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PARTE I. PERCORSI TEORICI

I.1 Bande giovanili e studi sociali

I.1.3 Oltre la formula delle bande giovanili e gli approcci etnografici

Nell’ultimo quindicennio, contestando aspramente la prospettiva criminologica dominante che colloca le “bande giovanili” in un’ottica di patologia sociale, si è sviluppato un movimento di ricerca che propone il ritorno ad un orientamento teorico basato sulla ‘resistenza’ e che si ispira a letterature generalmente non contemplate dalla criminologia tradizionale. È in quest’ottica che Brotherton e Barrios (2004: 23) propongono drasticamente di sostituire i termini “gang” o “banda giovanile” con l’espressione “organizzazione di strada”. Ovvero: «un gruppo formato in gran parte da giovani e adulti, provenienti da classi marginalizzate, che ha come obiettivo di fornire ai propri membri un’identità di resistenza, un’opportunità di rafforzarsi ed emanciparsi (empowered) sia individualmente che collettivamente, una capacità di discutere e sfidare la cultura dominante, un rifugio dalle tensioni e sofferenze della vita quotidiana del ghetto, ed infine una enclave spirituale in cui possono essere generati e praticati rituali considerati sacri»9.

Luca Queirolo Palmas (2006: 158-159) ci ricorda che, seguendo tale prospettiva, «le

street organizations non possono essere analizzate in termini di disfunzionalità né di

riproduzione sociale; al contrario le loro pratiche contribuiscono a generare specifiche situazioni di resistenza/trasformazione dell’ordine sociale e culturale dominante. Tre processi vengono individuati come elementi portanti di una ridefinizione dal basso (rispettivamente psicologica, cognitiva, sociale) di tali esperienze: recovery, renaming,

reintegration». Recovery indicherebbe la capacità dell’organizzazione di accogliere al

suo interno persone con un passato esperienziale traumatico, quale il carcere o una migrazione, fornendogli appoggio, sostegno e caricando il presente di una forte valenza affettiva; per renaming si intende la capacità di costruire individualmente e collettivamente nuovi valori, anche alternativi o antagonisti a quelli della cultura dominante; reintegration fa riferimento alla possibilità di reinserimento nel sociale all’uscita dal carcere, laddove l’organizzazione di strada diviene casa e seconda famiglia.

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In Europa sono emerse in questi anni ricerche simili a quelle condotte da Brotherton e Barrios su organizzazioni di strada come i Latin King e i Ñetas, organizzazioni che si erano ‘riprodotte’ sul nostro continente in relazione al fenomeno migratorio. Tra le più importanti esperienze, cariche di progettualità calata nel sociale, ritroviamo proprio quella del gruppo genovese con in testa Queirolo Palmas. Questi ricercatori, per loro stessa ammissione, si sono avvicinati al fenomeno delle bande di strada incuriositi dal clamore mediatico che accompagnava l’emergere delle gang dei latinos, in Spagna a Madrid e Barcellona, così come in Italia a Genova e Milano. Il carattere europeo di queste bande, fenomeno trans-nazionale, ma fino ad un certo punto, lo chiarisce bene Queirolo Palmas: «Ciò che appare interessante è il carattere aperto alla reinterpretazione dell’appartenenza alle organizzazioni di strada nella misura in cui queste divengono esperienze globali, mosse dai movimenti migratori e dai diversi approdi che questi sperimentano nei contesti di ricezione. Latin Kings e Ñetas divengono da un lato loghi che possono essere ceduti in franchising e quindi risignificati a livello locale, dall’altro spazi di comunicazione e di agency transnazionale; capire che cosa risiede dietro queste esperienze dipende da un lato dalle caratteristiche di chi gestisce il marchio a livello locale, dall’altro dal ruolo delle istituzioni pubbliche e dei media, dalla discriminazione esistente o percepita, dai canali di partecipazione e di rivendicazione possibili per la popolazione di origine immigrata» (ivi: 159).

