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PARTE I. PERCORSI TEORICI

I. 2.2 ‘Decivilizzare’ la periferia Lo Stato e i ritiri urbani

I.3 Ripensare lo Stato Governamentalità, soggettivazione, resistenze

Nei discorsi fin qui affrontati è emersa – trasversalmente – la questione dell’«arte del governo» che, attraverso un insieme di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche», assicura la presa in carico delle popolazioni e garantisce il «governo dei viventi» (M. Foucault 1978a: 28) e che Foucault definisce, appunto, governamentalità. Ma cosa è esattamente? E in cosa si distingue dal ‘semplice’ concetto di governo e dal più recente, quanto ‘di moda’, concetto di governance? Mi occuperò subito e brevemente dell’ultima questione. Per governance si intende generalmente «un nuovo stile di governo, distinto dal modello di controllo gerarchico e caratterizzato da un maggiore grado di cooperazione e dall’interazione tra lo stato e attori non statuali all’interno di reti decisionali miste pubblico/private» (Mayntz 1999: 3). Per essere sintetici, il concetto di governance emerge in discontinuità con quello classico statuale di ‘governo’, si tratta di uno stravolgimento del ‘tradizionale’ rapporto stato-territorio-popolo, dato che la geometria degli attori in gioco (politici e non) si riconfigura su livelli differenziati, dal locale al globale, al punto che c’è chi si è spinto a teorizzare un “governare senza governo” (Rosenau 2002). Senza fissarci su posizioni così estreme, il concetto di governance38 indica, generalmente, l’emergere di

attori che non appartengono alla sfera di governo tradizionale, ma che giocano una

38 Lungi però dall’assumere una valenza critica nei confronti di tali relazioni complesse, il concetto che

nasce – ed è indicativo – in ambito aziendalistico (corporate governance, ovvero: governo, direzione dell’impresa) – si è rapidamente allargato per definire l’insieme di procedure, modi e principi per la gestione e il governo di società, enti, istituzioni, o fenomeni complessi, dalle rilevanti ricadute sociali; pertanto si ha un proliferare di forme particolari di questo termine onnicomprensivo: si parla di

governance della pubblica amministrazione, delle politiche pubbliche, delle relazioni internazionali, governance europea, e così via.

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parte importante nel controllo degli affari pubblici e stabiliscono complesse relazioni (antagonistiche, complementari, giustappositive) con lo Stato (Blundo, Le Meur 2009: 2).

Il concetto foucaultiano di governamentalità presenta tratti che il filosofo chiarisce particolarmente nei suoi ultimi lavori (Foucault 2005, 2010). Secondo Foucault, il ‘governo’ si connota dal XVI secolo in un’accezione più ampia, come «complesso costituito dagli uomini e dalle cose», in netta distinzione dalla sovranità, che «si esercita innanzitutto su un territorio e per conseguenza sui sudditi che lo abitano» (Foucault 1978a: 18). Così, se da un lato «il fine della sovranità le era implicito […] e essa traeva da se stessa i suoi strumenti sotto la forma della legge, il fine del governo è nelle cose che dirige, è da ricercare nella perfezione, nell’intensificazione dei processi che dirige, e gli strumenti del governo invece di essere delle leggi saranno delle

tattiche multiformi39» (ibid.: 21). Ad ogni modo, tra sovranità e governo moderno non

si dà una successione, una sostituzione o una evoluzione. Ciò che avviene è piuttosto uno spostamento di grado: «Dobbiamo quindi capire le cose non nei termini della sostituzione di una società di sovranità da parte di una società disciplinare, e poi di quest’ultima da parte di una società di governo; abbiamo in realtà il triangolo: sovranità-disciplina-gestione di governo, il cui bersaglio principale è la popolazione, ed i cui meccanismi essenziali sono i dispositivi di sicurezza40» (ibid.: 27).

