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La situazione del principe si complica ulteriormente a causa dell’attrazione reciproca tra lui e Aglaja59. La ragazza dà al principe un appuntamento alle sette del

mattino presso la panchina del parco dove lei si reca spesso. Il principe non pensa che si tratti di un appuntamento d’amore, ritiene al contrario che Aglaja si stia ancora una volta prendendo gioco di lui.

Nel parco di Pavlovsk egli incontra Rogožin, il quale gli rivela i nuovi tormenti

di Nastas’ja. La donna desidera ardentemente per la sua stessa felicità e per quella del principe che questi si sposi con la più giovane delle Epančin. Soltanto una volta che il principe si sarà sistemato, Nastas’ja potrà unirsi a Rogožin. Nastas’ja rifiuta

Myškin perché teme di fargli del male, di non essere degna di lui.

In questa lunga giornata il principe affronta anche altri imprevisti. Tornando a casa la sera, accompagnato da Rogožin, trova sulla terrazza un’allegra brigata che accoglie Myškin per festeggiare il suo compleanno.

Ippolit approfitta di tale circostanza per leggere la sua Spiegazione. Si tratta di un lungo testo nel testo contenente a sua volta altri testi: l’incubo dello scorpione e

59 Questa attrazione si manifesta a Pavlosk. Qui accade un fortuito incontro con Nastas’ja. La

ragazza passa con aria indifferente, come se non si fosse accorta dei suoi conoscenti, si accosta ad Evgenij Pavlovič e lo informa che lo zio si è sparato a causa della disperazione per i debiti. Poi lo

provoca apertamente insinuando che egli sapeva già che sarebbe successo e si congeda giudicando lo zio «un vecchietto vizioso». Evgenij Pavlovič impallidisce, colto evidentemente di sorpresa della

triste notizia. Interviene a questo punto l’ufficiale amico di Evgenij: «Nastas’ja se la sarebbe vista brutta, se non fosse sopraggiunto un aiuto insperato: il principe, che era rimasto lì vicino, fece in tempo ad afferrare l’ufficiale da dietro per le braccia. Liberando un braccio, l’ufficiale lo colpì forte nel petto; il principe fece un volo di tre passi e cadde su una sedia. Ma ormai altre due persone avevano preso le difese di Nastas’ja Filippovna» (F. M. Dostoevskij, L’Idiota, op. cit., p. 409). Ancora una volta il principe è disposto a pagare per l’insolenza di Nastas’ja, al punto di correre il rischio di battersi in duello.Myškin si dimostra coraggioso nel saper pagare per gli altri anche in situazioni sconvenienti. Il duello di fatto non avverrà e la faccenda si risolverà pacificamente.

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la descrizione del quadro di Holbein. L’interlocutore privilegiato di Ippolit è Myškin, a cui lo scritto è dedicato. Egli cerca nel principe un aiuto e una guida che non riesce a trovare, perché Myškin è troppo preso da sentimenti ingombranti quali la preoccupazione per Aglaja e per Nastas’ja. Le attenzioni del protagonista sono completamente occupate dall’eventuale fidanzamento con Aglaja e dal desiderio di salvare Nastas’ja. Dostoevskij descrive così i sentimenti del protagonista per Nastas’ja nella scena alla stazione di Pavlosk:

Amare una donna, più di ogni altra cosa al mondo, pregustare la possibilità di un tale amore, e all’improvviso vederla in catene, dietro sbarre di ferro, sotto il bastone del carceriere, ecco sarebbe stata una sensazione simile a quella che provava il principe in quel momento60.

Ippolit è un giovane, affetto dalla tisi, cui restano solo poche settimane di vita. Il tormento della sua morte imminente non gli lascia tregua. Il terrore della fine è espresso mediante il sogno di un mostro:

Era un rettile strisciante marrone provvisto di guscio, lungo circa quattro verški, di uno spessore di circa due dita all’altezza della testa che s’assottigliava gradualmente verso la coda tanto da arrivare a mezzo centimetro di spessore alla punta […]. La testa non riuscii a vederla, ma scorsi due antenne, non molto lunghe che sembravano due grossi aculei, marroni anch’essi. Due antenne simili le aveva anche alla punta della coda […]. L’animale strisciava per la stanza molto velocemente facendo leva sulle zampe e sulla coda […]. Guardare un simile spettacolo era oltremodo ripugnante. Avevo il terrore che mi mordesse, sapevo che era velenoso, ma quello che mi tormentava di più era scoprire chi l’avesse mandato nella mia stanza, che cosa volessero da me e quale fosse il mistero61.

