La furia distruttiva dei demoni divampa come l’incendio che divora la città la sera della festa in casa di Julija Michajlovna. I fratelli Lebjadkin vengono trucidati. Pëtr organizza l’omicidio di Šatov per tenere legati i suoi per mezzo del delitto e costringe al suicidio Kirillov dopo avergli fatto scrivere un biglietto nel quale l’ingegnere si assume la responsabilità della morte di Šatov. In realtà i piani di Pëtr si riveleranno fallimentari. Gli uccisori dello studente verranno repentinamente scovati e condannati. Il male non unisce, ma crea complicità. Inoltre la paura tiene soggiogato chi lo commette. La complicità crea una coesione labile che in un primo momento sembra unità. Tuttavia essa non tarda a manifestare la sua precaria consistenza. Secondo Pëtr il delitto dovrebbe essere il collante della compagnia181.
Il precipitare della situazione nel caos complica ulteriormente le vicende del romanzo. Lo stesso giorno Šatov intravede una possibilità di bene quando accoglie la moglie e l’aiuta a partorire il figlio di Stavrogin. L’amore di Šatov si rivela nella gratuità con cui egli si prodiga nei confronti della compagna, nel suo stupore e nella gioia per la nascita della vita. L’amore di Šatov è capace di trasformare una situazione disperata in una possibilità di riscatto e di vita182, così, mentre l’esperienza
di odio distrugge e disgrega, l’amore edifica, unisce e genera vita. Nel momento in cui per la moglie, stremata dalla miseria e dal freddo, non ci sarebbero più speranze, le cure del giovane marito la salvano.
181 «C’è una comunione dei santi, c’è una comunione dei peccatori – scrive Georges Bernanos -.
Nell’odio che i peccatori provano gli uni verso gli altri, nel disprezzo, essi si uniscono, si abbracciano, si riuniscono, si confondono» (G. Bernanos, Pensieri, parole e profezie, Paoline, Milano 1996, p. 82). Questa è la condizione di Pëtr e dei suoi compagni.
182 «Tutto sembrava trasformato. Šatov ora piangeva come un ragazzino, ora diceva Dio sa che, in
modo brusco, confuso, ispirato; le baciava le mani; ella lo ascoltava inebriata, forse senza nemmeno capirlo, ma accarezzava affettuosamente con la sua mano indebolita i capelli, li lisciava, li guardava ammirata. Egli le parlava di Kirillov, di come ora avrebbe cominciato a vivere “di nuovo e per sempre”, dell’esistenza di Dio, del fatto che tutti sono buoni… In preda all’entusiasmo presero di nuovo in braccio il bambino per guardarlo» (F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., p. 636).
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Šatov – scrive Charles Moeller – muore vittima dell’odio degli uomini […] perché gli uomini odiano la luce ch’è in lui. Questo lugubre furore nel parco sotto la pioggia, le grida orrende ci gelano di spavento. Ma non riescono ad offuscare l’indimenticabile bellezza del viso di Šatov, che era buono, sensibile, umile, giusto, ed è morto nell’angolo di un parco, in luogo solitario dove non veniva mai nessuno. Quest’essere, di cui la società dei peccatori si libera, li domina tutti con la sua statura. La sua dolce umiltà è illuminata dal grande segreto cristiano, irradia la gioia, il frutto che matura sull’albero della croce183.
Ai primi bagliori dell’alba dalle ceneri della città devastata dalle fiamme inizia a rilucere una speranza. Essa è ravvisabile nelle parole che Stepan Trofimovič, messosi
in viaggio come pellegrino, rivolge a Liza prostrato e commosso: «Mi metto in ginocchio davanti a tutto ciò che vi è stato di bello nella mia vita, lo bacio e lo ringrazio!»184.
La riscoperta grata di «tutto ciò vi è stato di bello» nella vita porta il vecchio Verchovenskij ad abbandonare tutte le frivolezze di cui si era nutrita la sua vita da esteta. Ora come un autentico pellegrino Stepan Trofimovič, povero di tutto, guarda
all’essenziale e percorre la strada maestra.
La strada maestra è qualcosa di lungo lungo, di cui non si vede la fine, come la vita umana, come il sogno umano. Nella strada maestra si nasconde un’idea; ma nel foglio di viaggio c’è la fine dell’idea… Vive la grande route, e poi sia quel che Dio vuole185.
