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PARTE II. ITALIA: R-ESISTENZE DALLA PERIFERIA ROMANA

II.2 Marozia: la città nascosta

II.2.1 Come sei arrivato qui?

A nord ovest della grande e fagocitante metropoli romana, Marozia57 sorge arroccata e dimenticata. La domanda più volte rivoltami durante la mia attività sul campo è stata certamente “Come sei arrivato qui?”, altre volte “Come conoscevi Marozia?”. Non sono domande banali, seppur spontanee non sono per nulla scontate. Queste domande meritano un momento di riflessione, uno scivolamento dalla leggerezza con cui io stesso le ho accolte ad una consapevole constatazione. Chi mi parla sa di essere in un mondo “nascosto”, in un angolo di città che non si palesa facilmente al cittadino metropolitano. Certo, di Marozia hanno talvolta parlato le televisioni, anche nazionali, i giornali e il web. Finanche il cinema vi ha fatto recentemente un ingresso lampo, in questa ‘esotica’ cornice di periferia. Ma altrettanto fulminee sono state e sono le ritirate da questo luogo, facile oggetto di pregiudizi e di ‘selettiva’ dimenticanza. E, dunque, ne racconto brevemente la storia.

Non molto tempo fa, negli anni Ottanta, vi era un’area del quadrante ovest della Roma capitale, sulla strada per l’aeroporto, ancora dominata dalla campagna. Qualcuno, dal ‘palazzo’ delle politiche cittadine, appoggiò allora un’idea – di un soggetto privato – per la creazione di un nuovo polo residenziale, ma solo per ‘forestieri’ di passaggio, un magnete per attrarre clienti di un certo livello, prima che questi prendessero il largo per altri lidi, o meglio per altri voli. Nell’area metropolitana più prossima si ergevano alcuni importanti edifici, come ad esempio un ospedale abbandonato in attesa di riconversione, per il quale alcune ‘voci’ di palazzo auspicavano l’imminente realizzazione di un nuovo polo universitario. Questo blocco di residenze temporanee si

57 Per tutelare la riservatezza dei miei informatori e di coloro che hanno collaborato alla ricerca, prendo

in prestito un toponimo inventato da Italo Calvino. Tra le molte “città invisibili” dello scrittore, ho scelto Marozia perché il racconto in questione mi ha fornito più di una suggestione nel rileggere le testimonianze e le esperienze etnografiche raccolte nella periferia romana. Tutti i nomi degli interlocutori, sia occasionali che assidui, di tutti i protagonisti di questa ricerca sono fittizi.

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sarebbe così ‘venduto’, o meglio affittato ciclicamente, oltre che ai clienti e al personale viaggiante dell’aeroporto, anche a professori e studenti universitari. Prendeva così corpo il progetto di un ennesimo non-luogo, che avrebbe offerto un tetto e un letto ad una indistinta fiumana di vite in transito, in un’area che allora era ben distante da qualunque negozio o attività commerciale o spazio sociale ‘reale’, un luogo privo di linee di trasporto pubblico, che lo collegassero con il resto della città. L’idea era di creare determinati servizi proprio all’interno di questa isola della transitorietà. L’azienda costruttrice, che chiamerò ‘Soldo S.p.A.’, aveva, su tali premesse imprenditoriali, ottenuto la licenza per realizzare il progetto, ed avrebbe pensato a tutto: l’area sarebbe stata formata da sei palazzine, di soli monolocali di trenta- quaranta metri quadri con un bagno (dunque qualcosa di molto più simile ad una struttura alberghiera che ad un complesso di condominii); al centro di questa nuova isola urbana ci sarebbero state otto grandi strutture di un solo piano, destinate ad ospitare i negozi per l’approvvigionamento di beni di prima necessità, nonché altri servizi utili, in modo che l’utenza avrebbe evitato di metter piede fuori dal grande muro di cinta. Aspetto non da poco conto, infatti, questo luogo sarebbe stato una sorta di transitoria gated community, uno spazio ‘sicuro’ e protetto.

