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PARTE II. ITALIA: R-ESISTENZE DALLA PERIFERIA ROMANA

II.2 Marozia: la città nascosta

II.2.2 Resilienza locale, stratificazione sociale e disagio diffuso

È bene ritornare un attimo allo sviluppo di Marozia come comunità resistente e fondata su una doppia violenza originaria. Dalla testimonianza di Viola, emerge anche che Marozia è stata ‘scelta’ da molti per trasferirsi da altre occupazioni o assegnazioni ‘emergenziali’, e che questa migrazione intra-urbana avrebbe trascinato con sé “tutti i mali” o “le peggio cose”, come ho sentito dire più volte, quali criminalità, violenza, soprusi, droga, iniquità, precarietà. Nelle narrazioni di molti interlocutori sopra i

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quarant’anni, tutto questo “scarto” sociale è stato traslato e concentrato nel comprensorio di Marozia a partire dalla fine degli anni Ottanta. Ma la comunità che si è formata e che si considera oggi “originaria”, il nerbo morale di Marozia, non ha resistito solo a quella fase di ‘caos primordiale’. Essa si riconosce originaria non solo per una ‘disperata’ scelta iniziale, ma anche per aver reiterato con consapevolezza assoluta la scelta di rimanere, quando si è concretizzata la possibilità di andare altrove – per molti – grazie all’assegnazione di vere e proprie abitazioni popolari, che avrebbero significato abbandonare gli alloggi ‘temporanei’, cioè inadatti alla vita di una famiglia protratta nel tempo, insufficienti per spazio, servizi e condizioni igieniche. Perché quel rifiuto da parte di molti?

Per comprenderlo bisogna ritornare ai primi anni del 2000: gli abitanti di Marozia sono inseriti nelle liste per l’assegnazione di nuove case popolari. Più di duecento di loro (su una popolazione che si stimava già sui 1400 residenti) vengono chiamati a una scelta: le nuove case sono lontane da Roma, per lo più a Santa Palomba, Cerveteri, Dragoncello, Aprilia, Anzio, Nettuno, Finocchio. Qualcuno accetta, ma si tratta solo di una metà all’incirca degli interpellati.

A me era toccata Santa Palomba, non ci stava niente lì all’epoca. Come potevo permettermi di arrangiare qualcosa? Come potevo campare? Io qui mi facevo le mie cose, le pulizie … da qualche signora a Roma… pure se dovevo pigliare tre autobus e camminare quattro chilometri… qui ero sempre a Roma. (Ornella, 8- 02-2018)

La casa che mi avevano dato là, sì, sarebbe stata mia, assegnata con i documenti apposto, ma era comunque piccola, perché avevano fatto un impiccio, era di 40 metri quadri… io stavo con mia madre, due sorelle, un fratello, mio padre a volte, quanno nun stava a Rebibbia, mio zio e mia nonna, che era malata… e ando’ la spostavamo? Qua ci avevamo ormai i dottori, pure qualche parente che ogni tanto ci dava ‘na mano! (Vittorio, 17-03-2018).

Ce sta pure chi è voluto rimane’ perché c’aveva i giri suoi… qua si poteva fa’ le sue cose … lo spaccio, i furtarelli … fuori! Quelli fuori (ride) … ma c’hai Roma di fronte… è ‘na risorsa, no? (Gustavo, 25-02-2018)

Chi lavora con una certa regolarità, pur arrangiandosi, ma non ha grandi introiti, non può permettersi di lasciare la capitale; altri non possono perdere una seppur minima rete di solidarietà e di sostegno sociale, rappresentata da conoscenti, amici o parenti; altri, sia che navighino nel mercato sommerso o che siano dediti ad attività illegali e di

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piccola criminalità, non possono allontanarsi parimenti dall’ambiente metropolitano. Il tutto è aggravato per le famiglie che hanno parenti disabili o malati. Conversazioni con le associazioni di volontariato locale, ma anche con altri ricercatori che si occupano dell’aspetto sociosanitario di Marozia, e non da ultimo le testimonianze dei miei interlocutori che la abitano, hanno fatto emergere una situazione estremamente complessa: sono molti i casi di disabilità mentale, tossicodipendenze aggravate da una forte percentuali di malati di HIV/AIDS, innumerevoli le condizioni di cronicità come diabete e malattie cardiache e l’elenco potrebbe continuare di molto. Il punto è che non tutti gli spostamenti, verso case ‘nuove’, lontano della metropoli, sono facilmente praticabili, ma non c’è solo l’aspetto dell’opportunità sociale o dell’impossibilità ‘materiale’ dovuta a condizioni di estremo disagio.

