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Il nucleo centrale dell’opera è costituito dagli ultimi due libri della seconda parte: «Pro e contra» e «Un monaco russo». Il primo libro pone attraverso Ivan il problema del male e della libertà dell’uomo. Nel secondo libro le memorie dello starec sono una risposta indiretta ai problemi aperti da Ivan.

235Ibidem, p. 220. 236Ibidem, p. 222. 237Ibidem, p. 228.

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I due fratelli, Ivan e Aleksej, hanno occasione di conoscersi meglio seduti a un tavolo in una trattoria. Qui il fratello intellettuale rivela al novizio i pensieri e i sentimenti che affollano il suo animo. Alëša è contento che il fratello, da egli stesso definito «un enigma»238, si apra senza riserve.

Ivan è dotato di un’ottima capacità dialettica. Questo aspetto della sua personalità emerge già nell’incontro con Zosima. Allo starec egli espone una sua tesi secondo cui lo Stato trasformandosi in Chiesa passerebbe ad una condizione superiore. Il giovane intellettuale è smascherato da Zosima nell’uso della logica separata da ciò in cui veramente crede239. Lo starec inoltre riconosce a Ivan «un

cuore nobilissimo» e capace «di ricercare cose sublimi», ma al tempo stesso «infelicissimo» e colmo di «disperazione»240.

Mettendo il suo animo a nudo Ivan svela il motivo della sua infelicità. Egli ammette l’esistenza di Dio benché secondo lui si tratti di un’idea inaccessibile alla sua «mente euclidea»241, vincolata alla realtà sensibile. Ciò che non riesce e non si

sente di accettare è il mondo che questo Dio ha creato. Ivan è angosciato dal problema del male, che permea la creazione, e particolarmente dalla sofferenza degli innocenti. Il dolore degli adulti spesso è meritato, la crudeltà nei confronti dei bambini invece è sempre immeritata. Su questo Ivan schernisce Aleksej: «Il tuo deve essere un buon Dio, se l’uomo l’ha creato a sua immagine e somiglianza»242. Se

l’uomo è così malvagio da non porsi alcuno scrupolo nel far soffrire un bimbo

238Ibidem, p. 317.

239 «Voi stesso non credete né nell’immortalità della vostra anima, né in tutto ciò che avete scritto

sulla Chiesa e sulla questione della giustizia ecclesiastica – dice lo starec a Ivan – […]. La questione non ha ancora trovato risposta in voi, questo è il vostro grande dolore, giacché essa esige improrogabilmente una risposta…» (ibidem, p. 98). E aggiunge: «Se [la questione] non dovesse risolversi in senso positivo, non si risolverà mai neanche in senso negativo» (ibidem, p. 98).

240Ibidem, pp. 98-99. 241Ibidem, p. 325. 242Ibidem, p. 331.

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innocente, come può un Dio buono aver creato l’uomo? Questo è il tormento del giovane Karamazov.

A che scopo – continua Ivan – è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l’uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e il male, se il prezzo da pagare è così altro? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo “buon Dio”243.

Il prezzo da pagare per l’armonia futura è troppo alto. Ivan con la sua povera mente arriva a comprendere che la sofferenza c’è e che non ci sono colpevoli per tale sofferenza. Lo strazio di un bimbo non trova risposta nel credere che il torturatore andrà all’inferno. Non è questo che consola il cuore afflitto della madre. Così il giovane studioso conclude:

Il mondo si regge sulle assurdità e senza di esse forse non sarebbe mai accaduto niente sulla terra […]. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto244.

Il problema del perché i giusti soffrano, cruccio di Ivan, è il tema centrale del libro di Giobbe. Quest’opera è molto cara a Dostoevskij, che ha imparato a leggere su questo libro con l’aiuto della madre. Quello di Giobbe è un testo che ha accompagnato lo scrittore anche nei periodi di prova della sua maturità245. Esso

243Ibidem, p. 335.

244Ibidem, pp. 337-340. Ivan chiede ad Alëša: «Perché anch’essi [i bambini] dovrebbero costituire il

materiale per concimare l’armonia futura di qualcun altro?», (ibidem, p. 338).

