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Le vicende del romanzo subiscono una svolta con l’omicidio di Fëdor Pavlovič

per opera del servo Smerdjakov, il quale organizza il delitto in maniera tale che venga accusato il violento Dmitrij. In effetti tutto congiura a far credere che l’assassino sia Mitja, che è stato trovato in quella stessa notte dal servo Grigorij nel giardino del padrone.

Dmitrij, riconciliato con Grušen’ka, viene trovato dalle autorità mentre festeggia lontano dalla città. Il giovane è interrogato sull’omicidio e portato in carcere in attesa del processo. Ora si comprende meglio la profezia di Zosima su di lui, ossia il fatto che lo attendeva una grande sofferenza. Mitja, riconciliato con il mondo grazie all’amore di Grušen’ka, accetta questa sofferenza per un crimine non commesso. Benché afflitto dalla prova, egli intona il suo inno alla gioia e, come ha

321F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov e i taccuini, op. cit., p. 1154. 322 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 443.

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insegnato lo starec, «cerca la felicità nel dolore»323, anche se non è in grado di essere

coerente fino in fondo.

Staremo in catene e non ci sarà libertà, ma allora, nel nostro grande dolore, noi risusciteremo in quella gioia senza la quale l’uomo non può vivere né Dio esistere, giacché Dio dà la gioia, è il suo grande privilegio […]. Come potrei vivere sotto terra senza Dio? Rakitin mente: se cacciassero Dio dalla terra, noi gli daremmo rifugio sotto terra. È impensabile che l’ergastolano viva senza Dio […]. E allora noi, uomini del sottosuolo, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico inno a Dio, presso il quale è la gioia! Evviva Iddio e la sua gioia! Io lo amo!324

Mitja afferma: «Dio conosce il mio cuore, vede la mia disperazione. Vede tutt’intero questo quadro»325. L’uomo conosce troppo poco di sé e del mondo, per

questo il partito migliore è quello di chi riconosce che la profondità della realtà supera infinitamente la nostra coscienza di essa326. Ivan non capisce la realtà perché

pretende di ridurla a ciò che la sua mente euclidea riesce a cogliere. Mitja invece ha fiducia che Dio vede tutt’intero ciò che a noi appare frammentario e disarticolato. Se tutto il reale si esaurisse in ciò che esperiamo coi sensi, allora all’ergastolano non resta che la disperazione.

Dostoevskij nei taccuini preparatori al romanzo scrive:

Le radici dei nostri pensieri e sentimenti non sono qui ma in quei mondi lassù. Dio ha prese le sembianze da altri mondi, le ha seminate su questa terra, ed ha coltivato il giardino dei suoi e tutto quello che poteva spuntare è spuntato, ma

323Ibidem, p. 107. 324Ibidem, pp. 811- 812. 325Ibidem, p. 172.

326 Shakespeare nell’Amleto scrive: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua

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tutto vive per la sensazione del contatto con quei mondi misteriosi. Ecco perché si dice che qui sulla terra non possiamo capire l’essenza delle cose327.

La felicità per Mitja è possibile nonostante la sua natura disordinata e le sue colpe. Per Dostoevskij la felicità è un cammino che l’uomo deve percorrere fatto di gioia e di dolore, di pro e di contra.

Dostoevskij negli appunti preparatori a Delitto e castigo annota:

Non vi è felicità nel comfort, la felicità si compra con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo conquista la felicità sempre con la sofferenza. Non vi è qui alcuna ingiustizia, perché il titolo e la coscienza della vita (cioè quel che è sentito direttamente dal corpo e dallo spirito, cioè da tutto il processo vitale) si acquistano con l’esperienza pro e contra, che occorre trascinare su di sé328.

La condizione perché il seme dia frutto è che muoia, ma tale morte è dolorosa al punto che l’uomo non ci arriva da solo. Questi personaggi prima di essere violenti, sono vittime travolte dalla tempesta di circostanze rischiose alle quali cedono per la loro debolezza. Le loro gravi mancanze divengono tuttavia strumento per raggiungere la pienezza inizialmente sperata perché non si sottraggono alla dolorosa lotta che li attende. Attraverso le sofferenze Alëša e Mitja acquistano «coscienza della vita». Per riscattare la propria vita e quella altrui non c’è altro modo che perdonare tutti per essere perdonati a nostra volta. Per Dostoevskij il pentimento è il modo in cui l’uomo può ritrovare l’innocenza perduta e Mitja Karamazov «si purifica nel cuore e nella coscienza sotto la tempesta della sventura e della falsa accusa»329 . Mitja decide liberamente di soffrire per tutti particolarmente

per bambini, i quali sopportano pene immeritate. Egli ha presente il piccolo Iljuša, il

327F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov e i taccuini, op. cit., p. 1151.