In parte similmente alle analisi di Amalia Signorelli (1996: 123-124) sulla borgata romana di Pietralata, si assiste qui alla formazione di una polarizzazione identitaria. Per tutti gli anni Novanta, a Marozia è un susseguirsi di occupazioni. All’inizio degli anni Duemila, lo status di molti occupanti è mutato: pur nell’emergenza, essi risultano “alloggiati temporaneamente” in attesa di assegnazione di una casa popolare, che rappresenterebbe un ulteriore terzo passaggio di status verso una cittadinanza urbana ‘normalizzata’. Il rifiuto da parte di alcuni di ‘subire’ un allontanamento radicale dalla città produce i suoi effetti nella percezione identitaria e di una cittadinanza ‘altra’: la «città era indispensabile alla sopravvivenza della borgata. Ma, nei fatti, in città ci si “andava a cercare lavoro, cibo, soldi”, “non ci si restava” come soggetti integrati nella città stessa»64, scrive la Signorelli (1996: 124), aggiungendo che in tali casi «il rapporto con la città [è] tanto necessario quanto precario»; la città, intesa come “città vera”, “città normale”, “centro”, è necessaria e gli abitanti di Marozia la frequentano, pur percependosi spesso degli ‘occupanti’ temporanei, tollerati oppure temuti, «permanentemente esposti al rischio di essere di nuovo espulsi»:

Ce volevano mandare confinati. Pure perché qua doveva veni’ altra gente, si potevano fa’ nuovi affari… ma nun è che ce davano una soluzione, o te ne andavi o ti arrangiavi... Eravamo cittadini, ma no come loro! (Gustavo, 25-02- 2018)

Il “centro” cittadino è il luogo delle politiche; dal centro quelle politiche hanno sempre tentato di scalzare i maroziani della prima ora: come detto, molti di loro, prima di

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giungere qui, provenivano da altri alloggi ‘emergenziali’, altri luoghi marginalizzati e criminalizzati, come il famigerato “Roma”65, l’“hotel dei poveri”, il cui nome era

specchio deformante di una cittadinanza, la loro, avvertita come “difettosa” e incompleta. A differenza degli studi della Signorelli su Pietralata66, qui, in un luogo isolato e nascosto dallo sguardo degli abitanti del centro, i maroziani ci “sono venuti” da soli, nel senso che la loro scelta si è limitata all’elezione del luogo da occupare (quando non è stata indicata da eventuali movimenti per la casa, ma senza che ciò si traducesse nel progetto di una comunità occupante integrata e organizzata). Come per i primi residenti di Pietralata che, durante la dittatura fascista, erano categorie di cittadini “respinti” dalla città, di cui però non potevano continuare a fare a meno, questo rapporto con la città “normale”, «tanto necessario quanto precario» produce – in coloro che scelgono poi di rimanere a Marozia e di non lasciarsi “deportare” – un primo nucleo di identità collettiva forte: «di un “noi” che è anche un “qui”, opposto a un “loro” che è anche fuori di qui. Poiché il “noi” si è costituito nel corso di un evento-nello-spazio […] il “noi” e il “loro” si sono costituiti come oggetti-sociali- nello-spazio: l’“altro” sociale è sempre anche in un “altrove” spaziale» (Signorelli 1996: 123).

Le similitudini con lo storico caso di Pietralata a mio parere si fermano qui. Così per Marozia si apre – dopo la sua ‘fondazione’ – una seconda stagione piena di eventi e contraddizioni. Siamo all’inizio degli anni Duemila, chi resta deve far fronte ad alcuni ostacoli nuovi: in primo luogo si vede reiterare una dose di discriminazione e disinteresse da parte delle istituzioni comunali, ora legittimate – dopo il rifiuto di molti al trasferimento – ad incolpare e criminalizzare la comunità ‘residuale’.

Da un altro lato, tale comunità si va rafforzando non solo come identità locale, un noi di “qui”, contro un loro “fuori di qui”, ma anche resiliente: nel significato originale del termine, nella sua valenza di resistenza ai colpi che vengono dall’esterno, dalle aggressioni, dalle delusioni, dall’indifferenza, ecc..

