dall’intervento arbitrario al controllo spietato di ogni forma di trasgressione, sino all’esclusione attiva dei rappresentanti di [qualsivoglia] nuovo sotto-proletariato […], la cui violenza, il cui habitus aggressivo contiene significati e valori assai più complessi e strategici di quanto gli aggressivi giudizi dell’opinione pubblica o le moralistiche analisi di molti intellettuali non lascino intendere» (Beneduce 2008: 24). Lo stesso Dei (2005: 37), pur annotando una ‘certa’ carenza di dimensione storica nelle analisi di molta antropologia critica, riconosce a Nancy Scheper-Hughes49 il merito di tener vivo il tema di un

continuum della violenza, in pace come in guerra.

Forse non è necessario intitolare alla violenza una branca dell’antropologia per poterne riconoscere il carattere di ‘fatto sociale totale’: in quanto, come mette in rilievo Beneduce (2008: 25) si tratta di una dimensione che coinvolge il versante psichico, individuale, emotivo, storico, relazionale di ciascuno di noi. L’antropologia non può, allora, ignorare che la violenza indirizza processi di ‘soggettivazione’. Cercherò, in questo breve paragrafo conclusivo della prima sezione del mio lavoro, di anticipare alcuni lati di questo prisma analitico, che è la violenza, quando cerchiamo di concettualizzarla. Quando mi sono avvicinato alla porzione di periferia romana dove ho svolto le mie indagini, l’ho fatto perché attratto, “incuriosito”, dal messaggio mediatico di “quartiere di bande criminali”. I giornali locali, cartacei e on-line, come avrò modo di approfondire, descrivevano una sorta di anti-città, un luogo il cui accesso era rischioso per i cittadini ‘normali’. I ricercatori dell’Università di Genova (Queirolo Palmas, Lagomarsino, Cannarella 2009) hanno messo in rilievo considerazioni equivalenti quando hanno approcciato le ‘temute’ bande di latinos che proliferavano, secondo il linguaggio mediatico, ‘conquistando’ il territorio cittadino. Il punto, come mette in rilievo anche Lagomarsino (2009b: 104), è che nei discorsi ‘securitari’, la nostra società si dipinge come una società perfetta, non violenta, accogliente, che rischia però di essere contaminata dalle barbarie: immigrati, stranieri,

49 Nancy Scheper-Huges (2005: 247-302) introduce la nozione di “continuum genocida”, volendo

evidenziare come anche nella quotidianità si possano rinvenire dinamiche da cui può scaturire la violenza di massa: quest’ultima sarebbe semplicemente incardinata nel “senso comune” della vita sociale quotidiana (Scheper-Hughes, Bourgois 2004: 22) e preparata dalle più diffuse istituzioni e sentimenti sociali (Dei 2005: 37).

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gang delle periferie degradate, ecc.. Il nostro è invece un contesto tutt’altro che pacifico, un contesto sociale in cui «la marginalità e l’esclusione sono condizioni che si apprendono, diventano una seconda pelle, si trasformano in condotte e questa è una violenza ancora maggiore» (Reguillo 2000: 17)50.

Il discorso ‘comune’ sulla violenza è solito focalizzarsi su comportamenti che comprendono scontri fisici, coercizioni dirette, tra persone o gruppi, e raramente ci si sofferma su altre espressioni e modi della violenza, meno espliciti ma parimenti o più gravi dei primi. Nel soffermarsi sulla pluridimensionalità della violenza – pur ricordando che le classificazioni sono utili fin tanto che restano ‘aperte’ – Philippe Bourgois (2005) riassume le posizioni della ricerca antropologica e sociale sull’argomento, distinguendo tra: violenza politica, violenza strutturale, violenza simbolica e violenza quotidiana.

a) Per violenza politica si intendono quelle forme di aggressione fisica e di terrore amministrate da autorità locali o da oppositori alle autorità ‘ufficiali’, in nome di una ideologia, un movimento o uno Stato (ne sono esempi la tortura da parte di forze dell’ordine, la repressione per mezzo dell’esercito, la rivolta armata, ecc.).

b) Per violenza strutturale – termine coniato dal ricercatore norvegese Johan Galtung (1969) e quindi ripreso e definito da Bourgois stesso – si intende una forma cronica di oppressione economico-politica, che si accompagna ad una disuguaglianza sociale storicamente radicata, tale da riuscire ad imporre condizioni di sofferenza fisica e psichico-emotiva sugli strati più vulnerabili di una popolazione, così da garantire il dominio di un gruppo sociale privilegiato (si possono leggere in questa chiave le condizioni di sfruttamento economico post-coloniale o neocoloniale, tradotti in accordi commerciali profondamente sbilanciati, o ancora le condizioni di lavoro gravemente rischiose, che non tengono conto dell’integrità psico-fisica della persona, ripercuotendosi sulla salute dei lavoratori stessi, ecc.). È però Farmer (2003) ad imporre, nella letteratura antropologica, l’espressione, mettendone in rilievo il carattere ‘indiretto’ – presente anche in Jamil Salmi (1993) – di tale violenza, che non avrebbe bisogno di uno specifico ‘attore’ per essere esercitata, poiché essa è prodotta dalla società stessa, dalle sue intrinseche disuguaglianze, traducendosi in sofferenza cronica, patologie, miseria, mortalità infantile, abusi di genere, ecc..