Il pellegrino nella strada maestra ritrova il contatto con la semplicità della gente comune. Il popolo nella visione dostoevskijana rappresenta un ideale di onestà capace di riconoscere il vero dal falso. Ne sono un esempio Šatov e Mar’ja Timofeevna nel momento in cui smascherano la falsità di Stavrogin. Il popolo per
183 C. Moeller, Saggezza greca e paradosso cristiano, Morcelliana, Brescia 1998, p. 194. 184Ibidem, p. 576.
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Dostoevskij, pur nella sua bestialità, non ha mai perso i contatti con Cristo, non nasconde la sua incoerenza e, cosciente del suo bisogno, ha imparato a chiedere tutto a Dio186. Nella strada maestra Stepan Trofimovič incontra la gente del popolo e
riceve un aiuto per trovare se stesso. Particolarmente importante è l’incontro con la venditrice di Vangeli alla quale il pellegrino si rivolge «con il gesto di un uomo che cerca la via della salvezza»187. Grazie al rapporto con questa popolana Stepan
Trofimovič scopre in sé una insolita energia proprio quando la salute lo abbandona.
Sarò utile anche sulla strada maestra – afferma –. […] Oh, perdoniamo, perdoniamo, prima di tutto perdoniamo a tutti e sempre… Speriamo che perdonino anche a noi. Sì, perché tutti quanti siamo colpevoli l’uno verso l’altro. Tutti sono colpevoli!188
La vita di Stepan Trofimovič in prossimità della morte subisce una svolta
repentina e radicale. Nonostante i suoi modi frivoli non vengano mai meno, la nuova vita che il protagonista è pronto ad abbracciare è sintetizzata dai tre brani biblici che la venditrice di Vangeli gli legge. Il primo è il «sermone della montagna»189. Nel
celebre brano evangelico emerge con particolare efficacia la novità portata da Gesù Cristo. Se prima si potevano dire beati i forti e i ricchi, qui si afferma che i beati sono i miti e i poveri di spirito. Egualmente nel romanzo beati sono i sofferenti perché verranno consolati, coloro che godono infatti «hanno già ricevuto la loro
186 Cfr. F. M. Dostoevskij, Su una questione fondamentale, in Diario di uno scrittore, Bompiani, Milano
2007, pp. 1283-1287. Il popolo russo, scrive Dostoevskij, «deriva tutto da Cristo, e impersonifica tutto il suo avvenire in Cristo e nella verità di Cristo e non sa immaginare se stesso senza Cristo […]. Appunto perché fu oppresso e ha portato per secoli la croce, il popolo russo non ha dimenticata la sua “causa ortodossa” e i suoi fratelli sofferenti, e si è sollevato con spirito e cuore, pronto ad aiutare qualsiasi oppresso» (Ibidem,pp. 545-546).
187 F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., p. 685. 188Ibidem, p. 689.
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ricompensa»190. La letizia di Stepan Trofimovič ha il suo fondamento in una
ritrovata speranza, che diviene varco esistenziale a lui accessibile, possibilità personale di salvezza. Il brano delle «Beatitudini» per contrasto è in continuità tematica col secondo passo che la donna gli legge, la «Lettera alla chiesa di Laodicea»:
Perché dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di niente, ebbene tu ignori di essere infelice, miserabile, pezzente, cieco e nudo191.
Solo nella rinnovata coscienza della propria povertà umana e spirituale è possibile a Stepan Trofimovič affermare un valore più grande del proprio io. Questo
invece non accade a Stavrogin, per il quale l’«esser ricco e il non aver bisogno di nulla» diviene obiezione all’aiuto di Tichon e di coloro che tentano di salvarlo. La citazione, originariamente collocata nel capitolo censurato «Da Tichon», è riportata a questo punto perché considerata dallo scrittore un passaggio imprescindibile al fine di comprendere il significato dell’opera.
Il terzo passaggio, a differenza dei primi due, è richiesto dal protagonista. Si tratta del brano dell’«indemoniato di Gerasa» tratto dal Vangelo di Luca:
C’era là un gran branco di porci che pascolava su per la montagna e lo supplicarono che permettesse loro di entrare in essi. Egli lo permise. Allora i demoni, usciti da quell’uomo, entrarono nei porci: quel branco precipitò con impeto nel lago e affogò. I guardiani, avendo veduto quello che era accaduto, fuggirono per annunziarlo nella città e nella campagna. Allora uscirono per vedere quanto era accaduto, si portarono da Gesù, trovarono quell’uomo dal quale erano usciti i demoni, vestito, tornato in sé e seduto ai piedi di Gesù e
190 Mt 6, 2 e segg.
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furono presi da timore. Coloro poi che avevano visto, annunziavano a quelli che venivano come era stato salvato colui che era stato posseduto dal demonio192.
