2.2. Limiti generali dell’uso del linguaggio
2.2.1. Il problema dell’unità di senso del linguaggio
I limiti della possibilità di dividere le unità linguistiche senza perderne il significato ha costituito per oltre un secolo l’oggetto di un ampio dibattito in tutte le discipline che si sono addentrate nello studio del linguaggio. James [1890: 217] affermò che ogni parola è costituita dal nucleo concettuale di senso che designa – cioè il significato che può esser descritto nei dizionari – ma che esso è circondato da un alone, un “sistema di frange” legato al contesto nel quale viene tematizzato e per il quale «la parola ha il suo senso particolare nella struttura non solo della proposizione isolata, ma nell’intero contesto del linguaggio, a cui questa proposizione appartiene».
Altre frange si riferiscono alla situazione particolare nella quale il termine è usato o alla meditazione particolare grazie alla quale è entrato nel campo tematico. Ci sono poi frange emozionali, legate più alla forza evocativa del termine che non al suo carattere concettuale, oppure semplici
11 Abbiamo già visto come, secondo Schütz, l’esperienza appena trascorsa venga pertanto anticipata da quelle passate sotto
forma di esperienze tipiche. Ma nel caso in cui essa fosse invece ragionevolmente nuova, le aspettative tipizzanti dovrebbero essere annullate (l’autore usa il termine “esplose”). Tuttavia anche in questo caso, nel presentarsi come atipica, essa avrà una connessione di senso con esse, ovvero quella individuata dalla seconda concezione di ignoto descritta dall’autore, secondo la quale il vuoto cognitivo generato dalla novità verrà comunque riempito in modo tipico (cfr. par. 1.7).
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correlazioni fonetiche con altri termini, e via dicendo. Pertanto, l’eliminazione arbitraria delle frange che circondano il nucleo concettuale del significato rischierebbe così di modificare o eliminare la stessa connessione di senso12.
Schütz sottolinea come il linguaggio ordinario possegga le sue articolazioni naturali, le sue proprie strutture ritmiche e segni d’interpunzione che, anche nella prosa, permettono di fermarci a certi “punti di riposo” e di riprodurre la piena connessione di senso.
Se l’interruzione non si verifica ad un punto di riposo naturale, e se il legame mancante alla connessione di senso non è fornito dalle frange che connettono l’espressione ellittica con elementi ben determinati presenti nella situazione in cui il discorso ha luogo, un tal enunciato ellittico rimane incomprensibile. D’altra parte una parola isolata (ad esempio un’interiezione) può avere una completa connessione di senso, che le deriva dalle frange mediante le quali è correlata agli elementi determinati della situazione [Schütz 1970: 86].
Se la nuova linguistica di Von Humboldt assume che la funzione primaria del linguaggio non sia denominare i referenti ma esprimere le loro relazioni, l’unità d’analisi del linguaggio non è più il termine, ma la frase13. Così Cassirer individua nel verbo l’espressione immediata di ogni “atto sintetico del porre” e, in piena coerenza col pensiero di Schütz, situa il concetto di sintesi all’origine del pensiero e del linguaggio. Pertanto «la differenziazione in parole e l’integrazione in frase rappresentano procedimenti correlativi che si uniscono in una singola funzione rigorosamente unitaria» [Cassirer 1929/1961: 340]. Così, anche i concetti che si riferiscono alle cose materiali servono a presentare delle relazioni. A detta del tedesco, questo meccanismo si rende palese se si pensa all’origine etimologica dei suffissi usati per esprimere qualità e proprietà, specie e modi di essere. Essa mostra infatti come un’espressione concreta si spogli di questo carattere per rivestire sempre più quello di espressione di rapporto14. D’altro canto, solo l’offuscarsi del significato della prima diventa il mezzo logico per il progressivo perfezionamento della seconda. Anche in questo caso non bisogna fermarsi ai fenomeni di formazione delle parole, ma considerare piuttosto il loro ruolo nei rapporti di formazione della frase. La facoltà di analisi e di sintesi in questo modo si equilibrano: tanto più la frase-parola
12 Quando invece si divide la parola in sillabe, o si isola un simbolo matematico dalla funzione nella quale è inserito, si
distrugge addirittura lo stesso nucleo concettuale.
13 Come vedremo di seguito, questo assunto è stato fatto proprio da molti studiosi del linguaggio: oltre che dai menzionati
neo-humboldtiani, quali Trier [1931] e Cassirer [1929/1961], anche da Umberto Eco [1975] e da Naom Chomsky [1957]. Quest’ultimo, nell’adottarlo, offrirà ulteriori argomentazioni in opposizione al comportamentismo skinneriano e batterà nuove piste per gli studi sui processi cognitivi. Pertanto, seppure si tratti di un linguista, il suo lavoro verrà menzionato in seguito, quando tratterò della tradizione cognitivista (cfr. par. 3.1.2).
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Ad esempio, ciò risulterebbe evidente nell’evoluzione dei suffissi heit, schaft, tum, bar, lich, etc. nella lingua tedesca.