Nel 2004, infatti, l’allora sindaco di sinistra, Walter Veltroni (forse il sindaco maggiormente criticato per essersi, in quanto istituzione, ‘ritirato’ volontariamente

65 Supra: II.2.1, nota 59.

66 La borgata di Pietralata nasceva come deportazione di una porzione di cittadini indigenti dal centro

storico romano verso un nuovo complesso di case, in realtà baracche, separate da molti chilometri dall’area urbanizzata e nascoste visivamente anche al passante, perché tirate su nel 1936 in una cava abbandonata, al km 6 della Tiburtina, molto al di sotto del livello della strada principale (Signorelli 1996: 125). Sul tema dei “baraccati”, cfr. Salsano 2008, cit. anche in Vereni 2015a.

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dalle periferie67), dichiara ai giornali e alle TV che avrebbe dato via ad una serie di sgomberi mirati, per il recupero di località “critiche e degradate”, tra cui Marozia, che nel frattempo aveva visto crescere il numero di nuovi soggetti, in parte ‘occupanti’, ma presto anche ‘alloggiati’ dal Comune. Coloro che hanno lasciato le case per gli alloggi popolari fuori città lasciano – di fatto – un vuoto che viene presto colmato, specialmente da immigrati stranieri e da una comunità rom. I maroziani ‘originari’ non contano più su un trasferimento, avendo optato per restare, ma trovano un dialogo con le istituzioni comunali nella speranza di ottenere un “allargamento”, vale a dire di poter vedere riconosciuto il diritto a risiedere – anche se sulla carta il loro alloggio rimane un’assegnazione emergenziale ‘temporanea’ – a Marozia, ma fondendo l’unità abitativa occupata con quella vicina (quando sgombera). Mentre da un lato si negozia su questo punto, il gruppo ‘storico’ dei residenti, attraverso eclatanti proteste, anche violente, riesce ad ottenere lo sgombero di una parte di “intrusi”:

C’era ‘na famiglia de zingari che aveva occupato tutto il piano terra della palazzina A, quella che sta messa peggio. C’era de tutto, sporcizia, rottami, fetore, scarti de fogna, roba rubata e bruciata … il Comune li ha mandati via, ma poi che ha fatto? Ha visto che ce stava da lavora’, da spendere per risistemare e allora ha murato tutto! Tutto er piano, co tutta la merda dentro! Un intero piano! Ah, ma poi ce lo siamo ripresi! (Nino, 03-04-2018).

La comparsa delle istituzioni si materializza in questi anni attraverso irruzioni plateali. Marozia è un’ottima cassa di risonanza per le politiche di una dirigenza locale, che si dice progressista ma che mostra al suo ‘centro’ elettivo ed elettorale – la città come spazio pubblico della proprietà privata, delle ‘case’ e dei beni di chi lavora e produce –

67 Il che è storicamente in linea con l’evoluzione della sinistra italiana e la sua svolta neoliberale nella

gestione delle politiche economiche e nella governance degli enti locali (come oggi è ‘di moda’ dire). La differenza principale tra Marozia e la Pietralata degli anni Sessanta-Settanta è proprio nel cambio epocale della sinistra italiana e del suo rapporto col territorio. Si ha il distacco dei partiti che un tempo raccoglievano in periferia e in borgata la base sociale, non solo come bacino di voti, ma come militanza finalizzata localmente, cioè creatrice di ricadute identitarie e di conquiste sociali spendibili sullo stesso territorio: il PCI seppe amministrare il dissenso che si raccoglieva nelle borgate marginali, valorizzando un capitale simbolico che lì si era accumulato (Signorelli 1996: 132), per trasformarlo in esercizio di cittadinanza creativa, grazie alle lotte per il diritto alla casa, con le quali le borgate “entrarono di nuovo” nella storia. «Al di sopra di tutti i valori, il valore supremo [era] il partito, l’entità che ha permesso che tutto questo si realizzasse [e alla “devozione” verso il quale si aggiungeva] un senso molto forte della propria identità collettiva» (ibid.). Il citato lavoro di Signorelli, d’altro canto, concentrandosi solo sul ruolo svolto dal PCI, offre un quadro parziale della nascita dei movimenti per l’abitare nel secondo dopoguerra. Armati (2015: 179-181) li pone in diretta continuità con la Resistenza, in particolare nella capitale, laddove si ha la trasformazione di differenti Comitati di liberazione nazionale in “Centri rionali di liberazione nazionale” e, poi, in “Consulte popolari”. L’argomento è ripreso da Vereni (2015b: 138- 139), il quale ricorda come «una storia dettagliata delle sigle che nel secondo dopoguerra si sono occupate del diritto alla casa [...] è ancora in parte da scrivere e, proprio per le sue caratteristiche originarie, si intreccia con la più vasta storia della lotta politica extraparlamentare». Sull’argomento, cit. in Vereni 2015b, cfr. Mudu 2014 e Armati 2010.