60Ibidem, p. 407. 61Ibidem, pp. 452-453.

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Il mistero incomprensibile è la morte, ripugnante ed enigmatica al tempo stesso. La creatura immonda è il male che da sempre ineluttabilmente insidia l’umanità. Il male è l’eterno mistero che l’uomo cerca continuamente di risolvere e a cui è molto difficile trovare risposta. Ippolit sperimenta l’impotenza della sua condizione di malato vicino alla morte. Egli non disprezza la vita, desidera per sé una pienezza che da solo non può darsi. Egli non accetta una prova così pesante perché non ne comprende il senso. La questione che attanaglia Ippolit non riguarda solo lui ma tutta l’umanità.

Non potevo sopportare le persone che mi passavano accanto sul marciapiede trafelate, affaccendate, eternamente preoccupate, accigliate, inquiete. A che pro la loro eterna sofferenza, a che pro tanti affanni e preoccupazioni, e infine a che pro la loro accigliata cattiveria (perché sono cattivi, cattivi, cattivi)? Di chi è la colpa della loro incapacità di vivere, della loro infelicità nonostante li attendano circa sessant’anni di vita ciascuno?62

La coscienza di avere i giorni contati lo porta a valorizzare l’istante, proprio come accade al condannato a morte che sta per essere giustiziato nel racconto di Myškin nella prima parte del romanzo. Perciò Ippolit non sopporta coloro che, avendo la fortuna della longevità, non provano nessun gusto per la vita.

Il giovane è attratto dalla possibilità di fare il bene, come nell’episodio in cui aiuta un medico caduto in disgrazia a trovare il posto di lavoro per il quale era arrivato a Pietroburgo.

Come si fa a sapere quale significato potrà avere la comunione di un’anima con un’altra nei destini dell’umanità? […] Gettando il vostro seme, gettando la vostra ‘carità’, la vostra buona azione in qualunque forma, voi date una parte di voi stesso e accogliete in voi parte di un altro essere umano, entrate in comunione l’uno con l’altro. Con un po’ di attenzione sarete ricompensato dalla

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conoscenza e dalle scoperte più inaspettate. Incomincerete a considerare il vostro operato come una scienza che assorbirà tutta la vostra vita63.

Nel grande mistero dell’esistenza non possiamo sapere quali esiti ultimi avranno le nostre azioni e quali conseguenze causeranno nei destini dell’umanità. I semi di bene gettati durante tutto l’arco della vita possono produrre frutti positivi, benché l’uomo non sia in grado di misurare questo bene. Questo è significativo per comprendere che l’esito di quanto facciamo non è nelle nostre mani, non è solo la diretta conseguenza di quanto operiamo, a causa dell’intervento di un complesso insieme di fattori. Perciò la risultante dei fattori in gioco spesso non è la semplice conseguenza dell’intenzione originaria che ci ha spinti ad agire. Ippolit, non pienamente cosciente, afferma questo a proposito della bontà di un’azione.

L’autore della Spiegazione ha l’animo lacerato da forti contraddizioni. Egli desidera fare il bene, ma questo desiderio si accompagna all’altrettanto forte bisogno di un’affermazione personale. Ippolit ritiene che soltanto «la conoscenza e una vita intera dedicata a fare il bene vi eleveranno al punto tale che sarete in grado di gettare un seme enorme e di lasciare al mondo in eredità un pensiero di portata eccezionale»64. Per l’adolescente un’azione è grande solo se è platealmente

riconosciuta come tale65. Dostoevskij nei quaderni preparatori del romanzo scrive:

«Ippolit – vanità di un carattere debole»66.

