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PARTE II. ITALIA: R-ESISTENZE DALLA PERIFERIA ROMANA

II.3 Gangster a Marozia

II.3.2 Caccia alla gang

Dopo due mesi di ricerca sul campo, a Marozia, mi rendo conto che ho parlato con molte persone: con i primi occupanti, con i membri del comitato di quartiere, con due poliziotti in borghese, attirati dalla mia “strana” presenza, con il gestore di una palestra di boxe, di cui parlerò ancora (una struttura anche questa ‘occupata’), con i volontari del doposcuola, con le suore missionarie, con altri ricercatori sociali, ma con pochissimi giovani. Quasi nessuno. Eppure, statistiche alla mano, Marozia è una delle aree periferiche con il più alto numero di giovani residenti (fino a 30 anni) nella capitale. Quando li incontro, i ragazzi sono per lo più in gruppo, fumano e chiacchierano lungo i muretti della piazzetta centrale e dei campetti sportivi. Il gruppo dei giovani rom napoletani ormai mi riconosce e non fa più caso al mio ingresso a Marozia.

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Ciò è dovuto al fatto che qualcuno ha garantito per me. Dopo essermi presentato come amico di Eva, la volontaria del doposcuola, qualcuno dei ragazzi chiede conferma e ne esco ‘pulito’, per dire così. Accade, infatti, che la mia informatrice rimane da sola a gestire un doposcuola di quindici alunni tra bambini e ragazzi, tra gli otto e i quattordici anni. Si tratta di un momento di crisi, come ne sono capitati altri: le associazioni di volontariato si sono ritirate – momentaneamente – perché si sono verificati episodi di “violenza” nel doposcuola78. I volontari, che per definizione non

sono degli impiegati salariati, decidono d’un tratto di non presentarsi più al doposcuola, spaventati dal ‘contesto’. Eva continua a occuparsi dei suoi studenti e lo fa, ormai, da esterna a qualunque associazione, proprio perché non condivide questa ‘ennesima’ forma di precarietà che incombe sia su coloro che offrono un servizio, sia sui bambini e i ragazzi che dovrebbero beneficiarne, per i quali ciò che quel sistema assicura sono, appunto, ciclici abbandoni. Propongo ad Eva di aiutarla per una settimana. Metto ben in chiaro che sono lì per svolgere ricerca ma, vedendola in difficoltà, ed essendole riconoscente per aver ‘sbloccato’ i primi contatti sul campo, la affianco in un doposcuola d’emergenza. Una settimana è anche il tempo necessario all’associazione di volontariato per trovare dei ‘rimpiazzi’ ufficiali.

Quella temporanea deviazione dalla ricerca, che – devo ammettere – mi pone alcune difficoltà per il mio posizionamento sul campo, cerco di gestirla negoziando il mio ruolo di volta in volta. Una richiesta che faccio ad Eva è di essere esplicita con allievi e genitori sulla mia presenza in quel contesto. Alla fine, il mio contributo si estende a due settimane. Il doposcuola ricomincia a funzionare normalmente.

Di quell’esperienza voglio qui raccontare gli effetti, piuttosto che lo svolgimento. Il gruppo dei rom napoletani non si sente tradito dalle mie prime dichiarazioni. Sa che ho smesso di contribuire all’emergenza del doposcuola, che non ne sono più parte attiva, ma non mi vede come un potenziale ‘rischio’.

