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PARTE I. PERCORSI TEORICI

I.2 La centralità delle periferie

I.2.1 Il mondo e gli slums

Già nel 2003, il rapporto UN-Habitat dal titolo La sfida degli slum diffondeva dati allarmanti sulla diffusione delle baraccopoli nel mondo. Si tratta di un rapporto cupo e rappresenta la prima analisi approfondita e veramente globale sulla povertà urbana che, rompendo la tradizionale cautela dell’Onu, accusa apertamente il neoliberismo e, soprattutto, i programmi di aggiustamento strutturale (SAPs)14 del Fondo Monetario

Internazionale (Breman 2006: 142). Scrive Mike Davis nel suo lavoro “Planet of

slums” (2006: 174): «Il brusco movimento tettonico della globalizzazione neoliberale

cominciato nel 1978 è analogo al processo catastrofico che ha modellato un “Terzo Mondo” in primo luogo durante l’era dell’imperialismo tardo-vittoriano (1870-1900). Alla fine del diciannovesimo secolo, l’immissione forzata nel mercato mondiale delle grandi masse contadine dell’Asia e dell’Africa, fino ad allora al livello di sussistenza, comportò la morte per carestia di milioni di persone e lo sradicamento di decine di milioni dai più tradizionali lavori. Il risultato finale (anche in America Latina) fu la

14 (Structural Adjustment Programs - SAPs). In italiano la sigla che li definisce è PAS, appunto “piani

di aggiustamento strutturale”, politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale delle cosiddette ‘condizionalità’, presupposti da soddisfare per ottenere nuovi finanziamenti o tassi d’interesse inferiori su quelli già in atto. Le condizionalità sono stabilite per assicurare che il prestito sarà speso conformemente agli obiettivi globali del finanziamento. I SAPs sarebbero stati creati con l’obiettivo di ridurre squilibri fiscali, per promuovere la crescita economica del paese debitore, perché possa generare reddito e ripagare i debiti accumulati. I programmi di aggiustamento strutturale sostengono e potenziano in genere politiche di libero mercato, portando da un lato a privatizzazioni e deregolamentazioni, da un altro alla riduzione delle barriere commerciali. I paesi che falliscono nell’eseguire i piani di aggiustamento possono essere assoggettati ad una severa disciplina fiscale.

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“semi-proletarizzazione” rurale, dove si è formata un’enorme classe globale di semi- contadini immiseriti e lavoratori agricoli privi di ogni certezza di sussistenza»15. Secondo l’autore, l’origine di un’urbanizzazione violenta, foriera di sofferenze e diseguaglianze sociali sta proprio nella cieca volontà di dirigere, attraverso gli aggiustamenti strutturali (SAPs), le sorti dei paesi in via di sviluppo. L’urbanizzazione senza crescita del Sud del mondo sarebbe, dunque, una dura eredità di una congiuntura politica globale: la crisi debitoria mondiale dei tardi anni Settanta e la conseguente ristrutturazione, a guida del Fondo Monetario Internazionale, delle economie di questi paesi negli anni Ottanta. L’urbanizzazione del Terzo Mondo ha stabilito dei tassi di crescita incontrollabili (il 3,8% dal 1960 al 1993), nonostante la caduta dei salari reali, l’aumento generalizzato dei prezzi e una disoccupazione urbana cronica e dal tasso elevatissimo. Sempre secondo Davis si tratta di un “boom urbano” che ha colto di sorpresa tutti gli analisti dell’epoca, messi dinanzi al paradosso africano: «come facevano città della Costa d’Avorio, della Tanzania, del Congo-Kishasa, del Gabon, dell’Angola, e di altri paesi – dove le economie si andavano contraendo a un tasso tra il due e il cinque percento l’anno – a sostenere una crescita di popolazione annua tra il quattro e l’otto percento? […] come ha potuto l’Africa nel suo insieme, attualmente in un’epoca di occupazione urbana stagnante e di produttività agricola ferma, sostenere un tasso di urbanizzazione annuo (dal 3,5 al 4,0 percento) considerevolmente più alto della media di quasi tutte le città europee (2,1 percento) all’apice degli anni della crescita vittoriana?» (2006: 21; trad. italiana). La risposta in buona parte starebbe nel fatto che le politiche di “deregolazione” agricola e di disciplina finanziaria del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale avrebbero continuato a produrre un surplus di manodopera rurale destinata a migrare verso gli slum urbani, nel momento in cui le città cessavano di essere produttrici di posti di lavoro.

