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Analizzare con le mappe

TECNICHE DI VISUALIZZAZIONE DELLA CONOSCENZA E RICERCA SOCIALE

VII. Mappatura della conoscenza, grounded theory e ricerca empirica

7.4. Analizzare la base empirica

7.4.4. Analizzare con le mappe

Soprattutto a livello internazionale, una quota crescente di giovani visually oriented social

researchers sta adottando forme di mappatura della conoscenza in sede di analisi della base empirica.

19 Stefania Tusini [2006: 81] ritiene tuttavia che il termine ‘rappresentatività’ rimandi a un’idea decisamente estranea agli

obiettivi dell'indagine non standard.

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Essa si fonda su due criteri di adeguatezza: gli obiettivi di ricerca legati alla teoria emergente (etic), e la specificità del campo (emic).

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Per me, il processo di ricerca dei significati o dei percorsi possibili attraverso la caotica massa di materiali che le interviste o i workshops partecipativi forniscono è una combinazione di una riflessione informata, una codifica e una definizione sistematiche (usando ad esempio Nvivo o

softwares simili), ma anche un processo intuitivo di mappatura visuale. Mi trovo spesso seduto sul

pavimento con molti fogli A1, evidenziatori, post-it, forbici e risme di trascrizioni costruendo Mm e altre rappresentazioni grafiche […] Le Mm ci servono a iniziare a pensare con e attraverso il materiale, impiegando la nostra abilità visuale di riconoscimento di punti, figure e connessioni nell’attività d’analisi. Sospetto che molti ricercatori pensino visivamente in questo modo […] L’uso di Mm come forma di pensiero mi permette di pensare attraverso forme diverse, spirali,

loops e onde, in circuiti radiali, nei patterns ricorrenti sottostanti al disordine, attraverso una

costruzione di senso di carattere visivo [Reason 2010: 5].

Secondo Daley [2004] l’uso di Mc aiuta il ricercatore a focalizzarsi sui significati e, soprattutto, fa sì che il contesto di ricerca rimanga parte integrante del processo di analisi. In termini di riduzione significativa delle informazioni ritiene ad esempio possibile «sintetizzare i concetti e gli asserti più rilevanti di un’intervista di venti pagine in uno schema concettuale di un’unica facciata» [ivi: 2, tda]; ciò offre il colpo d’occhio sull’intero colloquio e permette di confrontare le interviste tra loro. Una mappa di questo tipo può anche essere presentata agli stessi intervistati per controllare se l’intervistatore ha compreso bene ciò che loro intendevano chiedere. Successivamente, una Mc permette sia di strutturare il contenuto dell’intervista per ambiti tematici sia di creare una codifica per la classificazione dell’intera base empirica.

Le Mc possono anche essere usate per aiutare creare un sistema di categorie o di codici. Dopo che le mappe sono state create da ogni intervista o osservazione, il ricercatore può ripercorrerle alla ricerca di livelli gerarchici, interconnessioni e ricorrenze di concetti. Questi elementi possono evidenziare i temi emergenti. Il sistema di categorie creato può essere poi usato in concomitanza a

software di analisi qualitativa. Una volta che un sistema di categorie è costruito i dati possono

essere codificati e le Mc possono anche essere arricchite con links e tags ai testi e alle mappe individuali. Nel corso dell’analisi [ciò] aiuta a mantenere costante il riferimento al punto di vista del singolo e al contesto di ricerca [ivi: 3, tda].

Se le trascrizioni testuali tendono a rappresentare il linguaggio parlato in maniera lineare, le mappe lo fanno in maniera gerarchica e interconnessa. Secondo Daley, queste rappresentazioni rispecchierebbero meglio il nostro modo di pensare e di discutere nel corso dell’intervista. Le Mc create a partire dalle trascrizioni dei colloqui permettono al ricercatore di rintracciare le strutture cognitive e di rappresentarle connettendo i concetti a una rete di proposizioni. Kinchin e colleghi [2010] affermano tuttavia che, seppure il conceptual mapping fu sviluppato proprio per fornire una sintesi delle complesse informazioni ottenute attraverso l’intervista [Novak e Gowin 1984], i paralleli

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tra la descrizione qualitativa delle mappe e l’interpretazione delle interviste non sono mai stati esplicitamente delineati. Un punto di partenza comune alle due tecniche è che «entrambe vengono usate per rispondere a una domanda principale focalizzandosi su come i partecipanti concettualizzano la situazione» [Kinchin et al. 2010: 55. tda].