In Italia la ricerca realizzata con i giovani di queste organizzazioni si è focalizzata sul loro carattere transnazionale, riflettendo da un lato sull’esistenza di una dimensione metropolitana globale che tende a segregare e stigmatizzare i giovani migranti e di seconda generazione (Queirolo Palmas 2010), dall’altro sulla necessità degli stessi di acquisire visibilità e rispetto, mediante l’accumulazione di un capitale simbolico e culturale composto da un misto di fattori estetici, rituali e disciplinari (Queirolo Palmas 2009). Definirsi nei nuovi spazi urbani come giovani latinos, membri di un’organizzazione di strada, appare come una costruzione identitaria che prende le distanze, interpretandole, sia dalla società di provenienza che dalla società di arrivo. I giovani latinos incontrati dal gruppo genovese erano per lo più ragazzi giunti in Italia a seguito della migrazione familiare, nel senso che erano trascinati dalla migrazione familiare, non l’avevano cercata, per trovarsi poi proiettati in un contesto culturale che li caricava di invisibilità e inferiorità simbolica. Queirolo Palmas (2009: 135) nota

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come «scegliere di essere membri di un’organizzazione della strada significa sottrarsi collettivamente ad uno statuto di invisibilità […] offrirsi agli sguardi e contestare la definizione della propria presenza come inopportuna, rivendicare con la prossimità visiva una relazione con la società ricevente». La resistenza diviene un paradigma attraverso cui leggere pratiche di solidarietà, mutuo soccorso e riconoscimento culturale in risposta ad una subalternità materiale e simbolica percepita come strutturale. Tra i ricercatori del gruppo genovese, Francesca Lagomarsino (2009a) mette in luce come la questione della solidarietà sia fondamentale per comprendere a pieno tali organizzazioni di strada e il loro universo simbolico, nonché come questi gruppi, in termini sia affettivi che materiali, finiscano per costituire una vera e propria dimensione sostitutiva delle famiglie d’origine, talvolta integralmente o parzialmente assenti a causa della migrazione, o costrette a sacrificare tempo e cure per i figli pur di sostenere gli obblighi dell’accoglienza nella società di arrivo (lavoro e sacrificio ‘a tutti i costi’ per il mantenimento dello status legale di immigrato).

Le organizzazioni seguite dai ricercatori genovesi creano un’appartenenza ad una “raza latina”, la creano nel senso che la dimensione etnica è importante in quanto a costruzione del discorso e nel linguaggio utilizzato, ma non nelle regole che sanciscono l’adesione al gruppo. La ‘latinità’ permea la ritualità degli incontri (feste, eventi sportivi, momenti aggregativi, ecc.), le cerimonie e la simbologia. Chiunque allora può entrare a far parte dell’organizzazione, purché ne condivida le regole e si impegni a rendere attiva (visibile) la “fratellanza” (Lagomarsino 2009a: 45). Vi sono così ragazzi italiani che entrano in un’organizzazione di strada “latina” poiché con il gruppo già condividevano lo stesso ambiente, gli stessi stili di vita, le stesse aspettative. In genere, si tratta di ragazzi delle periferie urbane, le cui condizioni materiali non sono molto dissimili da quelle dei giovani migranti loro vicini di casa, e che con loro condividono stili espressivi e culturali come l’hip-hop e il rap, percependo gradi simili di discriminazione sociale (Cannarella 2011). Così, per tornare a Barrios che ricostruisce la storia dei Latin Kings negli Stati Uniti, i giovani delle organizzazioni di strada sono «imbevuti culturalmente dello stare lì, fisicamente ed emozionalmente presenti, per i loro fratelli e sorelle. Per loro questo è un atto di

classe»10 (Barrios 2008: 35).