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la capacità di saperla proteggere, intervenendo ‘forte’, sgombrando, cementando spazi di “criticità urbana”, come rimbalza sui media.

Se venivano a ruba’ i citofoni, i portoni, i motori degli ascensori … Vabbé che pure mo gli zingari … quelli del campo … no quelli de qua, quelli so’ zingari napoletani… quegli altri, quelli del campo, se possono vengono a fa’ danni, o se ne stanno là e ci avvelenano. Mo infatti noi “vecchi” stiamo cercando di ferma’ sta cosa dei roghi tossici… ma nessuno ce ascolta! (Gino, 25-01-2018)

In questa testimonianza si sovrappongono diversi momenti: la cacciata di alcuni “zingari”, occupanti ‘illegali’ delle abitazioni di chi si è trasferito alle case popolari, e gli attuali roghi tossici, che mentre conduco le interviste sono una delle emergenze maggiormente avvertite dalla popolazione locale. Si tratta di fumi derivati dall’incendio volontario di plastiche per ricavare, ad esempio, il rame dai cavi elettrici o dai rifiuti elettronici; i roghi provengono da un campo rom, distante poco più di un chilometro dalla collina di Marozia. Nella testimonianza si parla, inoltre, di un altro soggetto ‘alieno’, ma residente nel comprensorio: un’altra comunità rom di origine napoletana, molto numerosa, trasferitasi dalle baracche lungo il Tevere negli appartamenti resisi liberi; i rom napoletani sono giunti qui in forma ‘regolare’, vale a dire che hanno accettato la proposta del Comune di trasferirsi a Marozia.

I. Quelli so’ diversi da noi (romani e primi ‘occupanti’). Ce sta la cricca dei giovani che fanno i danni seri. Li teniamo d’occhio ma sanno che devono farli fuori di qui i danni. Se si fanno i cazzi loro va bene… ma se li devono fare bene i cazzi loro… non come facevano appena arrivati. Si mettevano giù con le roulotte e affittavano agli africani le case che il Comune gli aveva dato nella palazzina là… ci venivano a specula’? Poi abbiamo risolto. R. Che vuol dire che avete risolto?

I. Abbiamo fatto da soli, come se fa sempre. Ci siamo fatti rispettare e non con le buone. Non è che questi vengono e fanno come cazzo gli pare. Qua c’è gente che ha fatto le occupazioni, c’è chi nun ha fatto manco un giorno di occupazione e ha comprato l’entrata, e chi come loro ha avuto la casa qui dal Comune perché se li so’ levati dalle palle giù al centro. Mo ce ne sta qualcuno buono, che ha capito. Ma so’ così … però qualcuno buono c’è.

(Intervista con Umberto, 21-02-2018)

Tornerò su questa comunità di residenti rom, con i quali, dopo un primo momento di sospettosa diffidenza, sono riuscito a dialogare proprio grazie al nostro comune dialetto, il napoletano, appunto. Questa comunità ‘deve’ essere da un lato tollerata dai residenti “romani”, perché è qui ‘regolarmente’, cioè i rom napoletani sono stati messi

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lì dalle istituzioni, le stesse istituzioni (polizia, distretto, municipalità) che però vengono ora deprecate ed ora invocate, ad esempio dinanzi a casi eclatanti, come soggetti risolutori:

Noi ci facciamo senti’ (dal distretto, dal Comune), stiamo a chiedere, ma quando le cose si fanno gravi, poi ce la sbrighiamo da soli. Glielo avevamo detto a quelli del distretto come si stavano a comporta’, ma non hanno fatto carte. Sai quante volte ci hanno voltato le spalle? (Ibid.)

Una fetta dei primi residenti si va distinguendo ancora di più tra i maroziani originari, proprio per mezzo dell’uso di una violenza difensiva. Questo ha, ovviamente, un peso anche nella gestione degli allargamenti degli spazi occupati.

Nei primi anni 2000, dunque, la stratificazione sociale diventa molto più varia. Il Comune di Roma assegna qualche casa del comprensorio, sempre come situazione emergenziale transitoria, mentre molti altri soggetti – definiti durante le interviste “non proprio poveri” – acquistano il diritto a entrare in abitazioni lasciate da precedenti occupanti, cioè fanno ricorso al mercato nero degli alloggi: si tratta anche di piccoli commercianti, impiegati, dipendenti di minute realtà manifatturiere o della ristorazione, tutti lavoratori della metropoli.