Stepan Trofimovič interpreta il passo alla luce della situazione drammatica in
cui versa la Russia del tempo.
Questi demoni, che escono dal malato e entrano nei porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le impurità, tutti i demoni e i demonietti che si sono accumulati per secoli e secoli nella grande e cara malata, nella nostra Russia! […] Ma una grande idea e una grande volontà la illumineranno dall’alto come quel folle indemoniato e verranno fuori tutti questi demoni […] e chiederanno di entrare nei porci. Anzi forse ci sono già entrati! Siamo noi, noi e quelli e Petruša […]. Ma la malata guarirà e “siederà ai piedi di Gesù”193.
Quello che di fatto non si è ancora avverato per la Russia sta avvenendo nel romanzo a Stepan Trofimovič. Il miracolo per il vecchio intellettuale avviene nella
conversione del suo sguardo. Solo adesso è capace di uno sguardo nuovo che non è più egocentrico e autoreferenziale, ma è capace di schiudersi amorosamente a quanto coglie intorno a lui. Ciò è possibile grazie alle cure della popolana che gli legge il Vangelo e lo assiste con totale dedizione. Egli non nasconde le sue debolezze: «Non
192 Lc 8, 32-36 cit. in Ibidem, p. 699.
193 F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., pp. 699-700. Tale interpretazione è la stessa che
Dostoevskij propone in una lettera ad Apollon Majkov: «I demoni sono usciti dal corpo dell’uomo russo e sono entrati nel gregge di porci, cioè nei Nečaeve nei Serno-Solov’evič [due fratelli che
presero parte al movimento rivoluzionario radicale all’inizio degli anni ’60, n.d.r.] e simili. Questi sono affogati o affogheranno di certo e l’uomo guarito, liberatosi dei demonii, siede ai piedi di Gesù. E così deve essere. La Russia ha rigettato via questo sudiciume, di cui l’avevano nutrita e in questi furfanti rigettati non è rimasto nulla di russo. […] [Il romanzo] è la descrizione di come questi demonii entrarono nel gregge di porci» (Epistolario, «Dresda, 9-21 ottobre 1870», op. cit., pp. 275-276).
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ho mai parlato per la verità, ma solo per me»194. Le ultime parole della sua
confessione sono: «Stiamo insieme, insieme!»195. A questa preoccupazione la donna
risponde: «Ma non vi lascerò, Stepan Trofimovič, non vi lascerò mai»196. Negli
ultimi istanti della sua vita il vecchio Verchovenskij incontra la persona che, nel profondo di se stesso, ha sempre desiderato conoscere. Tuttavia se ciò fosse capitato prima non sarebbe stato disponibile a lasciarsi cambiare da tale incontro. La prossimità della morte lo rende povero di progetti su se stesso e ricco di disponibilità nei confronti dell’essenziale.
La mia immortalità – afferma – è indispensabile perché Dio non vorrà certo commettere un’ingiustizia e spegnere del tutto il fuoco dell’amore verso di lui, accesosi nel mio cuore. E che cosa è più prezioso dell’amore? L’amore è superiore all’esistenza, è il coronamento dell’esistenza, e come è possibile che l’esistenza non gli sia sottomessa? Se ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del mio amore, come è possibile che Egli spenga me e la mia gioia e ci trasformi in nulla? Se Dio esiste, allora anch’io sono immortale! [...] Oh, come vorrei vivere un’altra volta!» esclamò con inattesa energia. «Ogni minuto, ogni attimo di vita devono essere una beatitudine per l’uomo…197
La città è ormai cenere e fango, dopo i roghi notturni e la pioggia mattutina. Spegnere l’incendio, afferma von Lembke, «è impossibile. L’incendio è negli spiriti e non sui tetti delle case»198. Liza, al risveglio dopo la notte passata con Stavrogin,
194F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., p. 696. 195Ibidem, p. 697.
196Ibidem, p. 698. 197Ibidem, p. 708.