Dalle pagine del New Left Review, rileggendo le analisi di Davis, ancora più critico l’antropologo Jan Breman commenta (2006: 143)16: «[la] combinazione di mancanza

di lavoro e di salari bassissimi fa sì che questa fanteria marciante dell’economia globale sia priva dei mezzi di sussistenza basilari […] Sempre più spesso gli odierni

slum si formano ai margini dei centri urbani, in una vasta cintura in cui le zone urbane

gradualmente cedono il passo alla campagna circostante. Questo particolare paesaggio è rinvenibile anche in Europa orientale, dove il Secondo Mondo si è dissolto nel

15 Traduzione mia. 16 Traduzione mia.

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Terzo, a condizione che l’eclissi dei “paesi post-capitalistici” non abbia già svuotato di significato il concetto di Terzo Mondo». Ma il discorso può andare ben oltre.

Nel suo recente lavoro dal titolo “La domanda abitativa dimenticata: gli slums a Roma”, Giulia Agostini rilancia il problema nella piena coscienza del cittadino del terzo millennio che abita le ‘nostre’ metropoli del ‘Primo Mondo’. Dopo aver riconsiderato, con dati aggiornati (UN-Habitat 2012), che il 31,6% della popolazione urbana del pianeta vive in slum, che quasi un residente urbano su tre è costretto a vivere in una situazione abitativa inadeguata, l’autrice riafferma che gli slum non possono più essere considerati parti marginalizzate delle città. Da un lato, specialmente nei paesi in via di sviluppo, gli slum sono diventati la tipologia prevalente di insediamento abitativo e solo in Africa Sub-Sahariana il 61,7% della popolazione urbana vive in tali ambienti (UN-Habitat 2012); da un altro lato la formazione di questi luoghi, manifestazione spaziale e fisica della povertà urbana e delle disuguaglianze all’interno delle città, è dovuta alla mancanza di soluzioni abitative a basso costo per le fasce più deboli della popolazione. In Italia la crisi abitativa è particolarmente grave a Roma, dove coinvolge circa 40.000 famiglie, più o meno 100.000 persone tra immigrati, famiglie sotto sfratto, famiglie a basso reddito, giovani precari ed anziani, ormai esclusi dal mercato dell’acquisto e dell’affitto di una casa (Agostini 2013; Caudo, Sebastianelli 2007); «un censimento del Comune di Roma del Settembre 2009 ha contato almeno 240 insediamenti informali: giacigli, case occupate, baracche, piccole tendopoli sulle rive dei fiumi Tevere e Aniene, occupati da almeno 4.000 persone. […] Non esistono dati ufficiali su queste “abitazioni informali”, tuttavia secondo le associazioni umanitarie (MEDU 2012, Comunità di Sant’Egidio 2011, Caritas 2010 e 2011) con grande probabilità sono molto più di 4.000 le persone che vi abitano» (Agostini 2013: 2). In realtà, altri studi parlano di oltre 10.000 persone solo nelle occupazioni abitative (de Finis, Di Noto 2018).

Riportato davanti ai nostri occhi tale fenomeno, diviene più che mai difficile trovare una definizione universalmente valida di slum, che tenga conto dei diversi contesti locali e sociali, delle differenze topografiche e delle diverse variabili storico-politiche, ma che ne riassuma al tempo stesso le caratteristiche principali. La parola, di per sé porta ancora lo spettro di quell’Inghilterra vittoriana già evocata da Davis, dove comparve per la prima volta per indicare gli «alloggi di bassa qualità e con condizioni di vita malsane», quelle zone della città in cui erano praticate attività marginali e per la

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maggior parte criminose (UN-Habitat 2003): è lo stesso rapporto Onu citato in apertura del paragrafo a mettere in primo piano la realtà materiale degli slum anziché gli aspetti socioeconomici. Esso definisce come slum un insediamento sovrappopolato, un agglomerato di abitazioni povere e abusive, prive di acqua potabile, servizi igienici, fogne, strade e depositi per i rifiuti, in cui è scarsa la qualità strutturale dell’abitazione, che spesso non permette un’adeguata protezione da condizioni climatiche estreme, dove lo spazio vitale è al di sotto di una ‘sufficienza’, stabilita in un massimo tre persone per stanza, e dove è assolutamente, o forse inizialmente assente, il titolo legale di godimento dell’abitazione.