Lich, divenuto uno dei mezzi principali per la formazione di concetti aggettivali, risale indirettamente al sostantivo lika
(corpo). Così heit, oggi usato per ogni astratta designazione di proprietà, deriva da un antico sostantivo gotico, germanico e sassone che designava persona, condizione sociale, dignità. Così «solo da questa applicazione dei suffissi viene preparato il terreno alla designazione linguistica dei puri concetti di relazione. Ciò che inizialmente serviva come denominazione speciale di cose si risolve ora nell’espressione di una forma categoriale di determinazione, per esempio nell’espressione del concetto di proprietà» [ivi: 337].
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accoglie in sé determinazioni modificanti, incorporando altre parole e particelle, tanto più essa si avvicina alla situazione concreta a scapito del nesso generale.
Secondo Eco [1984], le lingue sono sistemi di segni ma, in base alla loro struttura interna, sono in primo luogo sistemi di figure che si possono usare per costruire segni. Concepire una lingua come una struttura di segni sarebbe pertanto insufficiente. Allo stesso modo, i fonemi, prima di essere combinati, non veicolano unità semantiche, se non semplici onomatopee, oppure ne veicolano troppe lasciando il significato indefinito. Pertanto i fonemi non sono semi15.
I segni (o la funzione segnica) appaiono dunque come la punta emergente e riconoscibile di un reticolo di aggregazioni e disgregazioni sempre aperto a una ulteriore combinatoria. Il segno linguistico non è una unità del sistema di significazione ma una unità riconoscibile del processo di comunicazione [ivi: 14].
Le unità culturali di riferimento dei linguaggi naturali di rado sono entità formalmente univoche; spesso invece sono fuzzy concepts o insiemi sfumati. Il loro studio richiede pertanto precauzioni: le unità semiotiche vanno studiate come sememi aperti a più letture, ovvero nella loro equivocità. Come per gli humboldtiani, l’unità semiotica non è il segno ma l’enunciato (esso è il ‘sema’) in quanto il primo non ha di per sé significato. Ad esempio, una freccia non concretizza un preciso stato di coscienza finché non è inserita in un contesto, così la parola isolata: ‘tavolo’ evoca un membro virtuale della molteplicità di enunciati in cui può essere inserita; tuttavia possiede un significato anche se di per sé non nomina nulla. Perciò, secondo Eco, sarebbe meglio dire che la parola deve rinviare sia a entità semantiche atomiche sia a «istruzioni contestuali che ne regolino l’inseribilità in porzioni linguistiche maggiori del segno. Non si può pensare al segno senza vederlo in qualche modo caratterizzato dal suo destino contestuale, ma non si può spiegare perché qualcuno capisca un dato atto linguistico se non si discute la natura dei segni che esso mette in contesto» [ibidem]. Pertanto, la semiotica generale non ha un’unica unità d’analisi. La teoria dei codici parte da segni e funzioni segniche (come può avvenire in un dizionario), mentre, quando si passa allo studio della comunicazione – ovvero alla teoria della produzione segnica – il segno deve essere interpretato (cfr. par. 1.3). Questo processo implica il riferimento al significato del segno contestualizzato (nella frase, nella situazione, etc.), per cui unità d’analisi diviene l’enunciato. La semiotica generale deve pertanto muoversi su entrambi i livelli che Eco chiama metaforicamente del “dizionario” e della “enciclopedia”16. Egli definisce un ‘testo’ «sia
una catena di enunciati legati da vincoli di coerenza, sia gruppi di enunciati emessi contemporaneamente sulla base di più sistemi semiotici […] È dunque necessario stabilire la differenza tra significato delle espressioni semplici, il significato lessicale, e il significato testuale; così
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Il sema è l’unità di base della semiotica.
16 Questa seconda modalità rimanda a quello che nella teoria letteraria è noto come il fenomeno della ‘significanza’
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come la differenza tra significato diretto e indiretto. Significato convenzionale e situazionale distinguono ciò che una espressione ‘dice’ convenzionalmente da ciò che qualcuno ‘vuole dire’ (o
intendere) usando una espressione» [ivi: 64-5]. Nessuna di queste operazioni è automatica, tanto che
lo stesso significato lessicale è raggiunto tramite interpretazione17, in quanto è anch’esso situato. Nel riconoscere questi due livelli di comprensione del testo, Polanyi [1956/1990: 408] afferma che «la precisione o imprecisione è una proprietà che può essere predicata di una designazione quando viene controllata mediante accostamento a qualcosa che non è una designazione ma è la situazione con cui la designazione ha a che fare18», ovvero il contesto comunicativo.
L’articolazione non è però un tratto esclusivo del linguaggio. Ad esempio, anche un tema musicale è articolato, fraseggiato, pur in assenza di riferimenti al campo predicativo. Ciò che abbiamo detto del linguaggio e della musica è infatti, secondo Schütz, un carattere generale della vita spirituale stessa. È la tensione della coscienza che regola il ritmo di queste pulsazioni e articolazioni per cui, ogni suo stato, ogni regione definita di senso, così come ogni provincia di significato, mostrerà una ritmica propria.