Se volessi fare una buona azione – sostiene il giovane – con tutto il mio cuore, un’azione che richiedesse molto lavoro e corse di qua e di là […], in quel caso dovrei rinunciare perché non avrei tempo a sufficienza per portare a termine la

63Ibidem, p. 470. 64Ibidem, p. 470.

65 Tale questione verrà ripresa più approfonditamente nel capitolo su I fratelli Karamazov, dove

Dostoevskij dà la sua soluzione ai fondamentali problemi presenti nei suoi romanzi.

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faccenda. Dovrei cercarmi invece un’altra ‘azione buona’, più modesta, compatibile con i miei mezzi67.

A nostro avviso la vanità di Ippolit consiste nell’autoaffermazione. Compiendo un gesto che tutti riconoscono grande, egli pensa di dare un significato alla propria vita ormai al termine. Se è apprezzabile il suo sforzo di fare il bene, egli non riesce tuttavia ad andare oltre il proprio egocentrismo, comprensibile considerata la giovane età e la sua condizione critica. La vanità di Ippolit trova la sua consistenza ultima nella presunzione di potersi salvare grazie a un proprio sforzo. Il criterio arbitrariamente introdotto è, di conseguenza, quello quantitativo, ossia «mi salverò quanto più riuscirò. Quanto più…, tanto più». Se si fa consistere la realizzazione di sé in quanto si riesce a realizzare, non esiste nessuna speranza affidabile perché il problema del significato, da cui dipende il fatto che la vita umana abbia o no un senso, non è un problema di quanto si conosce o di quanto si riesce ad ottenere con le proprie energie. Il significato della vita è piuttosto la chiave di volta conosciuta la quale l’uomo, qualsiasi uomo, può d’ora in poi fare i suoi passi sicuri, nella consapevolezza che quanto più si va in alto tanto più gli orizzonti si aprono senza mai esaurirsi.

Ippolit non considera inoltre il fatto che difficilmente un’azione si compie soltanto grazie ai nostri sforzi. Egli, qualora riuscisse a realizzare un progetto grandioso, potrebbe mai prendersene esclusivamente i meriti? Per aiutare il medico disoccupato non son stati sufficienti la buona intenzione e lo sforzo. Egli ha potuto farlo grazie al compagno, nipote dell’influente Bachmutov.

Ippolit ha un disperato desiderio di essere salvato. Tutto in lui grida questa richiesta, egli non sa a chi rivolgersi se non al principe.

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È vero, principe che una volta avete detto che la “bellezza salverà il mondo”? Signori» prese a gridare atutti, «il principe afferma che la bellezza salverà il mondo!

E subito dopo chiede:

Quale bellezza salverà il mondo?68

68 Per comprendere a fondo la radicalità della domanda che Ippolit pone a Myškin, un importante

punto di partenza si trova già in Platone. Secondo la dottrina delle Idee noi diciamo bella una cosa nella misura in cui partecipa dell’Idea di bellezza. Il filosofo, per spiegare la relazione tra il sensibile e il soprasensibile, parla di «mimesi»: ciò di cui il mondo sensibile è costituito, può dirsi bello per sola imitazione del Bello. «La Bellezza […] splendeva fra le realtà di lassù come l’Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo» (Fedro, 250 C-D). A essa partecipano tutte le cose «in un modo tale che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla» (Simposio, 211 B). Così Platoneimmagina che l’etimologia del termine «kalÕn» (bello) derivi da «kaloàn»«ciò che denomina» (cfr. Cratilo, 415 B-D) dal verbo “kal◊w”,che significa “chiamare”. Soltanto ciò che l’intelligenza, umana o divina, riconosce, e quindi denomina, come tale può essere bello, in questo senso va intesa l’arrischiata etimologia platonica. Nel Simposio la «scala di Eros» illustra il cammino della conoscenza che l’uomo deve compiere. A partire dal sensibile, l’anima si spinge fino alla realtà delle Idee, passando attraverso le scienze matematiche, e giunge alla visione del «Bene assoluto» che è «l’Uno» come «Misura suprema di tutte le cose». All’uomo, giunto al più alto grado di conoscenza, non rimane altro che contemplare la Bellezza, esperienza di corrispondenza al massimo grado. «È questo il momento nella vita, o caro Socrate […], che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, ossia il momento in cui un uomo contempla il Bello in sé. E se mai ti sarà possibile vederlo, ti sembrerà ben superiore all’oro, alle vesti, e anche ai bei ragazzi» (Simposio, 211 D). È una contemplazione in cui l’anima, unita misticamente al Bello, partecipa intimamente ad esso. La tensione spirituale verso la Bellezza è tensione all’Unità. L’uomo diviene così immortale. «Che cosa dunque noi dovremmo pensare […], se ad uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma lo stesso Bello divino? O forse tu ritieni […] che sarebbe una vita che vale poco quella di un uomo che guardasse là e contemplasse quel Bello con ciò con cui si deve contemplare, e rimanesse unito a esso? Non

