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PARTE II. ITALIA: R-ESISTENZE DALLA PERIFERIA ROMANA

II.3 Gangster a Marozia

II.3.1 In caserma tutto bene?

“Ma come sei finito qui?”, la domanda dei miei interlocutori, con cui ho aperto la descrizione di Marozia, ha continuato a incalzarmi durante i primi mesi della ricerca sul campo. “Seguendo la notizia” è forse la risposta più onesta. Già da qualche anno, dal 2014 circa, mi occupo di bande giovanili nei quartieri della città di Mekelle in Etiopia. Volgendo lo sguardo al contesto locale italiano, e romano nello specifico, prima di definire il campo, mi sono lasciato ‘incuriosire’ dall’aspetto cronachistico del fenomeno.

Una ricognizione mediatica mi ha portato a inquadrare il complesso urbano di Marozia come, almeno preliminarmente, luogo verso il quale la pubblica opinione, i media e le forze dell’ordine hanno indirizzato il loro concetto securitario di “quartiere sensibile”, definendo quest’area come ricettacolo di gang e di altre forme di criminalità. Un luogo ‘anti-Stato’ e ‘anti-ordine costituito’ per eccellenza, nella capitale. Almeno così nelle parole di chi pubblicamente ne ha scritto e lo ha descritto.

Ecco, ad esempio, alcuni estratti da quotidiani cartacei e online75, che hanno definito

l’immagine pubblica di Marozia negli ultimi quindici anni e più:

Titolo: «Catturata con un blitz la banda delle mazze ferrate». Se le vittime non si piegavano alle loro prepotenze arrivavano a dar fuoco alle loro case. Una banda spietata, specializzata in rapine e estorsioni, è stata sgominata. […] A capo della

gang, secondo gli investigatori, c'era [un ragazzo di] 21 anni. Era lui che

coordinava gli assalti nei supermarket e le spedizioni punitive negli appartamenti delle case popolari [di Marozia…] qui lui e i suoi complici minacciavano gli occupanti abusivi, o per avere soldi o per entrare in possesso degli appartamenti. (La Repubblica, novembre 2002)

75 Le date complete degli articoli le ometto deliberatamente, così come i nomi dei protagonisti e

112 Titolo: «Marozia, blitz all’alba contro la “nuova mafia”». Un ragazzo ammanettato seduto davanti agli avanzi della cena mentre i poliziotti frugano in un disordine indescrivibile e tirano fuori bustine di cocaina e pistole. Un uomo di 65 anni, tutto coperto di tatuaggi, svegliato all’alba nel suo appartamento zeppo di riviste porno: su una parete, una grande foto di Padre Pio e un calendario hard- core. Case popolari di [Marozia] ore 4.30 del mattino. Latrati di pitbull che tentano di scagliarsi contro gli agenti con la bava alla bocca, catene tranciate con le tronchesi, perquisizioni in piccoli alloggi trasformati dagli inquilini in autentici caveau, con porte blindate e grate d’acciaio. Alle pareti, scritte come “Oggi voglio uccidere un poliziotto di m...”[…] Manca solo il rap a tutto volume ed eccoci nel Bronx. (La Repubblica, gennaio 2003)

Titolo: «Far West [a Marozia]: abitanti aiutano ricercato a fuggire». Gli agenti di Polizia che inseguivano un pregiudicato in fuga in auto sono stati aggrediti da decine di residenti del complesso residenziale [di Marozia], che hanno permesso all’uomo di dileguarsi […] Come a Scampia, nel Bronx o nei Quartieri Spagnoli di Napoli. Invece siamo a Roma, [a Marozia]. (TG1 online, settembre 2011). Titolo: «I bambini vedetta della borgata». Nessuno, senza l’autorizzazione degli abitanti, può varcare il cancello. Dal cortile le vedette – bambini di 8 anni – iniziano a gridare “guardieeeee” da quando una macchina “sospetta” sbuca [fuori]. Quel richiamo fa scattare l’offensiva ai piani alti: sui davanzali spuntano sacchi di calcinacci, vasi, buste di rifiuti, copertoni pronti per essere lanciati sull’estraneo. Che sia una guardia o un cronista, nessuno può violare quei confini. Si racconta che lì i ricercati – chi compie rapine a mano armata o chi spaccia o chi fugge da un posto di blocco – vengono inghiottiti dal palazzo e scampano alla cattura. Salvo quando ci sono retate con elicotteri e in pompa magna. Ma sono sempre più sporadiche […] chi abita dentro o attorno al “chilometro del Male” e paga l’affitto, le bollette e lavora (la maggioranza), ha lo sguardo sconfortato. (La

Repubblica, ottobre 2017).

