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L’amicizia e il dovere della fedeltà

Nel documento Autenticità di un pensiero relazionale (pagine 198-200)

di Mario Martini

Sento il dovere di intervenire in questa sede commemorativa come uno dei primi allievi, insieme al compianto Giulio Vagniluca, del professor Rigobello, appena chiamato a Perugia come docente di Storia della fi- losofia e poi di Filosofia morale. Ciò che ci avvicinò fu una sensibilità verso i temi della filosofia come testimonianza della verità e dell’impe- gno del pensiero nell’ambito sociale come personalismo comunitario.

Avevo chiesto la tesi di laurea al professor Pietro Prini, e la sua chiamata all’Università di Roma aveva lasciato in sospeso il mio interes- se per l’esistenzialismo; gli autori che proponeva il professor Rigobel- lo, Albert Camus e Emmanuel Mounier, venivano incontro a quel mio interrotto rapporto, integrandolo. Le ricerche su questa pista erano tuttavia per il momento messe da parte, sia per esigenze accademiche del nuovo professore cui mi ero rivolto, sia per il suo intento di appro- fondire teoreticamente le basi del discorso filosofico e della sua visione della realtà. Il professor Rigobello aveva da poco portato a termine un suo fondamentale lavoro sul trascendentale kantiano, e mi invitò a spostare la ricerca su questo tema. Il libro sul trascendentale fu da me recensito nel volume Logica e analisi dell’Archivio di Filosofia (1966) e altre mie recensioni apparvero nel Giornale di Metafisica e in Proteus.

Seguendolo su questa strada prendevo coscienza, con altri ricercato- ri dell’Istituto di Filosofia, dell’orientamento di pensiero che vi soggia- ceva. Un orientamento sostanzialmente antihegeliano e antistoricista che era sotteso a tutta un’area cui facevano capo parecchie correnti: dallo spiritualismo cristiano all’esistenzialismo, dalle filosofie del linguaggio e della scienza al personalismo sociale. In quest’ambito si inquadravano gli interessi del professore e in questa temperie ideale e filosofica io mi trovai a svolgere i miei primi impegni di lavoro e di studio.

Il nuovo docente aveva in breve tempo saputo creare attorno a sé una rete di vere amicizie, cui teneva molto, e mi coinvolse, insieme ad

altri giovani studiosi esordienti, in pubblicazioni varie: un saggio su

La rilevanza del trascendentale nel discorso religioso nel volume Ricer- che sul trascendentale kantiano (1973), che attrasse l’attenzione di Italo

Mancini, e uno su Reich der zwecke, universitas, comunità umana, nel secondo volume delle Ricerche sul “regno dei fini” kantiano (1974).

Ma mi diede anche una grande opportunità: andare all’Università di Monaco di Baviera a studiare presso la seconda cattedra di Filosofia, dove lui era già stato ed aveva allacciato ottimi rapporti di amicizia e di studio col titolare Helmut Kuhn e i suoi allievi Franz Wiedmann, Anselm Schurr e Alfred Schoepf. Di Kuhn poi Rigobello tradusse la monografia su Socrate e io in seguito tradussi di Wiedmann un saggio abbastanza particolare: un originale spaccato su alcune figure del pen- siero occidentale (Pensatori d’urto. Punti di vista controcorrente sulla

realtà come natura e storia, che fu pubblicato dalle edizioni Cultura

della pace di Ernesto Balducci a Firenze nel 1990).

Il contatto e la collaborazione con gli amici tedeschi continuò negli anni. Nel 1966 sia Kuhn che Wiedmann parteciparono a Gubbio al Convegno su Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento. Nel 1988 fui invitato al Convegno internazionale su Franz Brentano, che si tenne a Wurzburg (la prestigiosa sede universitaria nella quale si era trasferito il professor Wiedmann) nel 150° della nascita del filosofo, con una relazione sull’origine della conoscenza morale nel pensatore di Marienberg (“Sittliche Erkenntnis” bei Brentano und ihre Weiterwir-

kung in Italien) e i suoi echi in Italia, pubblicata poi nella rivista Bren- tano Studien (nel primo numero del 1988).