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pensi piuttosto – soggiunse – che, qui, guardando la Bellezza solamente con ciò con cui è visibile, costui partorirà non già pure immagini di virtù, dal momento che non si accosta ad una pura immagine del Bello, ma partorirà virtù vere, dal momento che si accosta al Bello vero? E non credi che, generando e coltivando virtù vera, sarà caro agli dèi e sarà, se mai lo fu un altro uomo, egli pure immortale?» (ibidem, 211 D-212 A). Il Bello altro non è se non la manifestazione del Bene. Per spiegare questo nesso Platone narra che il Bene si è nascosto nella «misura» e nella «proporzione».«Tutto ciò che è buono è bello, e il bello non è privo di misura» (Timeo, 87 C). Esso però, invece di nascondere il Bene, in realtà lo rivela: «ora la potenza del Bene ci è sfuggita nella natura del Bello; infatti, la misura e la proporzione risultano essere, dappertutto, bellezza e virtù» (Filebo, 64 E). La caratteristica della Bellezza a differenza del Bene è la sua visibilità. La Bellezza si offre alla visione, è strettamente legata alla contemplazione, l’apparire è un suo connotato essenziale. «Soltanto la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile» (Fedro, 250 D). Hans Georg Gadamer, nella parte conclusiva di Verità e metodo, scrive: «In questa funzione anagogica del bello, che Platone ha fissato in maniera indimenticabile, si rende manifesto un aspetto strutturale ontologico del bello e quindi una universale struttura dell’essere stesso. È chiaro che è il carattere peculiare del bello rispetto al bene quello per cui esso si presenta da se stesso, si fa immediatamente evidente nel suo essere. In tal modo esso viene ad avere la funzione ontologica più importante che ci sia, cioè quella della mediazione tra idea e fenomeno. Si sa che è qui il punto cruciale metafisico del platonismo» (H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1985, pp. 548-549. Il corsivo è mio). La Bellezza rende manifesto il Bene e assolve la sua funzione ontologica nella mediazione tra idea e fenomeno. Dionigi Areopagita costituisce un passaggio essenziale per chi intende comprendere in che modo il concetto di bello sia entrato nella cultura europea. Alla luce della nostra analisi egli offre un contributo importante quando parla della bellezza come compimento e causa originaria di tutto. Ecco quanto scrive: «Il bello è principio di tutte le cose in quanto causa efficiente, che muove tutte le cose e le tiene insieme con l’amore verso la propria bellezza; ed il bello è il fine di tutte le cose, ed è degno di essere amato in quanto causa finale (infatti, tutte le cose nascono a causa del bello) e causa esemplare, perché tutte le cose si riferiscono in riferimento a lui. Infatti avviene per il bello ciò che avviene per il buono: tutte le cose in ogni maniera tendono al bello e al buono, né esiste alcun essere che non partecipi del bello e del buono. Oseremo dire anche così: anche il non-essere è partecipe del bello e del buono; difatti, egli diventa il bello e il buono in sé quando viene celebrato soprasostanzialmente in Dio prescindendo da ogni cosa» (De divinis nominibus, IV, 140-141. Il corsivo è nel testo). La Bellezza è la “visione” dell’invisibile nel visibile, e consiste nel rapporto tra profonditàe superficie a un punto

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Lo smarrimento di Ippolit nei confronti della realtà è la perdita di significato della realtà e del senso della propria vita. Ciò gli rende pesante, insostenibile non solo la grave malattia ma anche tutto il resto. Egli si chiede: «Che cosa me ne faccio di tutta questa bellezza?»69. Se niente ha senso, allora la bellezza è un inganno o una

maschera del nulla, benché la più gradevole e interessante.