198Ibidem, p. 553. Nei taccuini preparatori al romanzo l’autore scrive: «Lembke: Incendio, Questo è
il nichilismo. Se qualcosa arde, è il nichilismo […]. Sciocchezze, non bisogna spegnere! L’incendio è più profondo, [l’incendio è nei cuori] l’incendio è nelle menti» (F. M. Dostoevskij, I demoni e i taccuini, op. cit., p. 1154).
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afferma di essersi «bruciata al fuoco di una candela e niente di più» e di aver «calcolato di vivere soltanto per un’ora»199.
L’amore autentico è quell’esperienza nella nostra vita in cui bruciamo senza diventare cenere. In esso e grazie ad esso l’uomo sperimenta che più si brucia e più si è vivi, più si muore e più si risorge, più si dona e più si ha. L’amore porta con sé una tale esperienza di vita che tutto il resto è superfluo. Coloro i quali sperimentano l’amore gratuito e disinteressato di qualcuno non vogliono più rinunciarvi. L’amore è l’esperienza più alta che all’uomo sia dato fare e proprio perché esso è «superiore all’esistenza» ne rappresenta il vertice e il coronamento. Per scoprire questa fondamentale dimensione dell’esistenza il vecchio Verchovenskij ha dovuto uscire dalle anguste mura domestiche, che Varvara Petrovna gli offriva, per avventurarsi nel mondo attraverso la strada maestra. Uscire dall’angustia del proprio io per avventurarsi nella terra altrui, imprevista e incognita, è un’efficace metafora dell’amore. Poiché la vita dell’uomo è in rapporto con tutto ciò che intercetta il suo orizzonte cognitivo, la persona conosce e ama nella misura in cui si apre a ciò che sta fuori di lui. Il segreto della vita consiste nell’uscire fuori del proprio io per inoltrarsi nella misteriosa terra dell’altro. Stavrogin non riesce a fare questo nel corso del romanzo.
L’amore è la più alta forma di conoscenza. C’è una forma di conoscenza di chi si ritiene dotto, quella che ha sinora caratterizzato Stepan Trofimovič. Si tratta di un
sapere puramente intellettuale. Questo tipo di conoscenza soddisfa soltanto una capacità, quella intellettiva200, mentre l’amore compie la persona interamente senza
199 F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., p. 561.
200 I limiti di siffatta conoscenza sono stati messi bene in evidenza dall’uomo del sottosuolo:
«Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, non se ne discute, ma la ragione è soltanto ragione e soddisfa soltanto la facoltà raziocinativa dell’uomo, mentre la volontà è la manifestazione della vita intera, ossia di tutta la vita dell’uomo, ragione e sue prurigini comprese. E sebbene la nostra vita, in tale manifestazione, risulti spesso essere molto misera cosa, ma è però sempre la vita, e non già solamente un’estrazione di radice quadrata. Ed è per esempio del tutto naturale che io voglia vivere soddisfacendo a tutte le mia facoltà vitali e non alla sola facoltà raziocinativa, ossia alla
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tralasciare nulla. La distinzione tra i due tipi di conoscenza è rimarcata anche da Isacco il Siro:
A misura che il cuore si avvicini alla sapienza, riceve la gioia che è in Dio. La differenza tra la sapienza dello Spirito e quella del mondo tu la sperimenti nella tua anima: in una il silenzio regna sulla tua anima, nell’altra invece c’è una fonte di distrazione. Quando scopri la prima sei colmato di una grande umiltà, la calma e la quiete regnano su tutti i tuoi pensieri, e le membra si calmano e si acquietano dall’agitazione e dal turbamento. Quando scopri la seconda, invece, ti ritrovi con la tua intelligenza [colma] di presunzione e di vari pensieri indicibili, con l’Intelletto che si rode, e con i tuoi sensi che sono agitati e impudenti201.
La vita del vecchio Verchovenskij, appiattita e resa sterile dalla vanità del proprio intellettualismo, è adesso capace di aprirsi alla gioia di una speranza che supera la morte. Così, se «nel foglio del viaggio c’è la fine dell’idea» che segna il termine della strada maestra, simbolo della finitudine terrena, le cure della venditrice di Vangeli lo aprono ad un amore più grande sul quale si fonda la speranza di un nuovo inizio, laddove sarà tutto bello, buono e vero. Ciò viene espresso da Stepan Trofimovič come un cantico, come il suo estremo inno alla gioia:
Già la sola idea costante, che esista qualcosa di infinitamente più giusto e felice di me, mi riempie di infinita commozione e di gloria; oh, chiunque io sia stato, qualunque cosa abbia fatto! Per l’uomo è più necessario della propria felicità sapere e ad ogni momento credere che esista da qualche parte una felicità perfetta e tranquilla, per tutti e per tutto… Tutta la legge dell’esistenza umana sta solo
ventesima forse parte sull’intera somma delle mie facoltà vitali. Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto quello che le è riuscito di conoscere (e magari certe cose non le conoscerà mai […]), mentre la natura umana agisce tutta intera» (F. M. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, op. cit., pp. 48-49).