Il punto è che Foucault rinuncia al concetto ‘tradizionale’ di Stato, o meglio a una ‘teoria dello Stato’, arrivando a dire: «evito, voglio e devo evitare una teoria dello stato, così come si può e si deve evitare un pasto indigesto» (Foucault 2005b: 74). Il punto del suo rifiuto sta nel ribadire che «lo stato non ha essenza» (ibid.). Si tratta dell’abbandono di un’analisi che fa dello Stato l’oggetto del discorso, partendo dalle sue funzioni, assumendolo come un universale che non necessita di dimostrazione e da cui far discendere, deduttivamente, una innumerevole serie di pratiche politiche. Per Foucault non è ammesso procedere dall’ovvietà della figura statale o dal principio indimostrabile della sua unità e della sua legittimità. Ciò che viene meno è così non solo un’idea metafisica – il “gelido mostro” di Nietzsche (2001: 52) – o organicistica di Stato, ma anche l’assunto che esso sia la fonte da cui deriva il potere. Lo Stato è, piuttosto, qualcosa che viene attraversato dal potere, anzi da più forme di potere, che però non traggono origine dal suo interno. «Per dirla in breve, lo stato non ha cuore. E

39 Corsivo mio. 40 Corsivo mio.

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non solo perché, come ben sappiamo, non prova sentimenti, né buoni, né cattivi, ma soprattutto perché non ha un interno. Lo stato non è altro che l’effetto mobile di un

regime di governamentalità molteplici41» (Foucault 2005b: 75).

Abbandonata la teoria dello Stato ‘classica’, con il termine “governamentalità”, Foucault indica tre aspetti costitutivi di uno stesso processo, che ha caratterizzato la formazione dello Stato moderno in occidente: «1) l’insieme costituito dalle istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma molto specifica sebbene molto complessa di potere, che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza42. 2) La tendenza, che in tutto l’Occidente non ha

smesso di condurre, e da molto tempo, verso la preminenza di questo tipo di potere, che si può chiamare il governo, su tutti gli altri: sovranità, disciplina, ecc., il che ha condotto da una parte allo sviluppo di tutta una serie di apparati specifici di governo e dall’altra allo sviluppo di tutto un insieme di saperi. 3) Il processo, o piuttosto il risultato del processo attraverso il quale lo Stato di giustizia del Medio Evo, diventato nel XV e XVI sec. Stato amministrativo, si è trovato a poco a poco “governamentalizzato”.» (Foucault 1978a: 28).

Nel processo di “governamentalizzazione” dello Stato, la popolazione diviene il fine ultimo del governo, nel senso che si attua uno spostamento del potere da potere sulla morte (esercitato dai sovrani degli ancièn regimes) a potere sulla vita: «La vecchia potenza della morte in cui si simbolizzava il potere sovrano è ora ricoperta accuratamente dall’amministrazione dei corpi e dalla gestione calcolatrice della vita. Sviluppo rapido nel corso dell’età classica delle varie discipline – scuole, collegi, caserme, ateliers; emergenza anche, nel campo delle pratiche politiche e delle osservazioni economiche, dei problemi di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat, di migrazione; esplosione dunque di tecniche diverse e numerose per ottenere la subordinazione dei corpi ed il controllo delle popolazioni. Si apre così l’era di un “bio-potere”» (Foucault 2010: 123-124). Non più solo il diritto di uccidere il nemico e di servirsi della vita dei sudditi sono alla base della sovranità, che nella sua configurazione di governo moderno, a partire dal XIX secolo, si incentra (legittimandosi) sulla riproduzione e la salvaguardia della vita, così che «[al] vecchio

41 Corsivo mio. 42 Corsivo mio.

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diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte» (Foucault 2010: 122).

Ad una concezione “repressiva” del potere – secondo un asse ideologico Freud-Marx- Marcuse (Sorrentino 2008: XXIX) – Foucault contrappone una visione “produttiva”, affermando che «bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: “esclude”, “reprime”, “respinge”, “astrae”, “maschera”, “nasconde”, “censura”. In effetti il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione»43 (Foucault 1993 [1975]: 212). Si tratta di una incessante

“produzione”, quella del potere, in primis produzione di “soggettività”. Il nesso con il concetto di governamentalità è così evidente: «Questa forma di potere [cioè il governo] viene esercitata sulla vita quotidiana immediata e classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la loro propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti44»

(Foucault 1989: 241)

Il potere viene concepito da Foucault come una tecnica per la costruzione dell’identità degli individui. Non esiste «un soggetto trascendentale, che possa osservare in disparte, o dall’alto, lo svolgersi della dinamica sociale, proprio perché ogni soggetto può essere soltanto un soggetto in situazione, preso direttamente – e fin dalla nascita ‒ all’interno di una serie di dispositivi di potere (la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, ecc.) che lo hanno disciplinato, plasmato, normalizzato perfino nella sua interiorità, in ciò che ha di più caratteristico e di più personale. Perciò non si dà un fuori dalle relazioni di potere. Non esiste un “luogo” della libertà, ma si è sempre “dentro”, si è sempre presi all’interno dei dispositivi di potere/sapere» (Domenicali 2014).