L’ultimo articolo risale a qualche mese prima del mio ingresso sul terreno di indagine. E di certo, in quel momento, non mi lascia impassibile. Con quel carico ‘narrativo’ alle mie spalle, ‘entrando’ a Marozia per la prima volta, mi aspetto senz’altro di essere fermato da un posto di blocco della “malavita locale”, il minimo che posso presupporre dalle narrazioni su quel “chilometro del Male”, ma anche memore di situazioni – ahimè, queste vissute sul serio – dei posti di blocco nella Scampia di più di venti anni fa76. Non accade nulla di tutto ciò. Sul campo d’indagine, mi capita di

76 Si tratta di ricordi personali, che ho ricostruito molto tempo dopo con maggiore consapevolezza. Ero

in auto con amici più grandi (impiegati presso un’emittente televisiva regionale) e residenti nel noto quartiere napoletano. Per recarci a casa loro, vi erano dei passaggi obbligati lungo le strade. Sentinelle di quartiere sollevavano delle sbarre di legno, poggiate su due pile di copertoni. Si trattava – allora ne ero assolutamente all’oscuro, provenendo io da un’altra periferia residenziale e piccolo borghese – di un meccanismo molto collaudato per proteggere il passaggio in piazze di spaccio gestite dalla Camorra. I

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ricevere occhiatacce, ma per lo più una certa noncuranza e reticenza nel parlare. Durante la ricerca, il massimo dell’intimidazione che ricevo è, dopo circa un mese che ‘bazzico’ in giro, cercando dei contatti locali, dapprincipio presso associazioni di volontariato, una domanda provocatoria: «In caserma tutto bene?». A lanciarmela è Mirko, della famiglia dei rom napoletani residenti nel quartiere. Il ragazzo si stacca dal capannello di coetanei, presso il campetto sportivo dove ho preso l’abitudine di parcheggiare la mia auto, e si avvicina diretto per ricevere ‘chiarimenti’ su di me. In quell’occasione, per giustificare la mia presenza e smorzare l’aria di diffidenza, mi dico ‘semplicemente’ amico di una informatrice locale, Eva, la volontaria del doposcuola di cui ho già parlato. Mirko, appreso il collegamento ad una presenza ‘istituzionale’ – ma innocua – non prosegue minimamente la sua accennata indagine, si volta semplicemente verso il gruppo – tutti maschi tra i 20 e i 30 anni – e urla: «Tutt’a posto! È d’‘o doposcuola!» in perfetto e familiare, per me, dialetto napoletano, la qual cosa mi lascia davvero sorpreso, non sapendo ancora nulla della comunità rom napoletana residente nel comprensorio.

Per non incappare in incomprensioni, voglio però chiarire immediatamente un punto: non intendo dire che, nonostante i quotidiani la dipingano come il “Far West” o il “chilometro del Male”, Marozia sia in realtà un’oasi di pace e una terra di legalità; d’altronde lo si evince già dalle narrazioni emerse nei paragrafi precedenti. Mirko e i suoi amici sono uno dei due gruppi giovanili che frequentano la piazzetta centrale – il campetto di calcio e l’area giochi da poco ristrutturati – di Marozia. Il palazzo prospiciente alla piazzetta è abitato quasi interamente dai rom assegnatari. Quella in cui Mirko mi viene incontro è una piazza di spaccio e il ragazzo, così come gli interlocutori che a breve introdurrò, ne è una parte attiva.

Nei mesi di indagine, mi è capitato qualche volta di assistere al “vento”: avvertiti da una telefonata o da qualcuno che li raggiunge al campetto, Mirko e i suoi si dileguano in un lampo, correndo a destra e a manca, sparendo nei palazzi e sulle scale antincendio degli edifici, pochi minuti prima che si materializzi la ronda dei poliziotti in borghese (ma ben noti ai residenti). Dunque, molti informatori erano o sono ancora coinvolti in attività illecite. Alcuni, che sono diventati figure di riferimento nella comunità locale, dopo mesi di frequentazione e ‘chiacchiere’ più o meno formali, mi hanno parlato di un passato in cui si descrivono come perpetratori di “danni seri” (una

due amici dovevano semplicemente fermarsi e farsi riconoscere, permettendo alle sentinelle di lanciare uno sguardo su di me.