Dopo quella esaltante esperienza, al mio ritorno a Perugia stavano maturando le condizioni per una trasformazione dell’organizzazione degli studi, anche nell’Università, con forme di lotta degli studenti e anche di molti docenti, trasformazione nella quale si rispecchiavano le aspirazioni al cambiamento di tutta una società in via di sviluppo. Il confronto era tra ceti sociali, forze politiche, istanze economiche, e loro rappresentanza, insomma uno scontro di poteri cui la maggioranza del corpo docente non era preparata. E proprio il corpo docente, in par- ticolare quello accademico, reagì in gran parte vedendo la richiesta di una democratizzazione delle strutture, e della società, come un assalto alla dignità e all’autonomia degli studi, cosa che naturalmente ci fu da parte delle frange più irresponsabili della protesta studentesca, ma non era tutto.

Per me questa era la grande occasione che si aspettava: le condi- zioni perché la società italiana, la sua classe dirigente, i rapporti po-

litico-economici si trasformassero in senso veramente democratico, in un assetto sociale dove la persona umana avesse le opportunità di realizzarsi pienamente, magari secondo quei canoni di una democra- zia personalista e comunitaria che proprio Emmanuel Mounier aveva indicato. Vedevo invece, nella risposta che gli ambienti cui facevo capo in ambito universitario davano a questa prospettiva, un rigetto per me incomprensibile, una incongruenza sui termini del patto che credevo di aver contratto con loro; una risposta che mi si configurava con il volto duro del potere.

Lo scontro tra rinnovamento e conservazione lo potevo rinvenire sulla rivista alla quale tutti noi collaboravamo, il Giornale di Metafisica di Michele Federico Sciacca, l’autore del singolare libro Come si vince

a Waterloo, per il quale appunto il problema era come sconfiggere i de-

moni della Modernità. Col professore avemmo un colloquio nel quale ambedue credemmo di poterci appellare al detto che egli aveva ricor- dato in una memorabile lezione: Amicus Plato, sed magis amica veritas. In seguito, ho riflettuto a lungo su un equivoco alla base di certe decisioni, che allora non ebbi modo di disambiguare, e che poi ho mes- so a fuoco quando mi sono dedicato alla filosofia e alla pratica della nonviolenza (rimando al numero monografico della rivista Azione non-

violenta, a. 53, n. 616). Fui portato a riflettere su questo: la necessaria,

perché inevitabile, condizione della vita politica per cui, come Machia- velli ha mostrato, non si può fare a meno del potere per conseguire un risultato, trova i suoi limiti nella definizione del bene come risultato commisurata alla legittimità del potere come violenza. Se questo è vero, mi sentivo autorizzato a prendere le distanze dalla politica come potere in nome dell’etica, e semmai di una politica come servizio. Ciò che mi colpì non fu tanto di essere in qualche modo assimilato a quel campo cui non avevo e non ho mai appartenuto, quello della violenza, quanto di essersene serviti per la mia emarginazione, cui provvederà in seguito da “braccio secolare” – per così dire – Albino Babolin.

Con questa memoria desidero dare testimonianza (stiamo parlando di filosofia come testimonianza della verità) al professor Rigobello di avermi fatto percorrere con lui le strade di una filosofia della persona e dell’impegno, in una accezione che è certamente vicina a quella del suo autore preferito in questo ambito, Albert Camus. Qui, proprio sul tema su cui ho poi avuto modo di pubblicare un saggio – Forme dell’impegno

morale. Sartre, Adorno, Cioran (1991) – devo dire che tra i vari autori

che vi ho messo a confronto, certamente Walter Benjamin, Theodor W. Adorno e la Scuola di Francoforte, sono dalla parte dell’impegno per

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