78 Come accennato in precedenza e come spiegatomi dalla stessa associazione di volontariato, nonché

dalle suore missionarie che ospitano l’iniziativa, si è trattato – ed è accaduto più di una volta – di episodi in cui gli alunni del doposcuola, un po’ più grandi, tra i 12 e i 15 anni, hanno osteggiato i volontari e procurato danni alla struttura, scagliandosi per lo più contro arredi e oggetti vari. Si tratta di episodi che molti residenti del quartiere definiscono di “vandalismo”, a cui sono seguiti comunque momenti di riappacificazione tra gli allievi e i loro genitori da un lato e l’associazione di volontariato dall’altro. Come detto in precedenza, è da considerare che la formula del volontariato mette a disposizione dei ragazzi del comprensorio dei tutor perennemente precari: non si creano vere figure di riferimento e le azioni pedagogiche – specie se progettate per il ‘recupero’ – non possono, dunque, radicarsi; cambiando di continuo i volontari o i docenti, si riproduce solo un effetto ‘trattamento speciale’ per ragazzi/studenti ‘non normali’, un po’ la replica di quanto molti lamentano che avvenga nella scuola pubblica (supra: II.2.1).

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Nel doposcuola, gli alunni sono i fratelli e le sorelle minori dei ragazzi più grandi che si radunano nella piazzetta di Marozia o sulle scale antincendio (reliquie del vecchio progetto residenziale). La notizia che sono stato d’aiuto è giunta loro da Eva e da Umberto, il capo del comitato di quartiere, che i ragazzi più giovani chiamano tutti “zio”. Il gruppo a cui mi riferisco, formato da 13 ragazzi e 4 ragazze, di età compresa tra i 16 e i 26 anni, ruota attorno alla figura di Ahmed, 22 anni, egiziano arrivato in Italia con la famiglia all’età di quattro anni. Il gruppo di Ahmed convive a Marozia con quello di Mirko e dei rom napoletani. Di norma, i due gruppi si radunano separatamente e non vi sono troppi contatti, quando questi accadono, non sono rari degli attriti che, però, Ahmed sa gestire. Le reticenze di Ahmed e dei suoi amici verso di me sembrano diradarsi, così i ragazzi accettano di essere intervistati sia collettivamente che, man mano che li conosco, individualmente.

Durante uno dei nostri primi incontri, avendo da tempo osservato e ricevuto notizie sui gruppi giovanili del quartiere, o “comitive” come preferiscono ‘semplicemente’ chiamarsi gli attori coinvolti, decido di domandar loro chiarimenti riguardo a un avvenimento che ha preceduto di poco il mio ingresso sul terreno di indagine. Si tratta di un ennesimo ‘fatto di cronaca’, su cui immancabilmente si è espressa la stampa locale seguendo il filone narrativo del quartiere “Far West” e dello scontro tra bande.

Titolo: “Spedizioni punitive a Marozia. Botte e feriti tra bande rivali”. Le indagini. Due spedizioni punitive legate fra loro che hanno coinvolto decine di giovani […] e, in un caso, si è verificato l’assalto di uno stabile. Calci, pugni, colpi di spranga e sputi sotto i palazzoni [di Marozia,] da tempo nel degrado e dove si annida la criminalità che fa affari con la droga. Erano quasi le 23 di mercoledì, quando un anonimo ha segnalato alle forze dell'ordine il raid negli stabili [di Marozia]. Sul posto sono accorse le volanti e un’ambulanza. C’è stato un fuggi-fuggi generale e per terra è rimasto un nordafricano. Il personale medico ha curato un giovane sul posto mentre per lo straniero si è reso necessario il trasporto al pronto soccorso […] Pochi minuti dopo, i residenti […] hanno segnalato alla polizia l’arrivo di 15 persone armate di bastone, che sono salite ad un pianerottolo ed hanno cominciato a sfondare la porta d’ingresso. L’arrivo della polizia è stato risolutivo. Ha messo in fuga gli aggressori ed ha salvato da un pestaggio due ragazzi che si trovavano dentro l’appartamento. Gli investigatori hanno trovato la porta d’ingresso distrutta. I due ragazzi che erano all’interno sono stati trasferiti in un altro luogo proprio per evitare una nuova aggressione. Sconosciuti i motivi dei due pestaggi. Gli inquirenti non hanno ancora inquadrato in che contesto possano essere maturati. Anche il ferito non ha voluto dire cosa gli è accaduto (Quotidiano locale, novembre 2017).