A Roma, Agostini (2013: 11) si è trovata dinanzi a realtà urbane definite di volta in volta informali, precarie, abusive, ecc., che rispondevano parzialmente ai criteri elencati dal rapporto UN-Habitat. L’autrice adotta come criterio principale per classificare gli slum romani lo spontaneismo e, quindi, «la volontà di creare un insediamento informale da parte di chi non ha altre soluzioni abitative. Da questo punto di vista i “campi” Rom regolari risultano essere una problematica diversa rispetto agli slums. Infatti “i rom sono la minoranza etnica più discriminata d’Europa” (Scandurra 2009: 161) e sono vittime di “politiche abitative discriminatorie e ghettizzanti che culminano nell’invenzione dei campi ‘sosta’ […] ghetti etnici nei quali dilagano tutte le patologie dell’esclusione e dell’emarginazione” (162). I rom non scelgono di vivere nei campi ma sono costretti a farlo, c’è quindi una differenza fondamentale tra gli insediamenti informali spontanei ed i “campi rom”: la mancanza di scelta».

La possibilità di scegliere una “carriera abitativa” (Manzoni 2013) da parte di strati marginali della società urbana tornerà in relazione al mio lavoro sul campo nella capitale, dove mi sono mosso su uno dei luoghi dell’emergenza abitativa romana, un insediamento ‘occupato’, divenuto col tempo insediamento ‘temporaneo’, ad oggi da circa vent’anni. Questa anticipazione mi serve per porre al lettore una domanda: come per la categoria di gang, quelle di slum, banlieu, ghetto, sobborgo o quartiere disagiato sono davvero utili ad orientare i nostri discorsi verso una comprensione di fenomeni complessi (vicini e locali quanto globali e trasversali), o servono piuttosto a ‘esotizzare’ un mondo che, definendolo, vogliamo in realtà tenere lontano, appunto ai margini? Sarà il caso, allora, di chiarire che il concetto di slum va inteso in maniera estensiva, così come il concetto di quartiere marginale o di periferia verrà di volta

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relativizzato e contestualizzato nel corso della ricerca. Che si tratti di uno slum, di una baraccopoli o di uno spazio occupato, o ancora di un ghetto ‘etnico’ creato da politiche locali discriminatorie, da un punto di vista delle dinamiche socio-spaziali, quali sono le domande principali che possono aiutarci a comprenderlo?

Ancora una volta è Davis (2008) a spianarci la strada. Una delle domande da cui poter partire potrebbe essere “Di cosa vivono gli abitanti degli slum?”. Davis ne parla analizzando le condizioni e i rapporti nell’“economia informale” (Davis 2006: 178- 190), cioè una varietà di “forme di vita economica” (Pavanello 2000) che coinvolge quattro quinti della forza lavoro mondiale. L’espressione è stata coniata all’inizio degli anni Settanta per indicare quei contadini che si riversano in massa nelle città e che, non trovando lavoro nelle fabbriche o in realtà ‘regolari’ del mercato urbano, si guadagnano da vivere con lavori precari, non specializzati e mal retribuiti, privi di qualunque forma di sicurezza o protezione sociale (Breman 2006: 145-146). Questi lavoratori possono al più ottenere occupazioni occasionali, sia come lavoratori salariati che autonomi; questa forza-lavoro fragile si diffonde in tutti i settori dell’economia: dall’industria all’artigianato, dal piccolo commercio ai trasporti, dalle costruzioni ai servizi. A volte sono gli stessi lavoratori ‘sommersi’ a possedere i mezzi di produzione, altre volte questi appartengono ai datori di lavoro o sono addirittura presi in fitto da ‘terzi’. Davis (2006: 179) è molto critico verso coloro – specie economisti – che hanno provato addirittura a lodare tale forma di auto-sostentamento come la migliore strategia per la riduzione della povertà, chiamando questi sostenitori «apostoli dell’auto-aiuto e degli interventi su scala delle ONG», mentre Breman (2006: 146) li definisce «apostoli del fondamentalismo del mercato»17. Davis non si scaglia contro le ONG di per sé, ma contro la rinuncia da parte dello Stato di intervenire sugli ‘effetti iatrogeni’ delle riforme strutturali, sul ruolo – in definitiva – che gli stati dovrebbero porsi nel mitigare gli effetti dei mercati sulle condizioni materiali dell’esistenza degli strati marginali e vulnerabili della società. L’accusa è mossa, dunque, a economisti come Hernando de Soto (2001: 229)18, il quale arriva a

scrivere: «Marx sarebbe probabilmente scioccato nello scoprire come nei paesi in via di sviluppo gran parte della massa brulicante non sia costituita da regolari proletari

17 Traduzioni mie.

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oppressi, bensì da piccoli imprenditori informali oppressi e con una considerevole quantità di risorse (assets)19».