Le cose vanno, invece, diversamente. Dopo due anni dall’apertura del cantiere, il complesso alloggiativo è realizzato solo per metà: gli edifici hanno le mura, un tetto e le scale, mentre l’impianto fognario non è terminato, gli ascensori sono presenti ma non funzionanti, le rifiniture interne sono totalmente assenti. Il polo universitario non viene realizzato in questo quadrante urbano e la strada per l’aeroporto è tutt’altro che un’agile arteria in grado di rendere fattibile lo ‘spostamento’ di clienti viaggiatori da Fiumicino. L’affare dei privati è saltato. Anzi, non è mai partito come dichiarato nelle intenzioni. Ma per il costruttore ci sono altre possibilità. La ‘Soldo S.p.A.’ ritiene più conveniente bloccare i lavori e ‘attendere’ un acquirente pubblico; nel 1989 il Comune di Roma decide di acquistare questa ‘isola’ residenziale per ottemperare alla gestione dell’emergenza abitativa: si intende trasformare Marozia in un comprensorio di alloggi temporanei (cioè per un massimo di sei mesi) per chi non ha un tetto sulla testa e versa in condizioni di indigenza. Ma già da qualche anno, diversi ‘comitati’ e movimenti di lotta per l’abitare, insieme a centinaia di sfrattati stanno occupando alloggi

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abbandonati, disseminati nella capitale58. Queste situazioni non sono rare in quegli anni, dato che i grandi imprenditori dell’edilizia, alimentati da fondi pubblici, hanno appreso che costruire ‘a singhiozzo’ rende molto di più: molti cantieri sono, infatti, lasciati a metà, in attesa di drenare nuovi finanziamenti per il loro completamento. Così, nei lunghi periodi in cui le abitazioni quasi finite restano abbandonate a sé stesse, in attesa della nomina di una delibera comunale ad hoc, qualcuno in particolare e alcuni ‘comitati’ in generale si organizzano: un tetto bucato e una parete di mattoni è sempre meglio di un ponte sul Tevere, dunque le occupazioni proliferano.

Per tutta la prima metà degli anni Novanta i monolocali delle sei palazzine di Marozia vengono progressivamente occupati. Ai primi senzatetto di fine anni Ottanta si accodano – o si sostituiscono – intere famiglie, anche assistite da qualche comitato, alcune delle quali hanno già tentato altre occupazioni ‘spontanee’, che però sono, in un modo o nell’altro, fallite o si tratta di ‘sfrattati’ da altre ‘realtà critiche’, che per motivi di ordine pubblico sono state sgombrate. Un esempio è il caso di Errico, 53 anni, ex- operaio di una industria farmaceutica, attualmente disoccupato:

58 Preziosa è la sintesi offerta da Vereni (2015a: 150-151): «Roma italiana vive una cronica “emergenza

casa” diffusa, più evidente nei quadranti Est e Sud, storici bacini dell’afflusso migratorio. Con una sintesi forse estrema, possiamo dire che la crescita urbanistica di Roma è interpretabile come la sistematica riduzione degli spazi fisici del welfare, se con questo termine intendiamo la disponibilità di servizi tesi a migliorare non solo le condizioni materiali dei cittadini, ma anche le loro esigenze di socialità. L’emergenza abitativa si manifesta fin dai primi anni Sessanta soprattutto nella sua dimensione di sussistenza, con una popolazione consolidata di senza tetto, baraccati e abitanti di case fatiscenti e comunque inadeguate, raggruppate nei borghetti spontanei, ma già attorno alla metà del decennio un nuovo clima sociale produce forme originali di protesta e di rivendicazione del diritto alla casa, in particolare con occupazioni di massa di case popolari non ancora assegnate. Inizia così una stagione di incrocio tra iniziativa politica extraparlamentare e attività illegale delle occupazioni a scopo abitativo, che proseguirà a fasi alterne fino agli anni Ottanta, quando comincerà a prendere forma un modello di occupazione molto diverso [...] Sofia Sebastianelli [2012] ha elencato con chiarezza le differenze tra le occupazioni che venivano condotte a cavallo degli anni Sessanta e quelle che invece sono ripartite dagli anni Novanta. Per prima cosa sono mutati il contesto socio-economico di fruizione e il tipo di partecipazione alle iniziative legate alle occupazioni. Negli anni Sessanta, possiamo dire, le occupazioni erano il demartiniano “ingresso nella storia” delle classi strumentali e subalterne urbanizzate da poco. Si trattava in larghissima maggioranza di famiglie di origine centro-meridionale con un recentissimo passato di lavoratori della terra che, arrivate in città, non avevano potuto accedere ad alloggi dignitosi per ragioni di censo [...] Per queste persone l’occupazione era dettata in buona misura da una necessità primaria, l’estrema povertà. [Dagli anni Novanta soprattutto], invece, le persone colpite dall’emergenza abitativa non appartengono esclusivamente al (sotto)proletariato urbano, visto il progressivo innalzamento della soglia di povertà (anche a causa di un sistema di aspettative crescenti). Una seconda differenza tra le occupazioni degli anni Sessanta e quelle [anche oggi] in corso dipende dal tipo di edificio occupato. [In precedenza si] entrava a forza [...] negli alloggi dell’Ina-Casa non ancora assegnati, perché [si] temeva che le assegnazioni fossero altrimenti condotte secondo criteri clientelari (legati soprattutto al sottobosco della politica comunale). Gli occupanti pretendevano l’assegnazione fuori lista perché si sentivano ultimi tra gli ultimi, esclusi dalla rete di conoscenze e piccole complicità che sola poteva garantire il soddisfacimento di questo diritto. [Da allora] la situazione è mutata in misura radicale. Non mancano nuovi casi di occupazione abusiva di alloggi popolari (realizzati anche scacciando il legittimo intestatario con metodi malavitosi), ma, sebbene questi episodi, come vedremo, destino una certa attenzione nei mezzi di informazione, una novità spesso trascurata è costituita dal fatto che le occupazioni in corso sfidano sovente il luogo comune della sacralità del possesso individuale e occupano edifici di proprietà privata, in molti casi non concepiti come destinati all'uso abitativo. Scuole dismesse, cliniche abbandonate, ma anche caserme e altri alloggi sono occupati con l’intento di riconsegnare “alla collettività” una porzione urbana percepita come sottratta indebitamente all’uso pubblico».