245 Dostoevskij tormentato scrive alla moglie: «Leggo il libro di Giobbe e mi dà un entusiasmo

morboso: butto via il libro e vado su e giù per la stanza per ore intere […]. Questo libro, Anja, è una cosa strana; è uno dei primi libri che mi abbiano colpito nella vita, ed ero allora quasi un fanciullo! – Oltre a questa lettura non c’è per me la più piccola distrazione» (F. M. Dostoevskij,

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intende confutare la tesi della giustizia retributiva diffusa nella cultura veterotestamentaria, secondo cui la sofferenza è la conseguenza di uno stato di peccato personale. Nell’Antico Testamento viene affermato diffusamente che la rettitudine procura prosperità e la malvagità è causa di infelicità246 e anche Giobbe

attende il bene da Jahve in virtù della sua integrità morale247.

Giobbe, «uomo integro e retto»248, gode di ogni bene che il Signore può

concedere a un uomo: figli, servi, un’ottima salute e una ricca proprietà. Satana accusa Giobbe al cospetto di Dio di essere giusto solo perché a lui è stata risparmiata qualsiasi prova. Allora il Signore concede all’Accusatore di mettere alla prova il suo amico, per dimostrare quanto in realtà Giobbe tema Dio. Nella prova Giobbe si ribella a una sofferenza per lui incomprensibile, perché ha sempre rispettato la legge di Dio.

Si aprono così due possibilità: o accettare nella fede quest’ordine e la sua oscurità, dato che è il Giusto per eccellenza che l’ha progettato, o sostituirsi a Dio, rifiutando in blocco il piano e tentando di disegnarne uno alternativo. In questa seconda via del dilemma Giobbe sarebbe coinvolto in un’aporia perché dovrebbe giudicare se

Epistolario, «lettera ad Anna Grigor’evna Dostoevskaja, Ems10-12 giugno ’75», op. cit.,pp.428- 429).

246 Cfr. Es 23, 20-33; Lv 26; Dt 28; Sal 1; 37; 73; Is 58, 7-13; Ger 7, 5-7; 17, 5-8, 19-27; 31, 29-30;

Ez 18. Anche il Nuovo Testamento risente di questa cultura. È emblematica la domanda dei discepoli a Gesù davanti al cieco nato: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». La domanda ha un grande peso poiché in essa è concentrata un’importante risposta al problema del male offerta al popolo di Israele. Gesù risponde: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9, 2-3). La risposta di Cristo respinge il retribuzionismo veterotestamentario in favore di una concezione di giustizia secondo la quale Dio non permette il male per punire, ma per manifestare alla creatura amata la sua bontà, concedendogli una felicità non banale, ma stabile e profonda. In questo senso Giobbe è una profezia di Cristo.

247 Gb 30, 25-26; 31, 1-4 e segg. 248 Gb 2, 3.

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stesso e condannarsi: infatti è essenziale a un Dio giudicare e condannare il superbo che nella fattispecie sarebbe proprio Giobbe stesso-uomo249.

Giobbe, al contrario di Ivan, sceglie di sottomettersi al Signore. Questa scelta non è irragionevole. Bisogna considerare infatti che nella coscienza di Giobbe c’è all’origine un’esperienza di fiducia in Dio. Egli è consapevole di non avere a che fare con un Ente supremo impersonale, ma di essere amato dal Creatore fin dal profondo del tempo250. Il Dio di Giobbe ama e chiede di essere corrisposto, Egli non si

rassegna ad essere amato solo per tornaconto personale. Dio non accetta di ridursi a mero dispensatore di beni, vuole essere amato per se stesso. Jahve chiede all’uomo un po’ di gratuità, sfida l’amore umano all’adesione libera, lungi dal meccanicismo magico per il quale l’uomo chiede e Dio, non potendo rifiutare, si appresta ad esaudire.

Inizia per Giobbe una lenta risalita. Solo ora egli si apre ad una fede pura, fondata cioè sulla roccia solida di Dio come totalmente altro e salvatore misterioso.

Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio.