Similmente all’uso proposto da Daley, nel lavoro di questi autori la tecnica del conceptual mapping viene usata per la riduzione della trascrizione dell’intervista a una sintesi e strutturazione della conoscenza in essa contenuta in termini di relazioni tra concetti. In particolare viene analizzata l’utilità di una retrospective conceptual map costruita dall’intervistatore per arricchire l’interpretazione dell’informazione raccolta nel corso di ogni singola intervista22

. Anche loro affermano inoltre che quest’attività permette di raffinare la traccia dei successivi colloqui, esplorando nuove potenziali aree tematiche e individuando così nuove domande.

Come Charmaz, Kinchin e colleghi affermano che il passaggio analitico successivo alla codifica e al memoing consiste nell’organizzare questa massa di materiali in una forma visuale, una mappa o un disegno che faciliti l’interpretazione. Oltre alle singole retrospective concept maps, si può pertanto creare una mappa complessiva a partire dall’intera base empirica per offrire una visione consolidata di ciò che è stato appreso. Questa potrà cosi aiutarci a individuare il momento giusto per concludere la rilevazione, ovvero quando le nuove interviste non faranno più emergere nuovi concetti o legami. Secondo gli autori, l’uso di questo approccio non è tuttavia una garanzia di successo. La sua validità è limitata quando l’intervista non è focalizzata sui concetti e le loro relazioni (oppure prescrive un

pattern predeterminato), quando l’intervistato non descrive chiaramente i concetti e le loro relazioni (o

li interpreta in modo errato), quando l’intervistatore ha una conoscenza limitata del mondo dell’intervistato23

.

In merito alla creazione di una mappa generale che rappresenti il patrimonio concettuale del complesso di interviste svolte, Grimaldi [2011: 308] propone una serie di utili accorgimenti:

Le relazioni espresse più volte dagli intervistati potranno essere rappresentate con linee di spessore maggiore, per evidenziarne la regolarità nel manifestarsi. L’utilizzo di colori ed elementi grafici diversi potrà individuare le posizioni discordanti degli intervistati in merito ad un determinato tema, o le contraddizioni nel discorso. La mappa così generata non riassumerà quindi solo un quadro concettuale, ad esempio, di un singolo intervistato, ma il quadro concettuale relativo a temi oggetto di indagine, così come emerge dall’evidenza empirica raccolta su tutti gli intervistati […] se la mappa viene utilizzata per sintetizzare le informazioni derivante da un’intervista libera, è opportuno dividere il tema dell’intervista in tanti sottotemi, collegati tra loro da un’ipermappa in

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La retrospective concept map viene costruita solo dopo l’intervista e non prima o durante la rilevazione. Nelle sue ricerche, l’équipe rilevò peraltro una sorprendente somiglianza nelle mappe prodotte da ricercatori diversi a partire dalla medesima trascrizione.

23 Per fare un esempio dei limiti della mappatura retrospettiva dell’intervista affermano che, di fronte a una mappa molto

semplice non è dato di sapere se l’intervistato avesse una conoscenza semplificata dell’argomento o se avesse semplificato il discorso per renderlo comprensibile all’intervistatore. Ritengo tuttavia che questo sia un problema generale delle interviste che prescinde dall’impiego di strumenti visuali.

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modo tale che cliccando su alcuni nodi della mappa si possa aprire un’intera Mc autonoma rappresentante un sotto-tema.

L’autore sottolinea che una mappa generale può essere creata non solo non in relazione al contenuto delle trascrizioni d’intervista, ma anche a basi empiriche composite.