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Messi dinanzi all’articolo, i miei interlocutori, cioè Ahmed e i suoi amici, non hanno nessuna remora ad ammettere che il giornalista stia parlando di loro. Prima di riferire la ‘versione’ dei ragazzi, essenziale per comprendere lo scarto tra immagine pubblica e auto-percezione locale dei miei informatori, faccio notare il forte contrasto – o meglio la contraddizione – tra l’incipit dell’articolo e la sua chiusura. Con il titolo e le prime quattro righe, l’articolo immediatamente vuole comunicare qualcosa di ‘certo’, si parla di “spedizioni punitive” tra “bande rivali” nel quartiere in cui si fanno “affari con la droga”; tutto sembra già chiaro dall’inizio: una guerra tra gang per il controllo del territorio e del mercato illegale di stupefacenti. In coda all’articolo, invece, troviamo, in totale contraddizione, la piena incertezza sull’episodio descritto: «Sconosciuti i motivi dei due pestaggi. Gli inquirenti non hanno ancora inquadrato in che contesto possano essere maturati».

Non intendo analizzare oltre il linguaggio giornalistico, né addentrarmi in questioni di opportunismo editoriale, se non collegandomi agli eventi e alle testimonianze dei miei informatori. Voglio però evidenziare che i protagonisti di questo episodio e altri membri della comunità di Marozia sono ben consapevoli che molta stampa ‘investe’ sulla ‘fama’ del luogo per creare notizie vendibili: nello specifico, il giornalista che ha scritto l’articolo di sopra, una ‘penna specializzata’ in certe tematiche e aree urbane, tra cui Marozia, ha vinto di recente un premio proprio per il suo ultimo “scoop” – cito dalle motivazioni pubbliche e pubblicate online – concernente una banda di minorenni che “spadroneggia” (senza condizionali) su un intero quartiere di Roma.

Gli abitanti di Marozia, e tra essi anche i più giovani, manifestano chiaramente la consapevolezza di un ‘discorso’ che dall’esterno si pratica sul territorio e su chi lo abita. Se si ha la possibilità di permanere, di trascorrere del tempo, in tale contesto, anziché attraversarlo indifferenti o rapaci, si è in grado di cogliere gli umori delle persone verso gli “imprenditori” della “sicurezza urbana” (Wacquant 2006: 39; Cannarella 2009: 128): così il sindaco e gli amministratori distrettuali di turno fanno “la passeggiata politica”, nelle dichiarazioni ‘diffidenti’ (o realistiche, a seconda del punto di vista) di chi abita il ‘degrado’ strutturale; così la polizia si prodiga in ‘operazioni’ che non aumentano la sicurezza sociale né scalfiscono in profondità i mercati dell’illecito, bensì, con qualche retata eclatante (si vedano le narrazioni cronachistiche del precedente paragrafo) raccontata in esclusiva a giornalisti ‘di

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fiducia’, ‘raccoglie punti’, cioè richiama l’attenzione mediatica per far pesare il proprio ruolo strategico nelle politiche securitarie urbane.

La versione dei miei interlocutori sull’episodio narrato nell’articolo è ben diversa dalla ricostruzione del premiato cronista.

I. Quale guerra tra bande? Le bande stanno nella testa loro (dei giornalisti)! Se succede ‘na cosa in borgata è ‘na gang de borgata, se succede qualcosa ai Parioli79 so’ tre ragazzi dei Parioli.

R. E cos’è successo?

I. Che se stavano a stupra’ ‘na ragazzina. R. Di chi parli?

I. I due marocchini che abitano alla palazzina là (indica)… so’ venuti qui da poco. Una ragazzina de Marozia, di quindici anni, stava sull’autobus e stava a torna’ a casa, loro se so’ avvicinati... sti due marocchini e ci so’ andati pesanti. E quindi s’è fatto quello che si doveva fare.