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formula che ricompare spesso): un eufemismo per il quale si vuole intendere rapine, furti e altri reati per cui si è muniti di armi da fuoco; alcuni miei informatori sono stati spesso arrestati per tali reati e per questi hanno scontato le relative pene o sono ancora sotto processo77.

L’ultimo articolo di cronaca (ottobre 2017), in cui sono descritti i “bambini vedetta”, piccoli soldati di bande o di una criminalità organizzata (minoritaria e non ben definita, se non come “locale”), riporta anche un’altra affermazione del cronista: gli stessi giornalisti si sono trovati circondati e poi “verbalmente” aggrediti, quando la gente del posto si è accorta dei loro tentativi di parlare con quelle piccole vedette, cioè con dei minorenni, i figli dei residenti stessi. L’articolo lascia intendere – esclusivamente – che l’aggressione o la reazione minacciosa dei residenti sia dovuta all’interferenza dei giornalisti nelle attività criminose in corso, ovunque esse si celino e siano in atto in quel momento; si badi, il cronista non lo sa, ma una cosa è certa, che Marozia è luogo di criminalità perpetua, per cui ai giornalisti, come ai poliziotti (la parte ‘sana’ della società) non è concesso penetrarvi: «nessuno può violare quei confini» viene scritto, appunto. Se pur gli abitanti del comprensorio abbiano ‘semplicemente’ reagito all’azione di giornalisti (cioè adulti estranei), perché considerata predatoria e non autorizzata verso dei minorenni (siano essi vedette o studenti modello questo non importa), al lettore non è dato supporlo. Perché non ci sono dubbi che, una volta varcato quel “confine”, sono saltati tutti gli schemi, nulla è come altrove: quei bambini non sono come i bambini che vivono i quartieri del lettore, del poliziotto o del giornalista.

Inoltre, gli stilemi espressivi dei giornalisti di cronaca cittadina – alcuni dei quali si specializzano su un quartiere perché hanno i loro informatori privilegiati, quasi sempre tra la polizia locale – si ripetono, autocitandosi, almeno dal 2002, secondo la mia ricostruzione. Compaiono espressioni ricorrenti come “banda”, “banda spietata”, “capobanda”, ma anche riferimenti ad un concetto onnicomprensivo di criminalità, intesa come categoria descrittiva, cioè “mafia” – anzi una non meglio definita “nuova mafia” –, e tali espressioni rimbalzano sempre da un articolo all’altro, divengono ‘letteratura’ di riferimento. Gli stilemi cronachistici riportano sempre una contrapposizione netta tra disordine e ordine, tra un “loro” (i residenti di Marozia) e un

77 Ancora proteggendo la riservatezza dell’informatore, cerco qui e altrove di restituire l’esperienza

etnografica senza stravolgere le narrazioni, ma impiegando diverse omissioni o modifiche a nomi e luoghi, o scegliendo di tenermi nel vago in merito ad alcuni passaggi o citazioni.

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“noi” (la polizia, i giornalisti, assieme a «chi abita dentro o attorno al “chilometro del Male” e paga l'affitto, le bollette e lavora [e che] ha lo sguardo sconfortato»), nell’implicito morale i “buoni” e per estensione lo Stato. In aggiunta, non mancano riferimenti a categorie celebri del ‘male’ e della criminalità, che così giustapposti assolvono a una funzione che oserei dire ‘mitologica’: il bronx newyorkese dei film statunitensi, Scampia e i Quartieri Spagnoli a Napoli, che è sempre il luogo ‘altro’ maggiormente citato in questo rimando simbolico immediato alle terre ‘anti-Stato’, in questa mitologia della criminalità, appunto.

Il linguaggio giornalistico crea, ma anche attinge e ricicla, categorie come “criticità urbane” o “quartiere sensibile”; quest’ultima categoria – come mette in rilievo Wacquant – è, per l’appunto, un eufemismo burocratico (o poliziesco) atto a descrivere «una porzione della città lasciata in una sorta di maggese economico e sociale dallo Stato» (2006: 38); similmente, l’altra categoria molto ‘amata’ dalle testate di cronaca, quella di “violenza urbana”, appare utile – quando pubblicizzata – a raggruppare atti considerati ‘devianti’ di varia natura (graffiti, risse tra giovani, spaccio, ricettazione, furti, scontri con la polizia, ecc.) per agevolare un approccio punitivo ai problemi delle periferie, depoliticizzandoli alla radice (ibid.).