Con le Mc è possibile rappresentare anche dati testuali generati da trascrizione di interviste, resoconti di osservazione e documenti personali. L’attività di interpretazione di tali dati richiede un processo molto delicato di decostruzione del testo per identificare i concetti chiave e le relazioni che li legano. Alla decostruzione segue una ricostruzione mirata a fornire una sintesi in un formato quanto più possibile esplicito e intellegibile [Grimaldi 2011: 307-8].

Nell’adottare una mappa dei concetti [Marradi 1980] come schema di classificazione e raccolta degli stralci di interviste ermeneutiche, Diana e Montesperelli [2005] consigliano di costruire scale di generalità (cfr. par. 1.7), in modo che da un primo concetto più generale si diramino significati e proprietà sempre più specifici. La mappa è così utile a definire le categorie in cui inserire i brani dell'intervista, facilitando tanto la codifica della base empirica quanto a esplicitarne i criteri di interpretazione.

L’obiettivo cui può aspirare un atto interpretativo è incrementare l’intellegibilità, la pertinenza e la scomponibilità di un testo (cfr. Floch 1990; Fabbri, 1998; Pozzato, 2001) […] Quando il ricercatore ha in mano il trascritto di un’intervista, la sua prima sensazione è di trovarsi di fronte a una ‘nebulosa di contenuti’ (Pozzato 2001: 15) che dovrà in qualche modo diradare. Per farlo egli non può affidarsi solo alla propria interpretazione intuitiva: sarebbe comunque arbitrario o comunque eluderebbe il controllo scientifico intersoggettivo [Diana e Montesperelli 2005: 73].

Gli autori descrivono l’attività di codifica e interpretazione come interdipendenti e precisano poi due questioni:

Basta un’unica mappa per archiviare gli stralci e le osservazioni tratte da tutte le interviste: in questa maniera si possono confrontare le informazioni raccolte da intervistati diversi. In secondo luogo, la mappa può essere sempre modificata, sia in base alle novità che emergono nel corso delle interviste, sia se, in sede di interpretazione delle stesse, si dimostrano inadeguati i criteri – fin lì adottati – di classificazione degli stralci […] qualunque classificazione non ‘fotografa’ la realtà ma è sempre stipulativa e quindi modificabile; può essere valutata in base alla sua corrispondenza non rispetto alla ‘realtà’, ma rispetto agli obiettivi e all’organizzazione cognitiva del ricercatore [ivi: 76].

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I vari livelli delle scale di generalità permettono di raccogliere stralci d'intervista, sintesi e appunti dell'intervistatore accomunati dallo stesso tema. Ordinare queste informazioni per tema, ma anche per grado di generalità, consente di non replicare nei livelli più generali le informazioni contenute in quelli più specifici, o viceversa. Tuttavia, nelle trascrizioni di interviste non direttive ci si imbatte spesso in periodi complessi e più o meno ambigui, per cui risulta difficile classificarli rispettando i canoni classici: «stabilire i fundamenta divisionis, cioè i criteri intensionali che fondano l’articolazione in classi; definire confini semantici netti per garantire la mutua esclusività fra le classi; e costruire una classificazione esaustiva» [ibidem]. Per i brani di incerta collocazione gli autori suggeriscono pertanto due strategie:

Collocarli ad un livello di generalità più alto o in più categorie, purché poche: successivamente rileggendo l’insieme degli stralci, si potrà eventualmente trovare una collocazione esclusiva. Se invece risultasse difficile rispettare il criterio classificatorio dell’esaustività – perché un brano è interessante e quindi non andrebbe scartato, ma purtroppo non sembra inseribile in nessuna categoria – allora converrebbe aumentare il numero delle classi. Oppure si potrebbe definire una categoria residuale e temporanea, in cui inserire i brani controversi; e successivamente, al termine della classificazione di tutti i brani, trovare la sistemazione definitiva [ivi: 65].