87 Sto qua dal 1994. Eravamo andati via da Bravetta… dal Residence Roma59, lo

conosci? Là era un macello serio… io so venuto qua co’ la famiglia. Sto palazzo all’inizio era er meglio, stava messo bene … ma nun è che venivi e ti davano un documento, ‘na sicurezza … era ‘na guerra, peggio de mo, che più o meno ci siamo stabiliti e ‘na metà de noi siamo ‘na comunità, ci conosciamo, ma prima era il far west. N’anno dopo che stavo qua co’ la moglie e i ragazzini, c’era uno che voleva casa, uno che ce minacciava… voleva entra’ per forza… ha dato fuoco al piano de sotto e noi nun potevamo uscì, pure se stavamo co le bombole del gas… o morivamo come topi o se uscivamo morivamo pe’ strada. Abbiamo resistito …. nun era come mo… la peggio gente veniva e poteva fa’ quello che voleva … era ‘na guerra! (Errico, 18/02/2018).

Errico dice di appartenere alla “prima generazione” di Marozia, vale a dire i primi occupanti, coloro che hanno vissuto i rischi maggiori di un drammatico momento ‘fondativo’. Sono questi “vecchi” – altro appellativo in cui si riconoscono – ad aver sofferto “tutto” pur di acquisire e mantenere la loro posizione vitale in questo spazio urbano. Vedremo ancora come da qui nasca il peso di una ‘posizione etica’ che distingue i vecchi dai nuovi abitanti di Marozia, siano questi ultimi stranieri o italiani, giunti da pochi anni per prendere il posto di qualcun altro o per occupare spazi lasciati