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Sempre tra i ricercatori del gruppo genovese, Massimo Cannarella (2009) affronta le tematiche del rapporto delle organizzazioni di strada con le istituzioni, delle loro letture da parte dei mass-media e dell’opinione pubblica, nonché del discorso della ‘violenza’. Non si nasconde che questi gruppi di strada usino la violenza come mezzo di affermazione e di comunicazione, ed in tal senso questo è spesso l’aspetto più evidente della loro esistenza. Tale dimensione ha prodotto però la costruzione del panico mediatico da parte degli “imprenditori della sicurezza” (Cannarella 2009: 128), quali politici, soggetti economici, attori sociali interessati alla crescita della relativa domanda di sicurezza per questioni di profitto. I ricercatori genovesi hanno investigato anche i modi in cui le notizie filtrano al grande pubblico e gli schemi di comunicazione adottati dalla polizia locale. Hanno notato come sia la polizia a fornire direttamente ai media un contenitore narrativo (le gang in ‘stile americano’), creando così il mito della banda di delinquenti organizzata, superando di gran lunga la descrizione di una microcriminalità disorganizzata e casuale (Cannarella 2011). I ricercatori dell’Università di Genova hanno avuto il merito di operare una “ricerca azione partecipata”, sperimentando anche forme di restituzione, coinvolgendo gli attori sociali investigati sia nella produzione del sapere stesso che in un processo di “emersione”, cominciato nel 2005 sulla scorta di quanto era accaduto un anno prima a Barcellona: nella città spagnola la municipalità aveva promosso un processo di riconoscimento pubblico e “legalizzazione” dei Lating King e dei Ñetas, proponendo loro di «divenire parte delle politiche giovanili della città, in cambio di adesione ad un percorso di abbandono della violenza» (Cannarella, Mei 2009: 18)11.

Mauro Cerbino – come anticipato in parte – ha preceduto il lavoro dei genovesi sui Latin King, dapprima a Barcellona12, per poi continuare in Ecuador, Porto Rico e New

11 Il processo di emersione nel contesto genovese, rispetto a quello spagnolo, ha goduto di una copertura

politica parziale da parte dell’amministrazione cittadina e si è concluso dopo circa quattro anni di lavoro (Queirolo Palmas 2009; Cannarella 2011). Il risultato più evidente a Genova (il processo di emersione delle ‘bande’ fu esteso anche a Milano) fu forse la fine di scontri aperti tra gruppi di strada, con il raggiungimento di una pace nel 2006, facilitando da parte di questi gruppi pratiche trasformative dello stigma in emblema e accoglienza, in rivendicazione di diritti (dei migranti, come delle classi subalterne) attraverso strategie di sensibilizzazione nel contesto sociale (Cannarella 2009: 131).

12 Un altro gruppo di ricercatori (Feixa, Porzio, Recio 2006; Feixa 2006), a Barcellona, si è occupato

dell’esperienza delle organizzazioni di strada nel contesto migratorio europeo. Adoperando il concetto di “etnogenesi” – processo attraverso cui giovani migranti o figli di immigrati si scoprono e inventano

latinos nelle società di arrivo (cfr. Queirolo Palmas 2006) – questi studiosi interpretano le modalità

attraverso cui tali attori sociali tentano di fronteggiare una “tripla crisi” (Feixa 2006): «la crisi dell’adolescenza, la crisi di una famiglia transnazionale disseminata fra Americhe e Europa, la crisi del vuoto prodotto dall’emigrazione» (Queirolo Palmas 2006:154). In tal modo l’etnogenesi permetterebbe di superare la condizione di “doppia assenza” (Sayad 1999) per accedere ad uno spazio di “doppia

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York (Cerbino 2009). Lo specifico contesto sudamericano porta a focalizzare maggiormente l’attenzione sul capitale culturale conflittuale delle pandillas, portando al centro dell’investigazione il rapporto dei giovani con la violenza, sia agita che subita (Cerbino 2004), il maschilismo egemonico riprodotto nelle pratiche sociali del gruppo, i significati morali della leadership in seno al gruppo. Diventa centrale, in Cerbino, la valutazione delle politiche duramente repressive adottate da governi come Messico e Colombia per fronteggiare il fenomeno delle gang; la critica dell’autore si concentra sull’esito di tali politiche, atte ad aumentare, anziché arginare, in chiave antagonista, la violenza degli stessi giovani di strada, già immersi in un clima minato da abusi di potere della polizia e dell’autorità costituita, da condizioni storiche e sociali, come le continue guerre civili, dalla percezione di governi corrotti e distanti (Cerbino 2004: 58; 2009). La violenza giovanile presa in esame dall’autore andrebbe allora ripensata, non più come espressione di comportamenti devianti o come patologia sociale, quanto come un ‘terzo luogo’ nel quale molti giovani gestiscono frustrazioni, conflitti e aspirazioni nella società contemporanea.