L’ambiguità della bellezza, causata dalla perdita di connessione tra la superficie e la profondità, fa domandare a Ippolit quale sia quella capace di salvare il mondo.

Posta strategicamente nel cuore del romanzo, la domanda di Ippolit costituisce il nucleo tematico di tutta l’opera.

L’essenza fuggevole della bellezza fa chiedere a Pavel Evdokimov:

Se anche Dostoevskij esordisce con una constatazione semplicistica: «Il Bello è ciò che è normale, ciò che è sano», ben presto si accorge che non è tutto così semplice. Egli pronuncia le celebri parole: «La Bellezza salverà il mondo» e subito chiede: «Ma quale?», perché «La Bellezza è un enigma»: sdoppiata, essa ammalia, affascina e fa perire. La Bellezza ha in se stessa una potenza salvatrice, oppure anche la Bellezza, divenuta ambigua, ha bisogno di essere salvata e protetta?

Dostoevskij pensa da filosofo. È indubbio che per lui l’unità iniziale della Verità, del Bene e della Bellezza si è scompaginata. I principi gnoseologici, etici ed estetici non si trovano più integrati nel principio religioso70.

Evdokimov parla di scisma ontologico, secondo il quale i principi gnoseologici, etici ed estetici non si trovano più uniti nel principio religioso. La Bellezza non è più unita alla Verità e al Bene, come accade con Nastas’ja Filippovna, nella quale la

tale che la perdita di questo nesso vanifica il suo potere salvifico, scadendo in estetismo. La banalità è lo smarrimento dello spessore ontologico della realtà che si offre all’uomo nella visione. Il banale è il non scorgere nella realtà sensibile il riflesso del sovrasensibile, che origina le forme. Il venir meno della realtà come segno di ciò che la origina deteriora lo stesso segno.

69 M. F. Dostoevskij, L’Idiota, op. cit., p. 479.

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verità e il bene sono presenti in misura ridotta, rispetto alla sua straordinaria bellezza fisica. Tale scissione tra il bene e il bello fa domandare a Ippolit quale sia la bellezza capace di salvare il mondo. L’Unità del tutto si è scompaginata. Il mondo, a causa del male, ha perso la sua unità originaria, quella per la quale Dio, creando il kÒsmoj,«vide che era una cosa bella» (kaπ e≈den Ð qeÕj Óti kalÒn)71.

La risposta di Dostoevskij alla questione posta da Ippolit è un altro testo nel testo, il quadro di Hans Holbein, opera già contemplata da Myškin e da Nastas’ja. Il giovane si reca a casa di Rogožin dove vede la copia della deposizione.

Mi sembra – afferma Ippolit – che i pittori abbiano tuttora l’abitudine di rappresentare Cristo sulla croce, oppure nella deposizione, con un viso di bellezza straordinaria; essi cercano di conferirgli questa bellezza anche tra le torture più atroci. Nel quadro di Rogožin di bellezza non ce n’è neanche l’ombra, c’è solo il cadavere di un uomo che ha subito indescrivibili torture prima di salire sulla croce72.

La descrizione che l’adolescente fa dell’opera è accompagnata dalla consapevolezza che «Cristo non soffrì metaforicamente ma realmente e che sulla croce il suo corpo fu sottoposto alle leggi della natura in tutto e per tutto»73. Ippolit

non riesce a superare lo scandalo74 secondo cui Cristo, con tutta la sua potenza

capace di operare i miracoli più grandiosi, si dimostra incapace di vincere sulle forze della natura.

Contemplando quel quadro la natura appare come una belva enorme, implacabile e cieca, oppure, per usare una espressione più esatta, anche se strana, come una