Quando parlo di gangsterismo – già nel titolo di questa tesi – intendo, così, riferirmi alla produzione di ‘nuove categorie’ e ‘nuovi tipi sociali’ – attraverso automatismi, anche mediatici, di etichettamento: «[la] politica di penalizzazione della precarietà, inoltre, è portatrice di nuovi saperi sulla città e sui suoi disordini che creano un’inedita gamma di “esperti” e, sulla loro scia, giornalisti, responsabili amministrativi, quadri associativi e politici, tutti chinati al capezzale dei “quartieri dai mille pericoli”» (ibid.). In Italia, anche il gruppo genovese di ricercatori – con in testa Queirolo Palmas (supra: I.1.3) – che si è occupato delle bande di latinos in quel dato contesto urbano, partendo dalla diffusione mediatica del fenomeno, ha rilevato quanto segue: «[i] riferimenti di questa campagna di stampa, che utilizza come fonte di informazioni esclusivamente la polizia e la magistratura, sono legati ad un immaginario filmico ed esotico che gioca sulle corrispondenze con i ghetti americani» (Cannarella 2009: 121); anche un informatore interno ad una redazione giornalistica confessa ai ricercatori genovesi che, avendo ricevuto dalla polizia una mappa cittadina divisa per (presunti) gruppi rivali, per bande appunto, dovendo raccontare i ‘fatti’ in poche colonne, i giornalisti attingono ad un repertorio ‘universalmente’ noto, a categorie familiari tratte

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dall’immaginario collettivo o dal cinema: le gang americane, i “guerrieri della notte”, e così via (ibid.).

Il processo di etichettamento, oltre a divenire autoreferenziale – e a rinviare a una ‘letteratura’ che si fa mitologia – si basa, quindi, su un lavoro di condensazione (che si vorrebbe giustificato dallo scrivere ‘in poche colonne’, per quel che attiene ai giornalisti). A Marozia si concentrano tutte le similitudini e gli oggetti di riferimento del discorso pubblico securitario e, nei singoli articoli – come si può rilevare leggendo già solo quelli riportati in apertura del paragrafo – si addensano tutti i tratti dell’asocialità, dell’‘inciviltà’ e della criminalità: dalla droga al razzismo, dal fascismo squadrista (le spedizioni punitive) all’anarchismo distruttivo («voglio uccidere un poliziotto di m…» scritto sui muri), dalla pornografia e la sporcizia dei ‘covi’ al calendario di Padre Pio che, messo lì, rifletterebbe la blasfemia (sociale) insita in un “Male”, scritto con la emme maiuscola, appunto.

I processi di etichettamento agiscono tanto sui luoghi quanto sugli attori sociali che vivono una determinata realtà locale. L’etichettamento impedisce, inoltre, di rilevare (e riflettere su) le differenze locali, non solo in termini di lecito e illecito, ma anche di disagio ‘reale’; il gangsterismo è un discorso praticato da chi dall’esterno può esercitare una postura di valore su un luogo ‘diverso’ in senso peggiorativo, ponendolo in antitesi alla società considerata “normale”, pur se di quella stessa società tale luogo è un prodotto (una “eterotopia”, per dirla alla Foucault); tale postura appiattisce il discorso su toni securitari e depoliticizza sia la questione della criminalità, da un lato, che quella della vulnerabilità sociale dei quartieri ai margini dello sviluppo urbano e post-industriale, dall’altro.

Al tempo stesso, questa postura di etichettamento, sia essa perpetrata tanto nel circuito penale-giudiziario quanto in quello mass-mediatico, lavorando su una mitologia urbana, crea i presupposti per fenomeni identitari locali che agiscono su una frattura “noi”/“loro”: i media rendono pubblica e ridondante una “localizzazione dislocante” (Piasere 2006: 12), così che prima della presenza in asfalto e cemento di Marozia, sono le narrazioni di essa a marcare una “discontinuità”, ad essere «delle ferite, degli strappi all’interno del territorio dello Stato nazione» (ibid.).