In ambito antropologico il pensiero di Foucault ha avuto importanti ed eccellenti prodromi e sviluppi. Tra questi, riflettendo sui processi in atto nel contesto della globalizzazione, Aihwa Ong (2005: 41), ricostruendo le narrazioni di migranti cambogiani negli Stati Uniti, impegnati in un percorso di riconoscimento del loro

status di cittadini, considera la cittadinanza proprio come «processo socioculturale di

43 Questa prospettiva “produttiva” del potere si fa “bio-potere” quando agisce sugli individui attraverso

«un regime di sorveglianza e di controllo di tipo “panoptico”, cioè di estensione capillare della visibilità dei soggetti da parte delle istituzioni [e] attraverso la manipolazione dei corpi umani, [ridefinendo] le categorie di “natura”, “soggetto”, “persona”, “sé”» (Pizza 2005: 152, 238).

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“soggettivazione”». L’antropologa mette in rilievo le tecnologie di governo indirizzate a plasmare soggettività individuali e lo fa operando una decostruzione dei complessi di sapere-potere di cui quelle tecnologie sono il prodotto. Ong mette però in evidenza anche il ruolo attivo che gli stessi individui rivestono nella propria “autoproduzione”, per mezzo di una molteplicità di strategie quotidiane: dall’appropriazione, al rifiuto, alla modificazione, fino alla trasformazione delle istanze governamentali (Villanucci 2014a: 54). La soggettivazione si riferisce allora ad una dinamica di negoziazione, essa è «nello spazio dell’incontro e dell’invischiamento» (Ong 2005: 40). In linea con il discorso foucaultiano, la Ong è ben consapevole che non si può parlare di un’univoca forma di potere né di un insieme omogeneo di soggetti da essa plasmati.

Come fa notare Villanucci (2014), in un’ottica simile alla Ong, Bayart (2006: XLVII) parla, infatti, di soggettività al plurale, o meglio di linee di soggettività che si generano da una molteplicità di movimenti culturali e sociali all’interno di uno stesso campo di azione, appunto lo Stato, da intendere però come complesso di pratiche e rappresentazioni plurali, un campo controverso in cui si dispiegano ibridazioni, giustapposizioni, e conflitti di soggettivazione. Queste soggettività al plurale sono, d’altronde, chiare già nel messaggio di Foucault, che in una celebre intervista ebbe modo di chiarire: «Ho rifiutato che si presupponesse a priori una teoria del soggetto […] e che, a partire da questa teoria del soggetto, si ponesse la questione di sapere come fosse possibile tale forma di conoscenza. Ho cercato di dimostrare come il soggetto costituisse se stesso in questa o quella determinata forma, in quanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto soggetto non

delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità e pratiche di potere45. Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi dei rapporti che intercorrono tra la costituzione del soggetto e le differenti forme di soggetto e i giochi di verità, le pratiche di potere, ecc.» (Foucault 1998b: 282-283). Dal rifiuto della teoria dello Stato al rifiuto di qualunque teoria del soggetto. Per l’antropologia si tratta di afferrarne più l’indirizzo metodologico che l’apparato concettuale da solo: si tratta di confrontarsi nel gioco del campo etnografico, così come in quello della restituzione del sapere, con le pratiche delle soggettività altre, incontrate in un contesto dove sono in atto altri giochi, appunto di “verità” e “potere”,

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ricordando, al contempo, che il ricercatore non è mai del tutto libero da un complesso di potere-sapere di cui egli stesso, in quanto soggettività complessa, fa parte.

Un’antropologia che fa sua la lezione foucaultiana, in breve, non può accontentarsi di guardare al solo al lato “produttivo” del potere, come forza plasmante e incontrastabile delle soggettività incontrate. Si tratta di porsi il problema della libertà e, nel contesto delle pratiche espresse sul campo politico e sociale, porsi il problema delle forme di resistenza. E, in tal senso, libertà e resistenza non viaggiano mai separate, come si evince dal ‘gioco’ che Foucault opera sull’ambiguità del termine francese “sujet”: «Ci sono due significati della parola soggetto: soggetto a qualcun altro, attraverso il controllo e la dipendenza, e soggetto vincolato alla sua propria identità dalla coscienza o dalla conoscenza di sé» (1989: 241).