201 Isacco di Ninive, Un’umile speranza. Antologia, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano
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nel fatto che l’uomo possa sempre inchinarsi davanti all’infinitamente grande. Se gli uomini fossero privati dell’infinitamente grande, non potrebbero più vivere e morirebbero disperati. L’infinito e l’immenso è altrettanto indispensabile all’uomo tanto quanto questo piccolo pianeta che egli abita202.
L’ultima confessione di Stepan Trofimovič, alla luce dell’intera opera, si
potrebbe leggere come una risposta al tentativo dei demoni di creare coesione attorno al male. Per Evdokimov
Dostoevskij […] introduce nella confessione di Stepan Trofimovič morente la sua più geniale scoperta: l’argomento «agapico» dell’esistenza di Dio. L’argomento del bisogno del cuore: l’amore è al di sopra dell’esistenza, esso ne è il coronamento e la sua verità è scritta nel cuore umano. Il cuore ama con la stessa naturalezza con cui la luce brilla; non può fare altrimenti. Se il cuore rende immortale ogni oggetto degno di essere amato, è perché amare veramente che l’essere eterno: «Dio è necessario perché il solo essere che si possa amare eternamente»203.
Nel romanzo la risposta dell’autore al problema del male è esistenziale. Non sono sufficienti discorsi nutriti di logica per rispondere alla cattiveria dei demoni. C’è una sola forza capace di liberare l’uomo dal peso opprimente del male e questa forza è l’amore. Se il male è una potenza disgregatrice, solo l’amore è capace di unire. Le parole del protagonista rappresentano un inno all’unità perché congiungono mirabilmente il cielo e la terra. Tale prospettiva non tralascia nulla, ma salva tutto «qualunque cosa uno abbia fatto».
Se per Stepan Trofimovič l’ultima parola è la speranza, nel caso di Stavrogin è
la disperazione. Essa è espressa nel messaggio che questi indirizza a Daša. Questo
202 F. M. Dostoevskij, I demoni, op. cit., pp. 708-709.
203 P. Evdokimov, Gogol’ e Dostoevskij, ovvero la discesa agli inferi, Paoline, Roma 1978, p. 216. Il
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testo riprende i temi portanti della sua Confessione nel capitolo «Da Tichon», omesso nella redazione definitiva. Stavrogin scrive a Daša per proporle di fuggire con lui in Svizzera. Nella lettera ciò che maggiormente risalta è il fatto che le potenzialità fuori dal comune del giovane protagonista si accompagna ad una totale assenza di scopo. Questa è la condizione in cui si trova Stavrogin, come egli stesso scrive a Daša:
Forse voi sognate di darmi tanto amore e di risvegliare su di me dalla vostra anima meravigliosa tanta bellezza, e sperate così facendo di darmi finalmente uno scopo? No, è meglio che siate più cauta; il mio amore è tanto meschino quanto lo sono io, e voi sareste infelice. […] Tutto si può discutere all’infinito, ma da me è uscita soltanto negazione, senza nessuna magnanimità, senza nessuna forza204.
L’indifferenza tiepida di Stavrogin lo rende incapace di rispondere con amore all’amore. Il suo sguardo di sufficienza su coloro che tentano di aiutarlo scrive il suo verdetto di condanna, getta un’ombra definitiva sulla sua intera vita. Così non gli resta che «un altro inganno, l’ultimo […] nella lunga serie di inganni»205. Il
protagonista, senza mai perdere la lucidità che lo caratterizza, si uccide. In tutti i romanzi dostoevskijani il suicidio è il gesto di sconfitta suprema. La morte di Stavrogin per impiccagione è il suo gesto perentorio di rifiuto. Il ghigno dell’impiccato è l’espressione definitiva del suo odio per la vita e per il mondo, la