Io lo vedrò, io stesso,

249 G. Ravasi, Giobbe, Traduzione e commento, Borla, Roma 2005, p. 53. Il corsivo è mio.

250 Giobbe al Signore dice: «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto/ integro in ogni

parte […]/ Ricordati che come argilla mi hai plasmato/ e in polvere mi fai tornare./ Non m’hai colato forse come latte e fatto accagliare come cacio? […] Vita e benevolenza tu mi hai concesso/ e la tua premura ha custodito il mio spirito» (10, 9-10. 12). Quando satana spoglia Giobbe di tutto quanto aveva, egli confessa: «Nudo uscii dal seno di mia madre,/ e nudo vi ritornerò./ Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,/ sia benedetto il nome del Signore» (1, 21), «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (2, 10). Queste parole nascono dalla coscienza di avere col Creatore un rapporto d’amore.

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e i miei occhi lo contempleranno non da straniero251.

Giobbe nella sua lotta lacerante invoca Dio contro Dio stesso252. Se egli è

cosciente della propria rettitudine, sa anche che i destini umani sono sempre nelle mani di Jahve. Da un lato Giobbe è memore dei benefici ricevuti dal Signore nel tempo della prosperità, dall’altro la terribile indigenza nella quale versa è fonte di diffidenza e di ribellione nei confronti del mistero divino, di fronte a cui il suo lamento sembra inascoltato. La contraddizione per Giobbe si pone a questo livello. Il suo tormento non è tanto il dolore esistenziale, sebbene questo non gli sia risparmiato, bensì in quale Dio credere quando tutte le certezze vengono meno. Dalle rovine della sua vita nasce una coscienza radicale della propria condizione miserevole.

Nella misura in cui il piano di Dio è accolto, le parole di Giobbe diminuiscono fino al silenzio. Solo allora Dio spiega a Giobbe il suo agire libero. L’intervento di Jahve non è un discorso auto-apologetico. Egli interroga Giobbe sui misteri dell’essere. Le domande di Dio mettono subito a nudo l’estrema povertà del suo servo. Nel Vecchio Testamento il dolore è per l’uomo un mistero di cui solo Dio è padrone. Giobbe riconosce la sua umile condizione e scopre che Jahve trascende qualsiasi schema della razionalità umana. Dostoevskij ha dato una risposta, sia pure larga e personale, l’ha data alla luce della sua esperienza di vita e della meditazione sul Nuovo Testamento. La ragione non riesce a spiegare il perché del dolore, si tratta di un problema che non si chiarisce se non in un ordine superiore. «Dio è così grande, che non lo comprendiamo»253, afferma il giovane Eliu cercando di spiegare a

Giobbe il senso delle sue sofferenze. Nella prova Giobbe non si accontenta più di una spiegazione di seconda mano ma attende direttamente da Dio una risposta al suo grido. La risposta di Jahve arriva. Egli ora è certo che Dio non è indifferente alle sue

251 Gb 19, 25-27. 252 Cfr. Gb 16, 19-21. 253 Gb 36, 26.

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sventure e afferma: «Io ti conoscevo per sentito dire,/ma ora i miei occhi ti vedono»254. Il protagonista vedrà moltiplicarsi le ricchezze di un tempo e

riacquistare il ruolo sociale che ricopriva.

Nella parabola di Giobbe il male diviene paradossalmente strumento positivo di Dio che se ne serve per la sua giustizia. Gregorio Magno, commentando il libro di Giobbe, scrive:

Quest’uomo, dotato di così ammirevoli virtù, non era conosciuto che da se stesso e da Dio. Senza le sue prove egli ci sarebbe rimasto ignoto. Indubbiamente la sua virtù si manifestava anche durante la vita serena precedente, ma è con l’irruzione della sofferenza che il suo profumo si diffuse. Colui che, nella pace, conservava solo per se stesso il mistero della sua realtà, nel dolore rese percepibile a tutti il buon profumo del suo coraggio. Come un profumo non può essere odorato a distanza se non è agitato e sparso, come l’incenso non può sviluppare il suo aroma se non è bruciato, così il profumo esalato dalla virtù dei santi non è captato che nelle loro tribolazioni finché non è provato, ma appena una persecuzione lo schiaccia e lo spezza allora si manifesta subito il suo sapore bruciante. Il grano di senape non rende percepibile la violenza delle sue proprietà se non è spezzato; fin quando è intatto è dolce, ma, una volta tritato, brucia e scopre tutto l’acre sapore in esso celato. Così si considera modesta e senza valore la condotta d’un santo255.