59 Si tratta di una nota vicenda romana, parallela in parte alla storia di Marozia. Il “Residence Roma”

viene edificato tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Il Gruppo Mezzaroma Costruzioni costruisce cinque palazzi di sette piani per un totale di 533 mini-appartamenti non residenziali, in parte progettati ad uso del personale di Alitalia, di cui non vi sarà mai traccia. Dal 1982 il Residence viene destinato dal Comune all’accoglienza temporanea per cittadini indigenti in attesa di una casa popolare. La permanenza “temporanea” degli inquilini si protrae fino alla metà degli anni Novanta. Agli inizi degli Ottanta la proprietà vende l’immobile all’Enpam (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Medici), rimanendo ‘gestore locatario’ del Residence, attraverso una società satellite. Alla fine degli anni Novanta riprendono lentamente le assegnazioni di case a chi ha una posizione nelle ‘graduatorie’ del Comune; il gestore inizia ad affittare a diverse comunità straniere che prendono dimora nella struttura pagando regolarmente l’affitto. Nel giro di poco si arriva al sovraffollamento, aggravato dal decadimento strutturale, dei servizi fognari e igienici in particolare; la situazione diviene un campo di tensioni che esplodono in una vera guerra tra ‘ultimi’: il «14 marzo 2001, una bambina di due anni muore carbonizzata in una roulotte parcheggiata nel cortile del “Roma”; 15 aprile 2004, muore un macedone di 27 anni, colpito da una spedizione punitiva [; il] 25 agosto 2004, il corpo di una ragazza di venticinque anni viene rinvenuto nei pressi del “Residence” [;] il 3 settembre, nella stessa zona viene ritrovato un altro cadavere; [...] alla vigilia della manifestazione organizzata dalle comunità straniere, viene accoltellato [...] un ragazzo senegalese; nella notte tra il 12 e il 13 novembre 2005, due giovani senegalesi rimangono feriti in un incendio doloso [; il] 22 gennaio 2006, una coppia di immigrati viene trovata senza vita nel cortile del “Bravetta”. I due sono stati prelevati dal loro appartamento, uccisi altrove e poi riportati nel cortile. L’evento di cronaca nera, ultimo di una lunga serie, porta il “Roma” sulle prime pagine di tutti i giornali e costringe il Comune ad accelerare i tempi della dismissione» (“Il Manifesto”, 17 Agosto 2006). Il Residence viene così ‘svuotato’ radicalmente: oggi è un ‘ecomostro’ che campeggia su via di Bravetta, con le pareti interamente abbattute, per evitare nuove occupazioni, facendolo piuttosto sembrare – dopo essere stato adoperato e ‘spremuto’ per anni – lo scheletro di un’opera mai finita, anziché ciò che resta del famigerato “hotel dei poveri”. Sul Residence Roma, Lombardi-Diop (2014) ha scritto di come una comunità di circa 800 senegalesi si fosse configurata, tra il 2001 e il 2006, in una sorta di “villaggio verticale”, non solo in termini di spazi dell’abitare, trasformati in luoghi ‘riprodotti’ di un villaggio ‘originario’ (ad esempio: la cucina all’aperto), ma anche come traslazione di reti parentali, solidali e, dunque, lavorative nell’ambito di uno specifico transnazionalismo. Cit. anche in Vereni (2015b: 138), il quale riflette su come «queste occupazioni autogestite e spesso caratterizzate in senso etno-nazionale, altri immigrati stranieri in emergenza abitativa, come gli antecedenti italiani degli anni Sessanta, [abbiano] incrociato i loro destini con quelli dei vari movimenti che si battono per il diritto alla casa [entrando] a pieno titolo nei ranghi delle occupazioni».

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ancora liberi (come garage, negozi o depositi abbandonati). Ciò che emerge in questa testimonianza è la violenza nella sua dimensione di motore scatenante e orizzonte morale di arrivo. Errico fugge da una ‘occupazione’ che egli definisce fuori controllo, quella di Bravetta, una situazione che mette a rischio l’incolumità della famiglia, ma comunque si trova a dover resistere ad altra violenza, estremamente feroce, dopo solo un anno dal suo arrivo. L’unica reazione è la resistenza – rischiosa – ad un assedio. La violenza, infatti, qui reale, pericolosa, brutale è al tempo stesso invisibile al resto della città e alle istituzioni. Essa è isolata e lontana dallo sguardo dei comuni cittadini, al di fuori delle mura perimetrali di Marozia. Questo è il “far-west” di Errico. Non vi è autorità (o legge) a cui far ricorso, perché per le autorità fuori dalle mura ciò che si presenta è uno scontro tra ‘criminali’: Errico avrebbe perso la posizione acquisita, la sua dimora, non solo scappando dal pericolo dell’assedio, ma anche chiamando e lasciando entrare le forze di polizia. La dimensione del nascondimento del quartiere abitativo, già insita nella pianificazione urbana – una cittadella murata e arroccata su una collina in campagna – riflette la dimensione di una violenza nascosta e taciuta già all’origine di una comunità. I primi abitanti di Marozia sono appunto coloro che hanno resistito alla prima ‘doppia violenza’ (delle istituzioni che li avrebbero scacciati e dell’arbitrio di altri soggetti privati intenzionati a scalzarli), una resistenza e una violenza fondative, appunto.

Ancora oggi, per entrare a Marozia bisogna arrivare in fondo ad una via tortuosa, in cima al colle dove è costruita l’intera struttura. Di fronte all’ingresso del comprensorio c’è un parcheggio vuoto, talvolta adoperato come deposito illegale di rifiuti ingombranti, ma spesso come scorciatoia per sbucare in auto da un’arteria stradale trafficata ad un’altra. Ad eccezione delle poche auto che passano per tale ragione – quindi di coloro che conoscono la scorciatoia, cioè pochissimi romani – nessuno passa di qui, nessuno si accorge di questa comunità, resa parzialmente invisibile da un grigio alto muro di mattoni che, come detto, in origine avrebbe dovuto tener separato questo spazio ‘unico’ – destinato a clienti in transito – dal resto del mondo urbano.