“In caserma tutto bene?”, ad un certo punto della ricerca, dopo aver raccontato del mio incontro con Mirko ad altri informatori di Marozia, diventa una sorta di tormentone. Riccardo, un ragazzo di 25 anni, per molto tempo ha ‘resistito’ dal parlare con me.

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Mentre comincio a intessere una relazione, se non di fiducia almeno di ‘non sospetto’, con gli altri del suo gruppo, egli si tiene sempre in disparte. Talvolta mi capita di incrociarlo per le strade del comprensorio e, beffardamente, mi rilancia: “In caserma tutto bene?”. Già da tempo deve essergli chiaro che io non sono un poliziotto, ma quel gioco – da me avvertito in prima battuta come dispetto e strafottenza – dura per almeno due mesi. Tanto ci vuole perché Riccardo si decida a farsi intervistare. Comincio a dare maggiore peso e significato a quel gioco, man mano che ricevo altri commenti sulla mia posizione di ‘ospite’ non invitato, percepito come qualcuno che potrebbe – prima o poi – rivelarsi scomodo.

Una testimonianza può chiarire quanto sto tentando di esprimere. Umberto, uno dei primi occupanti di Marozia, oggi membro attivo del comitato di quartiere, uno di coloro che si posizionano come ‘custodi’, mi racconta del rapporto tra i residenti e i giornalisti – alcuni giornalisti – che hanno ciclicamente attraversato quegli spazi in cerca di notizie.

Se tu mi vuoi intervistare perché devi raccontare, allora devi stare a sentire davvero e scrivere quello che ti dico, non quello che ti inventi perché già sai cosa vuoi dire! È chiaro? Ora per farci svuotare i garage e far capire la situazione al Comune ci siamo rivolti a un giornalista nostro! (Umberto, 15-10- 2018)

Umberto sta sovrapponendo due piani, due eventi, la mia presenza come ricercatore che chiede di intervistarlo, di ascoltarlo sulle tematiche inerenti al quartiere e ai giovani che lo abitano, e il lavoro considerato ‘predatorio’ e tendenzioso di alcuni giornalisti. Umberto mi avverta, inoltre, di aver compreso l’importanza di non scacciare i media, ma di coinvolgerli, specialmente nelle ‘operazioni di protesta’: in questa testimonianza si riferisce, con la parola “garage”, ai sotterranei dei palazzi, che sarebbero dovuti essere effettivamente dei garage, ma che sono rimasti spazi incompleti e aperti a chiunque; col tempo, sia persone del quartiere che altre provenienti dall’esterno, hanno adoperato questi sotterranei come discarica illegale; la mancata manutenzione e la degenerazione dell’impianto fognario dei palazzi ha poi aggravato la situazione. Per richiedere l’intervento d’urgenza del Comune, per la bonifica e la manutenzione straordinaria, i residenti – in primis i “vecchi” – hanno affidato le loro testimonianze ad un solo giornalista di un quotidiano cittadino online,

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disposto a riportare il più fedelmente possibile le loro testimonianze, “senza romanzare”.

Le parole di Umberto lasciano, allora, intuire il gioco nascosto dietro alla battuta «in caserma tutto bene?». In quel contesto, io appartengo al mondo degli ‘altri’, al mondo dei ‘buoni’ cittadini, dei “privati”, cioè i proprietari degli appartamenti di nuova costruzione lì accanto, appartengo al mondo dei giornalisti che ascoltano i poliziotti e che scrivono – e cosa da non sottovalutare sono lì anch’io per registrare e scrivere –, ma appartengo anche al mondo dei poliziotti stessi, che raccontano la loro versione alla società e a quelli come me. Potrei facilmente divenire una spia, riportare discorsi e confidenze in caserma, potrei tradire e romanzare, vendendo all’esterno una verità più appetibile, più ‘riconoscibile’ (e per questo disinnescata dai mille risvolti etici, sociali e politici): si tratta di quella “pornografia della violenza”, di quell’ostentazione del degrado che gli abitanti di Marozia conoscono bene. Il ‘gioco della diffidenza’ dimostra benissimo, dunque, un importante livello di consapevolezza nei miei interlocutori, dimostra come essi siano consci che certe retoriche (“le storie romanzate”) ed etichette siano loro sempre e comunque attaccate addosso, laddove essi si aspettano che siano proprio tali etichette ciò che gli “altri” vedono e dicono – in prima ed unica battuta – di loro.