In generale, illustrando alcune strategie per affrontare le principali difficoltà del processo di analisi, gli autori suggeriscono, come Novak e Charmaz, di lavorare sullo schema di classificazione degli stralci in itinere.

Trascrivere integralmente le prime tre o quattro interviste e analizzarle per individuare i temi più significativi: ciò dovrebbe aiutare a definire in maniera soddisfacente le categorie in base alle quali raccogliere gli stralci delle altre interviste […] È inoltre opportuno lavorare in gruppo, per giungere – attraverso una negoziazione condivisa – ad una classificazione più plausibile [ivi: 64].

I due metodologi vedono pertanto nella mappa dei concetti uno strumento utile a facilitare ed esplicitare i processi di categorizzazione e a organizzare la base empirica, lavorando principalmente su concetti e pre-asserti. Ponendo l’accento su questa funzione essi assumono peraltro una posizione in parte differente sia da Novak sia da Buzan. Il primo, infatti, pur chiamando il suo strumento ‘mappa concettuale’, pare concentrarsi soprattutto sulla possibilità di rappresentare la conoscenza in termini di asserti e nessi tra asserti. Il secondo, proponendo una rigida espansione radiale della rappresentazione, impedisce la costruzione di più scale di generalità. È forse alla luce di questa differente impostazione che Diana e Montesperelli, come Marradi, propongono una mappa priva di legami etichettati e senza una direzione di espansione prestabilita.

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Su questo punto, così come sull’utilità delle Cm e delle Mm non vi è tuttavia accordo. Se da un lato, come accennato, adesioni aprioristiche all’uno o all’altro approccio stanno lasciando il campo a orientamenti più pragmatici, dall’altro è raro che le rigide tecniche tradizionali vengano messe in discussione sul piano teorico. Meier [2007] giustifica così la scelta del mind mapping nel suo studio interdisciplinare su crimine armato:

Abbiamo scoperto che le Mm aumentano la flessibilità nel corso dell’analisi di dati qualitativi, essendo facili da disegnare e modificare – particolarmente utili per il processo iterativo dell’analisi qualitativa che implica ciclici spostamenti tra la visione “olisitca” e lo sguardo in profondità nelle singole parti […] Le Mm sono più utili quando l’obiettivo principale è quello di sviluppare una comprensione globale di tutti i concetti chiave relativi a un dato argomento; le Mc sono più utili quando ci si focalizza sulla natura delle relazioni tra concetti [Meier 2007: 3-4, tda].

Anche Brightman [2003] afferma che la tecnica da scegliere dipende da cosa si vuole ottenere.

Direi che le Mm sono più utili come strumento di riflessione personale, esplorazione della conoscenza e apprendimento. Le Mm tendono a essere molto personali, specialmente quelle fatte a mano contengono poche parole e molte immagini. Sarebbe difficile far calzare questa tecnica nel corpo degli studi qualitativi e usarla come forma primaria di Qualitative Data Structuring […] Le Mc hanno più da offrire in questo senso: possono essere usate per esprimere complesse forme di relazioni tra classi di informazioni [ivi: 9].

Osservando le mappe prodotte nel corso delle indagini menzionate in questo capitolo è però raro imbattersi in rappresentazioni ortodosse rispetto alle prescrizioni originarie. Wheeldon e Faubert [2009] criticano infatti le rigidità difese ancora oggi dai teorici di riferimento [Novak e Cañas 2008; Buzan 2004] e affermano che le tradizionali tecniche di Mc e Mm andrebbero estese in modo da includere approcci più flessibili e adatti alla rappresentazione visuale dell’esperienza, «offrendo […] un mezzo grafico che mette al centro il soggetto studiato, per ancorare i dati alla teoria» [ivi: 68, tda]. In linea con l’ipotesi proposta alla fine del precedente capitolo, anche nella mia esperienza di analisi della base empirica ho infatti trovato più utile servirmi di vari tipi di mappe che presentassero livelli di strutturazione differenti e mai completamente assimilabili all’una o all’altra tecnica.