Secondo questi teorici, le enormi masse di lavoratori dei ‘settori informali’ si caratterizzano come piccoli imprenditori locali – “eroi” – esclusi dall’accesso al credito formale solo come conseguenza della loro ‘natura non regolata’. Dunque, il microcredito loro erogato da parte delle banche, a condizioni commerciali per esse vantaggiose, consentirebbe, secondo questa linea di ragionamento, di aumentare la loro produttività, aiutandoli a uscire dalla precarietà della loro esistenza. Si tratta di una linea di ragionamento che ispira molte delle politiche giovanili nei paesi ‘sviluppisti’, una linea che produce ciò che Anke Schwittay (2011) ben definisce “Marketization of Poverty” e che ritroveremo, nella terza parte di questa tesi, a proposito del rapporto tra gruppi giovanili marginali della periferia di Mekelle (Etiopia) e le autorità locali che tentano – attraverso il discorso ‘neoliberista’ dell’auto imprenditorialità – di farli convergere sui binari sociali del controllo e del consenso, spegnendone ogni afflato resistenziale, pur se spesso declinato in violenza urbana ed espressioni da gang (infra: III.2.7). Questo modello di sviluppo è una “soluzione” che Davis respinge, giudicandola un mito creato e diffuso dalla Banca Mondiale per attribuire ai poveri “la responsabilità” dello stato di indigenza e marginalità in cui vivono e lavorano. Non è perciò difficile comprendere che gli ampi segmenti di lavoratori dei settori ‘informali’ – da noi siamo soliti adoperare l’aggettivo “sommerso” – costituiscono un esercito di riserva per il mercato del lavoro, ma a condizioni non negoziabili, che prevedono un prolungamento estremo nella durata delle giornate lavorative (alternate a lunghi e irregolari periodi di disoccupazione), l’impiego di bambini e anziani nel processo produttivo, la sottomissione di donne e fasce deboli della popolazione ai diktat dei datori di lavoro e, chiaramente, la più bassa remunerazione possibile. «Si tratta, in breve, di un regime di implacabile flessibilità in cui, in linea con la dottrina neoliberista, l’autorità pubblica è scomparsa in quanto forza regolatrice e ha rinunciato persino alla funzione di equilibrare gli interessi del capitale e della forza lavoro» (Breman 2006: 146).

Questo “regime di costante flessibilità” ha investito ormai anche i templi del liberismo “fondamentalista”, invadendo tutti gli ambienti urbani. Dalle nostre periferie ai nostri salotti dei quartieri residenziali, intere generazioni ormai si confrontano con questo

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mito della ‘flessibilità a tutti i costi’, ammantato di retoriche del progresso, della ‘crescita’ e del contrasto ad una ‘crisi economica’ percepita sempre più come orizzonte esistenziale, piuttosto che come una condizione strutturale del nostro tessuto economico. Dalle periferie romane, dove ho svolto le mie indagini, ai corridoi dell’università, dialogando con studenti e più o meno giovani ricercatori, la lettura offerta da autori come Davis e Breman mi sembra echeggiare ovunque.

Gli slum, le periferie, i sobborghi marginali, le zone ‘degradate’ – non finiremo mai di trovare definizioni più o meno evocative – hanno la caratteristica di rendere visibile, tangibile, ciò che affligge le società contemporanee nel mondo post-industriale. La globalità del capitalismo sta forse proprio in questo suo “fondamentalismo neoliberale”. Antropologi e studiosi della ‘governamentalità’20 hanno ampiamente

dibattuto se il neoliberismo possa essere inteso come un’ideologia anti-Stato, così per alcuni il neoliberismo si è configurato, innanzitutto, come un progetto politico sullo Stato e le sue funzioni e ruoli nella società (cfr. Hilgers 2012; Wacquant 2010; Ong 2006; Foucault 2005b; Harvey 2004; Hall 1988), pur se appare impossibile pensarlo come progetto politico onnicomprensivo che possa essere semplicemente adottato o rifiutato. A livello locale, calato in circoscritte e storicamente prodotte strutture di potere – sia che ci troviamo in un paese del Primo Mondo che in uno stato sviluppista – il neoliberismo appare spesso come un insieme fluttuante di concetti – buoni da usare – e come un arsenale di mosse politiche, assunti ideologici, adoperati e strumentalmente evocati anche in combinazione con «pratiche e razionalità governative che incorporato visioni politiche diverse e talvolta contrastanti, per perseguire una particolare idea di società e/o rafforzare gerarchie sociali e politiche»21 (Di Nunzio 2015: 1185).