Il punto è: dov’è la libertà? Foucault parte dalla considerazione estrema della condizione di dominio: «nelle relazioni umane, vi è tutto un fascio di relazioni di potere, che possono esercitarsi tra gli individui, in seno a una famiglia, in una relazione pedagogica, nel corpo politico. [Altra cosa sono gli] stati di dominio, in cui le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li modifica, sono bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità del movimento – con strumenti che possono essere economici, politici o militari –, ci si trova di fronte a quello che può essere definito uno stato di dominio. È certo che, in un simile stato, le pratiche di libertà non esistono, esistono solo unilateralmente o sono molto circoscritte e limitate» (Foucault 1998b: 275). E altrove: «Il potere viene esercitato soltanto su soggetti liberi, e solo nella misura in cui sono liberi. Con ciò intendiamo individui e soggetti collettivi che hanno davanti un campo di possibilità in cui parecchi modi di condotta, numerose reazioni, diversi tipi di comportamento possano essere realizzati […] la libertà [è] la condizione di esercizio del potere (Foucault 1989: 249)». Tralascio qui, volutamente, l’opposizione al dominio, che ci porterebbe alla questione della “liberazione” o alle lotte di liberazione, le quali a loro volta aprono «un campo per dei nuovi rapporti di potere» (Foucault 1998b; 276).

Foucault sostiene, dunque, che le relazioni di potere, distinte dagli stati di dominio, sono state definite come un modo per strutturare il campo delle risposte possibili da parte dell’“altro”. L’esercizio della libertà, le pratiche di libertà come le chiama

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Foucault, possono dunque coincidere con ‘altri’ processi di soggettivazione che costituiscono una maniera autonoma di condursi all’interno degli spazi lasciati liberi dal potere (Domenicali 2014). Vincenzo Sorrentino (2008: LI) fa notare come nell’ultimo Foucault il potere appaia sempre ancorato ad individui concreti e non astratto, né tantomeno ad una specie di “inconscio collettivo”, poiché «se parliamo delle strutture o dei meccanismi del potere, è soltanto nella misura in cui supponiamo che alcuni lo esercitino su altri» (Foucault 1989: 24646). In realtà, anche in precedenza

Foucault si era occupato della capacità e delle possibilità di resistenza dei soggetti, in maniera assolutamente esplicita: «non ci sono relazioni di potere senza resistenze; […] queste sono tanto più reali ed efficaci quando si formano proprio là dove esercitano le relazioni di potere; la resistenza al potere non deve venire dal di fuori per essere reale, ma non è neppure già intrappolata per il fatto di accompagnare il potere. Esiste quanto più e là dove è il potere; dunque è anch’essa molteplice e integrabile in strategie globali» (Foucault 1978c: 28). Dinanzi alle accuse di teorizzare un potere assolutizzante – cosa che rifuggirebbe come “un pasto indigesto” – Foucault non smette mai di affermare la dimensione relazionale del potere: il potere non esiste in sé, ma è sempre situato nelle «relazioni di potere, che nascono incessantemente, come effetto e condizione di altri processi» (Foucault 1978b: 8). In quanto «azione su un’azione», presente oppure futura, la “relazione di potere” riconosce l’altro come soggetto che agisce e pertanto offre sempre un campo di reazioni possibili (Sorrentino 2008: XLVI). Sulla scorta di queste riflessioni foucaultiane sono nate tutte quelle analisi antropologiche e quegli studi interessati a cogliere le diverse forme di resistenza – più o meno consapevole ed esplicita – e di agentività “tattica” (De Certeau 2010) degli attori sociali “soggetti” ai dispositivi e ai sistemi di controllo governamentali.