Ciò che scrive Gregorio Magno accresce la problematicità della sofferenza, riguardo alla quale il libro di Giobbe non ha pretese di esaustività e risponde nella misura in cui si scopre il legame che unisce passi diversi del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Ivan Karamazov, esprimendo la sua ribellione, domanda:

254 Gb 42, 5.

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C’è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare?256

Alëša risponde che «quell’essere esiste, e può perdonare tutto»257. La lunga

replica di Ivan è contenuta nel suo poema Il Grande Inquisitore. Nell’opera, che egli non ha ancora messo per iscritto, Ivan immagina che millecinquecento anni dopo l’ascensione Cristo ritorni sulla terra. A Siviglia in una calda notte d’estate questi viene arrestato e interrogato dal Grande Inquisitore. Si tratta in realtà di un lungo monologo di accusa. Gesù Cristo è incriminato per aver dilatato a dismisura il cuore umano promettendo cose troppo grandi rispetto alle umane capacità. Questo fatto ha reso l’uomo soltanto più infelice.

In questo avevi ragione – afferma l’Inquisitore rivolto a Cristo -. Giacché il segreto dell’esistenza umana non è vivere per vivere258, ma avere qualcosa per cui

vivere. Se l’uomo non ha ben fermo dinanzi a sé il fine per cui vivere, egli non accetterà di continuare a vivere e distruggerà se stesso piuttosto che rimanere sulla terra, anche se avesse pani in abbondanza intorno a sé259.

Nel poema di Ivan il diavolo nella prima tentazione si rivolge a Gesù che ha digiunato per quaranta giorni e gli dice:

Le vedi quelle pietre in questo spoglio deserto arroventato? Trasformale in pani e l’umanità correrà dietro di te come un gregge riconoscente e sottomesso, sebbene eternamente in ansia che tu possa ritirarle la mano e negarle il pane260.

256 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 340. 257Ibidem, p. 341.

258«Così vivono le bestie» aggiunge lo stesso passo nei taccuini preparatori al romanzo, (F. M.

Dostoevskij, I fratelli Karamazov e i taccuini, op. cit., p. 1134).

259F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 353. 260Ibidem, p. 350.

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Nel superamento delle tentazioni da parte di Cristo261, l’Inquisitore scorge il

non venire a patti nel cercare la verità del cuore, la sola capace di soddisfare l’insaziabile desiderio umano. Il problema aperto dal Grande Inquisitore è la stessa tentazione di Mitja. Questi, confidando ad Alëša i suoi tormenti interiori, afferma:

L’uomo è vasto, sin troppo vasto, io lo restringerei. Ma poi sa il diavolo che cosa sia l’uomo, ecco cosa vi dico!262

Il Rabbi di Nazareth rispondendo al tentatore263 richiama una verità profonda,

secondo la quale all’uomo non basta il pane per vivere umanamente. Per Dostoevskij la risposta del Figlio di Dio al tentatore rivela la natura spirituale dell’uomo, poiché solo l’animale può vivere di solo cibo264. In realtà Cristo non ha mai rinnegato che

261 Cfr. Mt 4, 1-14; Mc 1, 12-13; 4, 1-13. Dostoevskij in questo passo si richiama al Vangelo di

Matteo per l’ordine con cui tratta le tre tentazioni: la trasformazione dei sassi in pane, il gettarsi dal pinnacolo del tempio della Città santa e il possesso di tutti i regni del mondo. Nel Vangelo di Luca le ultime due tentazioni sono invertite, mentre Marco si limita a scrivere che Gesù fu tentato nel deserto.

262 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 152. L’ampiezza dell’animo umano è ben

descritta dallo stesso autore in una lettera: «Se il mio io si rende conto dell’esistenza di tutto l’universo e dell’assioma che ne sta alla base, ebbene ciò significa che questo mio io è superiore a tutto questo, o perlomeno non si inserisce e non rientra solo in questo, bensì se ne trova in un certo modo all’esterno, lo giudica e ne prende coscienza. Ma in tal caso questo io non soltanto non è sottoposto all’assioma che regola tutta la terra, alla legge che la sovrasta, ma anche ne fuoriesce e ha una sua legge superiore» (F. M. Dostoevskij,Lettere sulla creatività, «lettera a Nikolaj Lukič

Ozmidov, Pietroburgo, febbraio 1878», op. cit., pp. 147-148. Il corsivo è nel testo).