Le tre grandi palazzine denominate A, B, C formano un piccolo semicerchio e di fronte, quasi specularmente, si trovano gli edifici E, F e G, disposti in maniera più lineare l’uno di seguito all’altro. Al centro del complesso, sorgono dei campetti sportivi (uno di calcio, attualmente ristrutturato da una Onlus), che sarebbero dovuti essere i luoghi di svago dei clienti del progetto originario. Sempre tra le due fila di

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edifici, spuntano sei casupole, strutture di un solo piano, che al momento dell’occupazione erano magazzini e negozi mai finiti e abbandonati, serrate con grate di ferro. La gente del posto li chiama “bandoni”, parola mai sentita prima, che mi hanno spiegato richiamare lo stato di abbandono che li ha sempre caratterizzati negli anni. Vengono chiamati così ancora oggi, pur se alcuni di questi edifici hanno trovato una funzione. Una di queste casupole è divenuta sede di un comitato di quartiere, un punto di riferimento territoriale, sorto spontaneamente su iniziativa di alcuni ‘maroziani originari’, di cui ho appena parlato. Da poco più di due anni, uno di questi edifici è stato acquistato regolarmente da una congregazione evangelica peruviana, la quale, però, non ha né radici né seguaci a Marozia. La presenza degli evangelisti sudamericani ha portato ad un certo attrito sociale. La congregazione si comporta come una comunità bunker, chiudendosi e recintandosi nella sua proprietà: ha innalzato un muro e delle grate di protezione attorno alla struttura, tanto da destare preoccupazione e rabbia per presunti ‘sconfinamenti’.

Ce so’ venuti a rubba’ spazio nostro. Lì ci mettiamo le macchine e pure quel giardinetto là, che era pieno de erbacce, monnezza e siringhe se nun eravamo noi del comitato a pulirlo così rimaneva … se so’ allargati pure là. Dicono che è proprietà loro, ma nun ce credo, dicono che c’hanno le carte, e allora se devono vede’ ste carte (Ornella, 27-03-2018).

L’interlocutrice ribadisce la posizione dei primi residenti di Marozia, riuniti in comitato. Attorno a lei, ho avuto modo di raccogliere più voci, sempre molto critiche e aggressive verso l’arrivo di questi stranieri religiosi, che si barricherebbero nelle loro stanze a cantare e a suonare, rubando spazi alla comunità. Le accuse sono quasi sempre rivolte al fatto che se ora qualche soggetto privato ha comprato una parte degli spazi abbandonati (che erano rimasti in mano alla società costruttrice) è solo perché loro, i “vecchi”, hanno messo su un’opera di riqualificazione a proprie spese. Interessante che dopo anni di occupazioni, spontanee o organizzate, e – come si vedrà in seguito – anche illegalmente fittate e vendute, Ornella chieda, almeno in linea teorica, di voler vedere “le carte”. La novità è che dopo circa trent’anni, per la prima volta, la comunità vede insediarsi al proprio interno dei soggetti privati, dei proprietari che ‘usufruiscono’ dello spazio acquistato.

90 Qua se so scordati tutti de quello che abbiamo passato. Nun te potevi move de

casa, nun te potevi fida’ de nessuno fino a dieci anni fa. Che come te movevi, te veniva uno dentro e stavi pe strada. Pure il tuo vicino nun era amico tuo. (Viola, 18-02-2018)

I residenti ultraventennali hanno esperienza di altre occupazioni. Spesso i luoghi che hanno lasciato erano comunità di quartiere o condominiali già coese. Molti sono stati ‘cacciati’ da altre realtà abitative estremamente precarie, a causa di sgomberi e azioni istituzionali, più che sospinti dalla morsa della ‘delinquenza’ locale. Altri invece hanno inseguito la possibilità di trovare nuovi spazi per una famiglia ormai troppo numerosa.

Se capisce, se hai trenta metri quadri e siete in otto, tu stai col coltello tra i denti! Chi te conosce? Mors tua vita mea! (Vittorio, 18-03-2018)

Non è mai stata mia intenzione occuparmi nello specifico del fenomeno delle occupazioni a scopo abitativo. Nel contesto romano, queste sono state studiate da Piero Vereni (2015a), ed è da alcune sue considerazione che voglio partire per evidenziare la peculiarità di Marozia in tale ambito di pratiche sociali, laddove sono