R. Cioè?

I. Tutti noi, quelli che stanno qua e anche ‘tutti’ gli altri ragazzi del posto, siamo saliti su casa e gli abbiamo spiegato come ci si deve comporta’… che se vogliono vivere qua devono rispetta’ la gente che già ci abita, che non devono permettersi di molesta’ ragazzine e fa’ come cazzo glie pare… gliel’abbiamo detto in maniera forte, dai… in maniera “maroziana”80: sali

su, sfondi la porta, imbocchi in casa e pigli a pizze in faccia tutti quelli che stanno dentro, senza sentì ragioni, perché tu (l’aggressore) già sei andato fuori dal ‘rispetto’, già hai varcato la soglia, no?

R. Quindi è vera l’azione di gruppo?

I. Sì, ma so’ loro che stavano a sbaglia’… e li abbiamo messi a posto prima che sta storia si poteva ripetere, perché oggi hanno dato fastidio alla ragazzina, ma domani poi se ne violentavano una per davvero…

R. C’entra qualcosa che sono marocchini?

I. Che so’ marocchini no! Il razzismo qua dentro mi sa che sta pari quasi a ‘zero’. Convivono realtà ‘arabe’ con italiane tutti i giorni. Noi stiamo sempre insieme: Ahmed è egiziano, Tarek pure (parla dei membri del suo gruppo/comitiva) e questo qui (indica Amir) c’ha il padre egiziano e la madre marocchina. E ci stavano pure loro a menarglie di sopra!

R. Siete cresciuti a Marozia assieme, voi tutti. Quindi avete reagito in quel modo perché le persone in questione sono nuove, sono gli ultimi arrivati? I. Ma non c’entra vecchi o nuovi… c’è il fatto che vieni qui (si riferisce ai due

marocchini coinvolti), stai da solo, nun conosci nessuno e ti permetti di comportarti così senza sapere a chi dai fastidio? Comunque quello che hanno fatto era già ‘oltre’, al di là della famiglia di ‘provenienza’ della ragazza. R. Che vuol dire al di là della famiglia della ragazza?

79 Quartiere ‘bene’ di Roma.

80 Pur camuffando il nome del quartiere reale, conservo l’impiego aggettivante della registrazione

123 I. Nel senso che hanno rotto le palle alla pischella (“ragazzina”) sbagliata. Sti

posti funzionano così, se basano sul rispetto, sennò non funziona niente. (Intervista con Lucio, 29-03-2018)

Ho voluto riportare integralmente una parte importante della conversazione con Lucio, che poi è divenuta un’interessante intervista collettiva con gli altri giovani del gruppo e con Camilla, unica ragazza presente in quel momento. L’episodio della paventata “spedizione punitiva tra gang” è stato per me un interessante apri-pista sul campo. Lucio, ascoltato durante l’intervista dai suoi amici, che sembrano approvare quanto egli dice (talvolta facendogli eco), fa emergere diversi elementi fondamentali: i ragazzi si distaccano dalla versione giornalistica che li rappresenta come una gang. Mi ribadiscono, anche successivamente, che essi si riconoscono come un gruppo di ‘fratelli’, una comitiva, pur chiarendomi che, in un contesto come Marozia, crescendo e vivendo assieme quella data realtà, una comitiva non può mai essere paragonabile ad un gruppo di amici di un quartiere borghese. I ragazzi si sentono depositari di una ‘formula di comportamento’ locale, che avrebbero appreso attraverso la pedagogia del quartiere e delle occupazioni, come si evince incrociando la testimonianza di sopra con le parole di Umberto, il veterano occupante e capo del comitato di quartiere:

Hanno fatto bene, perché si trattava di una cosa grave e certe cose qui ce le sbrighiamo da soli. Da sempre ce la siamo sbrigati da soli. Secondo te che dovevamo fare? Chiamare la polizia? La polizia passa tutti i giorni qui. Non si occupa di queste cose. La polizia si fa’ sentire quando deve far vedere che ha fatto qualcosa… infatti so’ venuti dopo, a cose fatte. I ragazzi si so’ fatti rispettare e gli ho detto “bravi”. Ma quante volte dobbiamo fare lo stesso? Ad esempio, quando gli zingari del campo si mettono qui di fronte a trasformare lo stradone in una discarica… ogni tanto ci provano e noi partiamo e gli diamo addosso. Ma tu se non ci stai dentro non puoi capi’… (Umberto, 12-04-2018)

Umberto sottolinea una continuità d’azione tra la violenza come strumento per tenere ‘in ordine’ Marozia – quando si tratta di cacciare occupanti ‘molesti’, venditori ambulanti provenienti dal vicino campo rom – e l’iniziativa dei ragazzi verso i due aggressori stranieri. In realtà, l’elemento del ‘nuovo arrivato’, pur se inizialmente negato nelle parole di Lucio, è alquanto significativo in ciò che egli sostiene successivamente. I due marocchini – questo è ribadito da più voci nel comprensorio – sono uomini molto più grandi della ragazzina oggetto delle loro “moleste” provocazioni. Nei fatti, tali provocazioni non si sono mai trasformate in offesa fisica,

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nel senso di percosse, ferimento o peggio, altrimenti – a dire dei giovani come degli anziani interpellati – l’avvertimento non sarebbe affatto bastato. Lucio fa emergere un’aggravante, l’essere ‘nuovi’ è problematico non in quanto ‘nuovi’, ma in quanto si agisce ignorando (o non considerando) gli equilibri del “rispetto”, o del prestigio locale, tant’è che il mio interlocutore si lascia scappare che i due avrebbero toccato la ragazza “sbagliata”. Vengo a scoprire che la giovane, infastidita e aggredita dai nuovi arrivati è, appunto, la nipote dello stesso Umberto e la figlia di un altro personaggio, in passato coinvolto in traffici illeciti – ben noti alla popolazione locale e ai media – e che ha beneficiato ampiamente del processo di allargamento degli alloggi, costruendosi una solida base di privilegio locale.

Ciò che Umberto fa emergere è, poi, il continuum narrato tra una ‘violenza fondativa’, che ha fatto di lui uno tra i primi ‘occupanti forti’ – riconosciuto dalla generazione successiva, cioè i giovani maroziani di sopra, come ‘custode’ – e una violenza attuale ‘utile’ o giustificata:

Quando spaccano il doposcuola so’ vandali, quando intervengono per proteggere il quartiere e per far capire a chi sbaglia come si vive qui, allora è giusto. Non c’è altro da dire. (Umberto, 12-04-2018)

In realtà c’è altro da dire. Se una minaccia verso una giovane del quartiere da parte di un elemento estraneo (o comunque ‘pericoloso’) viene subito ‘punita’, allora sembra implicito, nelle parole degli attori coinvolti, un orizzonte morale comune a cui essi si richiamano: quel “varcare la soglia” nelle parole di Lucio, cioè un gesto che non può essere tollerato e per il quale è correlata un’unica azione, l’azione del gruppo. Non ho ascoltato solo la voce di Umberto a favore di questo intervento punitivo, ma anche di altre persone non ‘legate’ direttamente alla ragazza coinvolta. Eppure, la polizia è arrivata ed è stata chiamata, di certo né da Umberto, né dai ragazzi uniti in gruppo, né tanto meno dai due ‘presunti’ aggressori marocchini. L’articolo di giornale riporta che un anonimo ha segnalato alla polizia, addirittura, un “raid”, e questo rientra nel linguaggio mediatico mutuato dallo stile gangster che connota l’immagine pubblica di Marozia. Di certo, la chiamata alle forze di polizia, da parte di qualche vicino, indica che non tutta la comunità condivide le azioni discriminate – punitive – dei giovani, appoggiati dal gruppo – per così dire – dei ‘guardiani’, con in testa Umberto.