Tra questi studi, Akhil Gupta e James Ferguson (1997: 17-25), concettualizzando la resistenza nei suoi aspetti congiunturali, trasformativi e strategici, la descrivono come un’esperienza tesa a costruire e ricostruire le identità soggettive e a trasformare le relazioni di potere. «Non si può infatti parlare di resistenza in termini assoluti: essa può esistere solo in relazione a strategie di potere che sono sempre mobili, molteplici e mutevoli. Non va dunque intesa come un contro-discorso che si opponga frontalmente ad un discorso di potere: i discorsi, secondo Foucault, sono elementi tattici che

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operano nel campo delle relazioni di forza. Pertanto, all’interno di una stessa strategia possono coesistere discorsi diversi, o addirittura contraddittori, e, al contrario, gli stessi discorsi possono circolare da una strategia all’altra senza cambiare forma» (Villanucci 2014a: 53). Le pratiche resistenti a una particolare strategia di potere non sono quindi mai “innocenti” o al di fuori del potere, poiché esse serbano sempre la capacità «di essere strategicamente appropriate e di essere dispiegate all’interno di un’altra strategia di potere, sempre a rischio di scivolare dalla resistenza alla complicità»47 (Gupta, Ferguson 1997: 19). Paradossalmente, dunque, la resistenza può

avere l’effetto di mantenere o rafforzare lo status quo, eppure in entrambi i casi essa produce non solo il successo o il fallimento tattico, ma un effetto formativo sul soggetto resistente (ibid.).

A conclusione di questo paragrafo in cui ho cercato, sinteticamente, di ricordare l’apporto teorico di Foucault all’analisi antropologica, mi preme fare delle ultime considerazioni, riprendendo alcune questioni affrontate in precedenza. Se rifiutiamo una visione essenzialistica dello Stato, vedendo quest’ultimo come l’«effetto mobile di un regime di governamentalità molteplici» (Foucault 2005b: 75), che operano attraverso un insieme di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche» (Foucault 1978a: 28), allora il concetto di ‘ritirata’ di quello stesso Stato assume tutta un’altra luce. La ‘decivilizzazione’ e la desertificazione di spazi urbani (Wacquant 2008b), l’abbandono sistematico e strutturale di ampi settori dello stato sociale, possono meglio apparire come un insieme di strategie e pratiche di potere ben precise, che – lungi dall’essere un progetto politico uniforme e uni-diretto (Wacquant 2013) – trova la sua attuazione a partire da un momento storico determinato: la crisi petrolifera del 1974 e l’abbandono delle politiche economiche keynesiane fino ai giorni nostri; il configurarsi di una società post-industriale; l’emergere di modalità di governo che prendono forma su campi politici attraversati da forze e poteri esterne agli stati nazionali. Il neoliberismo, che si attua al crocevia di tali diverse congiunture storico- politiche-economiche, può essere allora letto nella duplice valenza foucaultiana di ‘discorso’ e insieme di strategie di poteri.

Interessante sarà, allora, nell’ottica comparativa della presente tesi, ragionare su – e attraversare – spazi etnografici tanto distanti, la periferia romana e i nuovi scenari urbani nell’Etiopia settentrionale, a Mekelle, per contestualizzare di volta in volta quei

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discorsi, quelle retoriche e strategie di poteri, con le pratiche di ‘soggetti’ ai margini di grandi trasformazioni sociali: in entrambi i contesti di ricerca l’essere giovani sarà il minimo comune denominatore, ma anche questo tratto, lo si vedrà in seguito, sarà inafferrabile se non collegato ai processi di soggettivazione declinati nei rispettivi campi locali. In entrambi i terreni di ricerca il definire (o auto-definirsi) «soggetto delinquente» o «soggetto non delinquente», sarà letto in maniera processuale, cercando di decostruire i differenti livelli dei discorsi e facendo emergere «giochi di verità e pratiche di potere» (Foucault 1998b: 283). Ci si interrogherà sul “gangsterismo” come pratica discorsiva e definitoria, come strategia di governo appunto, e come controparte ‘pubblica’ di locali “dispositivi di sicurezza”, strumenti tecnici essenziali per le moderne pratiche di governamentalità (Foucault 1978a: 28). Le etnografie che seguiranno tenteranno anche di fare emergere il tratto della ‘resistenza’, intesa, come abbiamo visto, nella sua valenza di margine di libertà, interstiziale alla produzione di soggettività – ovvero ai processi di soggettivazione – operata sui giovani interlocutori delle aree urbane più disagiate dei contesti in esame, da parte di ‘altri soggetti’ forti. Cercherò di interrogarmi su un ulteriore aspetto, prima sfiorato, che emerge dal pensiero foucaultiano. Si è detto che il potere è non solo