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c) Il concetto di violenza simbolica deriva da Bourdieu (1988, 1992): all’opposto della coercizione fisica e normativa, essa è invisibile ma al pari della seconda – o maggiormente – è efficace, poiché costringe i dominati a collaborare attivamente alla loro dominazione. «La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato non può non accordare al dominante (e quindi al dominio) poiché, per pensare il suo rapporto con il dominante, dispone soltanto degli strumenti di conoscenza che ha in comune con lui, i quali, essendo semplicemente forme incorporate dei rapporti di potere esistenti, fanno apparire questo rapporto come naturale» (Bourdieu 2015 [1998]: 45)51. All’origine, Bourdieu in “Sur le pouvoir

symbolique” (1977) parte da un nesso più sfumato tra potere e violenza, esprimendo il

concetto di “potere simbolico”, cioè il «potere di costruire il dato attraverso l’enunciazione, di far vedere e di far credere, di confermare o di trasformare la visione del mondo e, in questo modo, l’azione sul mondo, potere quasi magico che permette di ottenere l’equivalente di ciò che è ottenuto con la forza (fisica o economica), grazie all’effetto specifico di mobilitazione, che si esercita soltanto se è riconosciuto, cioè misconosciuto come arbitrario» (traduzione in Boschetti 2003: 126).

d) La violenza quotidiana si riferisce ad un livello micro-sociale, a pratiche ed esperienze interpersonali, che caratterizzano un piano sommerso e insospettabile della violenza, che pertanto si riformula – come accennato in precedenza – in quel

continuum tra guerra e pace teorizzato da Nancy Scheper-Hughes (2005: 282), che

scrive: «[ho] suggerito che esiste un continuum genocida fatto di un’infinità di “piccole guerre e genocidi invisibili” condotti negli spazi sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie d’ospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non- persone, di mostri o di cose, meccanismo che dà una struttura, un significato e una logica alle quotidiane pratiche della violenza. È fondamentale che riconosciamo nella nostra specie (e in noi stessi) una capacità genocida e che esercitiamo un’ipervigilanza difensiva, un’ipersensibilità nei confronti di atti forse meno evidenti, ma autorizzati e quotidiani di violenza che, in altre condizioni, rendono possibile la partecipazione a

51 Violenza simbolica e dominio simbolico operano attraverso schemi di percezione, valutazione ed

azione, ovvero ciò che Bourdieu, riprendendo la lezione di Mauss (1965), chiama habitus, per cui esulano dal livello cosciente e non sono controllabili con un puro atto di volontà: solo una trasformazione delle condizioni sociali di produzione e delle disposizioni che portano i dominati a percepirsi come tali può provocare una rottura di questo rapporto di complicità (Boudieu 2015: 53).

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genocidi e questo forse più facilmente di quanto ci piacerebbe credere. Includerei tra questi atti tutte le forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione, pseudo-speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso gli altri».

A proposito di quest’ultimo aspetto, come evidenziato da Lagomarsino (2009: 106) la violenza quotidiana può cristallizzarsi nella già citata “cultura del terrore” (Taussig 1984), un senso comune che rischia di ‘normalizzare’ la violenza tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica.

Tali dispositivi teorici che riprendono, multidimensionalmente, il concetto di violenza, sono utili se ci permettono di interrogare quelle etnografie in cui la narrazione della violenza non è una mera ostentazione di situazioni limite o spettacolari – rischiando di scadere in quella “pornografia della violenza” denunciata da Bourgois (2005) – ma rappresenta un tratto permanete di un mondo morale locale52. In precedenza, ho

accennato all’interesse dell’antropologia nell’approcciare la violenza, quando si accorge di come essa indirizzi processi di soggettivazione. Un esempio chiarificatore può essere la questione della costruzione sociale del genere, specie della mascolinità, declinata nei suoi rapporti con la violenza stessa. Si consideri che gran parte dei miei interlocutori, protagonisti delle storie urbane che mi accingo a riportare, sono giovani maschi in transizione – più o meno agevole o più o meno bloccata – dall’adolescenza all’età adulta. Le bande giovanili, o le organizzazioni di strada, o i gruppi giovanili di quartieri marginali – al di là di come si voglia ‘restituirli’ nella descrizione etnografica – sono ‘luoghi’ di socializzazione secondaria, in cui l’autorità del gruppo, attraverso la figura del capo ad esempio, si sostituisce spesso all’azione pedagogica della famiglia o della scuola. Come evidenziato da Aiwa Ong, tali nuove autorità e ruoli si impongono – anche – attraverso un uso sistematico e spettacolare della violenza, pur se la figura del leader risulta essere più orientata «alla formazione dell’identità che alla violenza, sebbene a volte si [debba] ricorrere alla seconda per formare la prima» (2005: 282). Il nesso virilità-violenza, così come i dispositivi concettuali e analitici di violenza simbolica (Bourdieu 2015 [1998]) e violenza quotidiana (Scheper-Hughes 2005) possono aiutare a districarsi nella comprensione di complicati rapporti di potere e

52 Uso l’espressione in riferimento all’approccio narrativo adottato da Arthur e Joan Kleinman (1991),

per descrivere quei “mondi” che segnano le «vicende sociali quotidiane» dei soggetti coinvolti in una ricerca, cercando di tenere da conto ciò che è «“praticamente” in ballo» per loro (in Quaranta 2006: XXIII).

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logiche della strada, che fanno da sfondo alle narrazioni dei giovani ‘gangster’, protagonisti di questa tesi.

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