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Risvolti pragmatici, relazionali e sociali dell’uso del linguaggio

2.1. Cose e concetti nel linguaggio

2.1.3. Risvolti pragmatici, relazionali e sociali dell’uso del linguaggio

Nel particolare processo di categorizzazione che avviene ad opera del linguaggio, gli oggetti di coscienza vengono ricondotti a dei tipi che li rappresentano attraverso le categorie linguistiche. Ma, come ogni processo di categorizzazione, l’oggetto viene colto soltanto soggettivamente in base ad alcune proprietà ritenute rilevanti sotto l’influsso dell’interesse, delle emozioni e del contesto. Se Cassirer ricorda come le cose diventino cose soltanto quando abbiano subìto una denominazione da parte dell’uomo e che, come il mito, anche il linguaggio parta dalla forma fondamentale dell’operare, Schütz ribadisce l’idea che i termini di un linguaggio ci dicano quali concetti sono stati, secondo una data comunità linguistica, “degni di essere denominati”, ovvero, quali ricoprano o abbiano ricoperto interesse per essa. Così, come il pensiero, anche l’uso e la formazione del linguaggio sottostanno a rilevanze motivazionali di carattere pragmatico. E questo processo costituirebbe un passaggio cruciale verso l’oggettivazione. Il significato dei concetti e il principio che li determina divengono infatti evidenti solo se, all’astratto significato logico, viene associato quello teleologico. La coscienza non è passiva: solo quello che tocca l’attività interiore appare significativo e potrà così ricevere l’impronta del significato anche nel linguaggio. Ecco un altro motivo grazie al quale, sia per Cassirer sia per Schütz, nella denotazione non vige un criterio di astrazione ma di selezione. Similmente, per Polanyi [1958/1990: 220], «le lingue sono il prodotto della lotta degli uomini con le parole durante il processo col quale vengono realizzate nuove decisioni concettuali […] sono conclusioni diverse raggiunte dagli sforzi secolari di gruppi diversi di persone in diversi periodi della storia». Secondo l’ungherese, in coerenza con la visione pragmatica, il primo principio operazionale del linguaggio è quello di povertà, per il quale una lingua deve essere sufficientemente povera da permettere che le stesse parole siano usate un sufficiente numero di volte. Da esso discende quello di trattabilità, secondo il quale il valore della rappresentazione dell’esperienza, non sta nella sua fedele riproduzione ma nella sua capacità di rivelarne aspetti nuovi.

I simboli, come i concetti, sono pertanto inseriti in un tessuto di relazioni: un sistema simbolico nel quale essi rimandano vicendevolmente l’uno all’altro. Allo stesso modo, come abbiamo visto poc’anzi, essi sono legati all’elemento sensibile, pur mantenendo un certo grado di libertà e autonomia. A riguardo Schütz considera ogni sistema simbolico un tipo particolare di schema interpretativo che va a definire una precisa “provincia di significato”, collocata in una specifica regione definita di senso (cfr. par. 1.4). secondo questa visione, il linguaggio ordinario sarebbe la provincia più estesa, il più ampio bacino di significati condivisi che tutti i suoi “abitanti” possono tra loro scambiarsi. Anche questo concetto risulta tuttavia già rintracciabile nell’analisi di Cassier. Egli afferma che, tra le varie lingue, le differenze nelle forme di denominazione nascondono i diversi criteri con i quali i rispettivi termini

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vanno ad esprimerne le relazioni. La denotazione è così una scelta che deriverebbe dall’atteggiamento complessivo di una lingua. Ad esempio, sostiene il filosofo, se la luna in greco viene indicata come “colei che misura” e in latino come “colei che riluce”, ci troviamo di fronte a una unica intuizione sensibile ricondotta sotto concetti diversi e da essa determinata; due intensioni che rinviano alla stessa estensione.

Se secondo la dibattuta ipotesi Sapir-Whorf4 ogni lingua esprime una particolare visione del mondo, vi sono tuttavia anche concezioni della realtà e del linguaggio che trascendono le singole lingue. Cassirer parla di conoscenza scientifica, dell’arte e del mito – ovvero delle principali province di significato individuate da Schütz – e sostiene che le varie “forme” si possono distinguere in base a tre proprietà: la concezione dello spazio, la concezione del tempo, la qualità delle relazioni che evidenziano. Così, se ad esempio nella scienza questi elementi sono legati a un sistema di ragioni e conseguenze, nell’arte esse rappresentano “un tutto nella dinamica compenetrazione dei suoi elementi”. Ma anche la stessa causalità rimanda a significati diversi nel pensiero scientifico e in quello mitico, seppur entrambi pongano come centrale il problema dell’origine. È così che ogni forma, ogni provincia di significato, ha un proprio principio costitutivo; è un contesto normativo che imprime il proprio marchio a tutte le forme in essa presenti.