È in questo contesto, ad esempio, che giunge a Marozia Gustavo. Lo incontro dietro ai “giardinetti” (due grandi aiuole), alle spalle degli edifici acquistati, ora, dalla chiesa evangelica peruviana. Ci scambiamo qualche parola e mi racconta del suo vecchio lavoro:

Lavoravo in una piccola tipografia che stampava [un celebre quotidiano comunista], mai avrei pensato che sarei finito qua… ma mi ci sono trovato quando la stamperia ha chiuso. Ho speso la liquidazione per entrare. Che dovevo fare? Sono vedovo e c’avevo solo mia figlia, che non lavorava, faceva le medie […] Io vengo qui per dormire. Mi arrangio a Roma, torno qui e mi faccio i fatti miei. Mia figlia ora lavora, ma pure lei qui ci stava solo per dormire e studiare a casa. Continuo a farmi i fatti miei qui. Non conosco nessuno. […] Con quelli che organizzano, con quei traffichini (si riferisce ad alcuni vecchi occupanti) non ci parlo. So che non c’hanno una bella storia alle spalle. Sono una mafietta di qua. Hanno fatto le cose loro e continuano a farle. Guarda gli allargamenti … c’è gente che qui vive in otto in venticinque metri quadri e una sola persona c’ha invece tutto il piano di una palazzina. (Gustavo, 13-03-2018)

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Altro punto di svolta, infatti, nella stratificazione sociale e nella distribuzione di potere e ‘cittadinanza’ locale – se mi è concesso definirla così – è legato alla questione degli “allargamenti”. Inizialmente le istituzioni, in primis il dipartimento territoriale per le politiche abitative, vogliono gestire la procedura di censimento degli alloggi e progettazione dell’espansione della cubatura degli appartamenti, per poi dare il via ai lavori. Si tratta di individuare chi ha diritto a vedersi riconosciuto un allargamento del proprio appartamento, fondendolo con quello vicino, laddove esso sia stato liberato. Il dipartimento territoriale ad un certo punto ‘getta la spugna’. Un po’ come quando è stato murato l’intero piano di una palazzina, dopo lo sgombero, perché considerato ‘irrecuperabile’. Le istituzioni politiche liquidano la questione con un laconico: “fate voi”, “organizzatevi, poi registreremo le abitazioni”. Molte storie ho ascoltato a tal riguardo e molte convergono su un punto: chi ha avuto una posizione forte – non tutti i vecchi residenti ma i più abili tra questi in termini coercitivi – ha gestito il riordino e ottenuto il meglio dall’allargamento delle abitazioni. L’intero piano, occupato da una persona sola, si riferisce all’abitazione di Erminia ‘la Furba’, una donna considerata da molti – inclusi i giornali di cronaca – una “capobanda”, o meglio una ex-capobanda locale. Erminia, meno che ventenne è arrivata a Marozia all’epoca delle prime occupazioni; nel giro di poco tempo, con il suo compagno mette su – si legge sui giornali, ancora rinvenibili, sia cartacei che online – un racket di droga molto consistente. Il giro parte da Marozia ma investe ovviamente tutta la città, sempre secondo le fonti giornalistiche. Fatto interessante, la capobanda riesce sempre ad evitare il carcere grazie a quattro gravidanze consecutive, proprio come accade in un celebre film degli anni Sessanta68. Ho raccolto tantissimi racconti, ai margini delle interviste, su Erminia e il gruppo che gravitava attorno a lei. Oltre che di lei, molti informatori parlano ricorrentemente di altri soggetti capaci di gestire e indirizzare direttamente la violenza all’interno del comprensorio, per assumere posizioni di privilegio, specialmente in termini di spazi abitabili.

La connivenza delle istituzioni, forse dettata anch’essa dal timore del singolo ufficiale municipale che avrebbe dovuto presiedere al processo di ridistribuzione degli spazi, è comunque un aggravante considerevole nel deterioramento dei rapporti tra il pubblico (l’autorità regolatrice) e gli abitanti di Marozia, specie i più vulnerabili. Gli stessi soggetti forti però, coloro che materialmente sono stati coinvolti in un uso

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discriminatorio degli spazi da “allargare”, cominciano sempre più ad esercitare una retorica aggressiva verso le istituzioni locali – le stesse che hanno lasciato loro spazio di manovra – ma cominciano anche a porsi come ‘alternativa’ alle istituzioni ‘esterne’. I forti adottano progressivamente la retorica dei ‘custodi’. La critica alle istituzione, da parte degli ‘occupanti forti’, si materializza sempre più in restituzioni ai deboli, non