263 La risposta di Cristo alla prima delle seducenti proposte del diavolo (Mt 4, 4) è una citazione

del Deuteronomio (8, 3): «Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore».

264 Cfr. F. M. Dostoevskij, Epistolario, op. cit., «lettera a V. A. Alekseev, Pietroburgo, 7 giugno

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l’uomo vive anche di pane, egli ha sfamato le folle265, ha avuto compassione della

condizione umana fino al pianto266. Egli ha però ammonito chi lo seguiva soltanto

per esser stato sfamato e ha sfidato il suo uditorio a procurarsi un cibo che non si corrompe, «quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo […] darà»267. In questo modo Cristo profetizza l’ultimo sacramento istituito: il farsi Egli

stesso pane.

L’inquisitore lo accusa di aver caricato l’uomo di un insostenibile fardello:

Tu hai desiderato il libero amore da parte dell’uomo, hai desiderato che egli venisse spontaneamente a te […]. Da allora in poi ha dovuto decidere da solo, con il cuore libero, quale fosse il bene e il male268.

Secondo l’Inquisitore la dilatazione smisurata della libertà da parte di Cristo, dovuta a un’eccessiva stima per l’uomo, non tiene conto della reale condizione di miseria in cui l’umanità si trova. È in forza della richiesta di un amore libero che intere generazioni hanno odiato Cristo.

Secondo Ivan e il suo Inquisitore gli uomini non hanno mai voluto essere liberi. Non c’è nulla di umanamente più tormentoso della libertà e l’uomo vuole solo sapere davanti a chi inginocchiarsi269.

265 Mt 14, 15-21; 15, 32-38; Mc 6, 35-44; 6, Lc 9, 12-17; Gv 5-13. 266 Gv 11, 33-36.

267 Gv 6, 27.

268F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 354.

269 Nei taccuini preparatori al romanzo l’autore annota: «La libertà è connaturata nell’uomo e la

prima preoccupazione dell’uomo non appena ricevuto il dono della libertà è stata quella di consegnarla a qualcuno al più presto. Così egli nel corso della sua storia si è sempre fatto degli dèi e chi conosce questo segreto dell’Essere umano, sa anche per quale via sottometterlo, e chi lo può sottomettere»,(F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov e i taccuini, op. cit., pp. 1130-1131).

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Dagli il pane e l’uomo si inchina, giacché non vi è nulla di più inconfutabile del pane270.

Gesù di questo era già stato avvertito. Lo spirito del nulla, Satana, gli aveva predetto che «in quelle tre domande tutta la storia successiva dell’umanità viene come predetta e fusa in un unico insieme»271. Lo svolgimento futuro della storia non

è altro se non l’ascesa dei tre poteri che soggiogano una volta per tutte la libertà di coscienza in cambio della felicità: «il miracolo, il mistero e l’autorità»272.

L’Inquisitore si vanta di aver posto rimedio all’imperdonabile errore, sopprimendo la libertà. L’autentico gesto d’amore è quello dell’Inquisitore per il quale Dio è superfluo e Cristo un impiccio. Occorre allora liberare l’umanità dal giogo di Dio e salvarla da Dio stesso273. La Chiesa rinnovata offrirà agli uomini il pane e li renderà

felici perché ci sarà chi deciderà per loro, addossandosi il peso della loro libertà. In questo disegno Gesù è di troppo, perciò sarà messo al rogo al pari di un eretico. Il pane celeste, promesso da Cristo, non potrà mai reggere il paragone con quello terreno agli occhi dell’umanità viziosa e fragile. Pertanto il verdetto dell’Inquisitore su Cristo è definitivo: «Domani ti farò bruciare. Dixi»274.

270F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 352. 271Ibidem, p. 350.

272Ibidem, p. 354.

273 È interessante rilevare che l’Inquisitore accusa Cristo sul piano degli ideali di cui il Figlio di

Dio si è fatto promotore, quali l’amore per gli uomini e la loro felicità. L’Inquisitore accusa Cristo