328 F. M. Dostoevskij, Delitto e castigo e i taccuini, Sansoni, Firenze 1958, p. 783.

329 F. M. Dostoevskij, Epistolario, «lettera a Nikolaj Alekseevič Ljubumov, Pietroburgo, 16

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cui padre è stato vittima dei suoi oltraggi. Mitja ha preso coscienza della missione che lo attende grazie al sogno di un bimbo sofferente portato in braccio da una donna di misere condizioni. Nel sogno Mitja si chiede:

Perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? […] Perché non si abbracciano, non si baciano, perché non intonano canti di gioia, perché si sono così anneriti per la miseria nera? Perché non danno da mangiare a quel bambino?330

Dostoevskij teneva molto in considerazione i sogni che faceva. La moglie Anna ricorda che lo scrittore una volta le aveva detto: «Io do ai sogni una grande importanza. I miei sogni sogliono essere profetici»331. Quello del giovane Karamazov

è certamente un sogno profetico. Le domande che Mitja si pone sono determinate da una grande considerazione per la vita e per il suo bene. In seguito a questo sogno Mitja sperimenta in sé una rinnovata forza che lo porta a offrire la propria vita per la felicità degli innocenti e degli ergastolani che incontrerà nelle miniere.

Si può far rinascere e risuscitare in quell’ergastolano un cuore raggelato, si può curare per anni e portare dal buio alla luce un’anima sublime, una coscienza sofferente, si può dare vita a un angelo, risuscitare un eroe!332

Se per Ivan la sofferenza umana è inconciliabile con l’accettazione dell’opera di Dio333, Mitja smentisce con la stessa vita le teorie di Ivan affermando che per il

330 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., pp. 698-699. 331 F. M. Dostoevskij, Epistolario, op. cit., p. 410.

332Ibidem, p. 811.

333 Sul rapporto tra il male e l’esistenza di Dio Gianfranco Ravasi scrive: «Certamente uno può

dire: se si guarda all’immenso dolore del mondo, non si può credere che esista un Dio. Ma si può anche dire il contrario: solo se c’è un Dio si può in generale vedere questo immenso dolore del mondo. Pensiamo al Dio più divino: non sono proprio la vita e la sofferenza di Gesù a farci apparire Dio in una luce diversa?» (G. Ravasi, Giobbe, op. cit., p. 94).

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sofferente Dio è l’esigenza più incalzante. Senza un fine ultimo per cui vivere l’unica possibilità per l’uomo sarebbe la disperazione, che manifesta nel suicidio la sua conseguenza logica.

L’ateismo di Ivan ha come conseguenza l’indifferentismo etico334. Tutto è

permesso dal momento che Dio non esiste. Di fatto egli non riesce ad essere conseguente sino in fondo con quanto teoricamente afferma. Questo emerge nel dialogo in cui il servo Smerdjakov gli rivela di aver ucciso e derubato il padre.

“Tutto è permesso” – afferma il servo a Ivan -. Era giusto quello che mi avevate insegnato […]: poiché se il Dio eterno non esiste allora non esiste nemmeno la virtù e non c’è alcun bisogno di essa335.

Ivan non riesce a reggere fino in fondo le conseguenze delle sue teorie sul piano pratico. Poiché il desiderio è padre dell’azione, Ivan si tormenta per una colpa commessa solo indirettamente come se fosse egli il solo responsabile. La coscienza è il luogo della legge morale. Ivan per vincere il suo isolamento avrebbe bisogno di rispondere all’imperativo della coscienza. Tuttavia egli è serrato nell’angustia dei propri sensi di colpa. Inoltre il suo cuore, assetato di giustizia e di virtù, lo condanna alla scissione poiché egli non crede né alla giustizia, né alla virtù. Il suo essere diviso tocca l’apice nell’allucinazione in cui dialoga con un demonio.

L’idea che se Dio non esiste tutto è possibile in Ivan si rivela autodistruttiva perché lo isola dalla comunione con gli altri. Per Dostoevskij l’unica strada per la felicità è la comunione degli uomini e con Dio. Nell’incontro dei Karamazov con lo starec, all’inizio del romanzo, un personaggio riferisce le teorie apprese dalla filosofia di Ivan:

334 Cfr. M. Rossi Monti, Enciclopedia filosofica, vol. IV, Bompiani, Milano 2006, p. 3077. 335 F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, op. cit., p. 866.

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Per ogni individuo […] che non crede né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale della natura dovrà immediatamente trasformarsi nell’esatto contrario della legge religiosa prima vigente e l’egoismo umano, spinto eventualmente addirittura al crimine, deve essere non solo consentito, ma perfino riconosciuto come l’esito necessario, il più razionale e quasi il più nobile nella sua posizione336.

La solitudine è il salario di una pretesa autosufficienza e porta il protagonista alla follia. Le soluzioni che lo scrittore offre nel romanzo sono: o concepire se stessi in comunione col mondo e per esso offrire la propria vita, oppure esistere solo per se stessi sperimentando già in vita l’inferno nella «sofferenza di non essere più capaci di amare».