Per tornare ai luoghi urbani della marginalità, ai nostri ghetti e alle periferie globali ‘disastrate’, se la privatizzazione di ampi settori della vita economica e dello stato sociale, se la rinuncia dello Stato ad intervenire hanno lasciato un vuoto nella sfera pubblica, che un tempo faceva da contrappeso ad un ‘mercato selvaggio’, in che modo esprimono e difendono i loro interessi gli abitanti degli slum, da sempre visti come vulcani fumanti sul punto di eruttare? (Breman 2006: 146). Secondo Davis (2006: 202) le popolazioni degli slum adoperano un’infinità di strategie resistenti, attraverso

20 Il concetto di “governamentalità” sarà meglio trattato nel paragrafo I.3.

21 Traduzione mia. Sulla stessa linea di analisi, cfr. Rose et al. (2006), Ong (2006), Ferguson (2009) e

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«una sconcertante varietà di risposte all’abbandono e alle privazioni strutturali, spaziando dalle chiese carismatiche e dai culti profetici alle milizie etniche e alle gang di strada, dalle ONG neoliberali ai movimenti sociali rivoluzionari. […] In effetti, il futuro della solidarietà umana dipende dal rifiuto militante dei nuovi poveri urbani di accettare la loro marginalità estrema all’interno del capitalismo globale»22.

Le periferie del mondo, delle città, dell’era post-industriale con i suoi paradossi e le sue ineguaglianze, sono – per adoperare le parole di Amalia Signorelli – “le retrovie” nelle quali si accumula «un consistente capitale simbolico, da impiegare poi nelle lotte di potere [che avranno] luogo nel campo politico» (1996: 132)23. Questo “rifiuto

militante” può assumere sia forme ‘regressive’ che progressiste, dalla demonizzazione della ‘modernità’ a tentativi di riappropriazione delle sue promesse sfumate: «non dovrebbe sorprendere il fatto che alcuni giovani poveri della periferia di Istanbul, del Cairo, di Casablanca o di Parigi abbraccino il nichilismo religioso […] e si rallegrino della distruzione dei simboli più arroganti di una modernità aliena. O che milioni di altri si rivolgano alle economie di sussistenza urbana gestite da bande di strada, narcotrafficanti, milizie e organizzazioni politiche settarie. Le retoriche demonizzanti delle varie “guerre” internazionali al terrorismo, alla droga e al crimine sono in realtà un apartheid semantico: costruiscono muri epistemologici [attorno a favelas, periferie,

slums, quartieri marginali] che disinnescano ogni onesto dibattito sulla violenza

quotidiana dell’esclusione economica. E, come in epoca vittoriana, la criminalizzazione categoriale dei poveri urbani è una profezia che si auto-avvera» (Davis 2006: 202)24.

Si tratta di un mondo di città – come si diceva in apertura del paragrafo –, un mondo nuovo, in cui per la prima volta nella storia dell’umanità nelle aree urbane vive più della metà della popolazione mondiale, eppure un mondo di città senza lavoro e di periferie senza speranza. Siamo dinanzi a una doppia tendenza in questa lotta tra i pochi ricchi e le moltitudini dei margini: da un lato vengono invocate politiche di crescita o sviluppo, che in realtà cementano vasti strati della popolazione in occupazioni di fortuna e in forme di lavoro contrattuali occasionali, creando un modello – detto della ‘flessibilità’ – che in realtà impedisce l’emergere di qualunque nuova e coesa coscienza di classe; da un altro lato, si paventano scenari apocalittici da

22 Traduzione mia. 23 Corsivo dell’autrice. 24 Traduzione mia.

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cui proteggersi, da cui i paesi più ricchi dovrebbero proteggersi, in primis chiudendo e recintando i loro confini (Davis 2006: 122). «La migrazione di massa verso territori “vuoti” […] non è più un’opzione per le società che vogliono sbarazzarsi di persone quando sono più un ostacolo che una risorsa per la produttività» (Breman 2006: 146). Mettendo al centro una critica ai ‘fondamentalismi neoliberali’, assumono tutt’altra luce certi moniti securitari25 come l’altisonante “aiutiamoli a casa loro” – che ‘periferizza’ i discorsi – così come l’etichetta delegittimante di ‘migranti economici’, ovvero gli inaccettabili, coloro che non fuggirebbero da ‘reali’ emergenze. Al tempo stesso, in questa prospettiva sicuramente schierata, perché demistificante dei discorsi politici su e delle città, così come su e dello Stato, anche le periferie di Roma, con un tasso di disoccupazione incalcolabile perché ‘sommerso’ – qui è il caso di adoperare propriamente il termine – da forme alternative, complementari e precarie di sussistenza, meritano di essere riportate al centro di un discorso di critica globale a quei meccanismi di governamentalità che, dietro al feticcio del mercato, producono socialmente sofferenza e vulnerabilità.