La conoscenza, come pure il linguaggio, il mito e l’arte non si comportano come un semplice specchio che non fa che riflettere le immagini di un dato dell’essere esteriore o dell’essere interiore quali in esso si producono, ma sono, anziché mezzi indifferenti di tal genere, le vere e proprie sorgenti luminose, le condizioni del vedere, così come sono le fonti di ogni attività formatrice [Cassirer ivi: 30-31].

A conclusioni analoghe giunge Polanyi [1958/1990: 446] quando afferma che nei sistemi prescrittivi della legge, della scienza, ma anche del pensiero comune «l’esperienza serve come tema di un’attività intellettiva che ne sviluppa un aspetto nella forma di un sistema che è stabilito e accettato su basi di evidenza interna», ovvero autoreferenziale e tendente alla conservazione. Nel sottolineare come la completezza di uno schema non implichi la sua correttezza, egli spinge questa visione alle estreme conseguenze – sulle quali peraltro baserà le sue più taglienti critiche alle teorie scientifiche oggettiviste.

Le convenzioni che sono più profondamente radicate dentro di noi sono quelle determinate dall’idioma in cui interpretiamo la nostra esperienza e grazie alla cui terminologia costruiamo i nostri sistemi articolati. Le credenze formalmente dichiarate possono essere ritenute vere in ultima

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Formulata dal linguista e antropologo Edward Sapir e ripresa dal suo allievo e collega Benjamin Whorf, essa costituisce, a detta di molti, il più citato esempio di determinismo linguistico. Ne ho infatti rintracciato critiche esplicite in Polanyi [1956/1990], Eco [1975 e1984], Legrenzi [1983] e Marradi [2001].

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istanza solo per la precedente accettazione di un particolare insieme di termini, a partire dai quali vengono costruiti tutti i riferimenti alla realtà [ivi: 456].

Tra le varie forme, il linguaggio verbale ordinario si può considerare il sistema di modellizzazione primario del pensiero e il suo principale mezzo di comunicazione.

La sua natura di codice intersoggettivamente condiviso permette al linguaggio di assolvere anche per una comunità quella funzione di registrazione e fissazione dei pensieri che assolve per il singolo. In tal modo si crea quel patrimonio collettivo di simboli durevoli che Schütz [1932/1974] chiama Vorwelt (mondo prima). Oltre alla sedimentazione di lungo periodo, si rendono possibili anche quei contatti indiretti a distanza, mediati simbolicamente, che Schütz chiama Mitwelt (mondo insieme) [Marradi 2007: 40].

Per la semiotica generale ci troviamo di fronte a un processo comunicativo quando osserviamo «il passaggio di un Segnale (il che non significa necessariamente un ‘segno’) da una Fonte, attraverso un Trasmettitore, lungo un Canale, a un Destinatario (o punto di destinazione)». Tra macchina e macchina si avrà così semplice passaggio di informazione, ma non significazione. Se il destinatario è invece un essere umano ci sarà significazione perché egli avrà interpretato lo stimolo. Pertanto, il processo di comunicazione presuppone quello di significazione e non viceversa. La semiotica della significazione, descritta brevemente nel paragrafo 1.3, può essere infatti considerata indipendente da quella della produzione segnica5. Pertanto «il destinatario umano è la garanzia metodologica (e non empirica)

dell’esistenza della significazione, vale a dire dell’esistenza di una funzione segnica stabilita da un

codice. Ma parimenti la presenza supposta dell’emittente umano non è affatto garanzia della natura

segnica di un supposto segno» [Eco 1984: 28]. Chi riduce la semiotica a una teoria degli atti

comunicativi non considererebbe quindi questo secondo ordine di eventi, ovvero l’unità d’analisi della teoria dei codici. La relazione tra codice e destinatario entra invece in gioco soltanto nella teoria della funzione segnica.

In merito alla caratteristica della socialità della conoscenza, Cassirer ricorda come Ludwig Noiré [1877] – nel riprendere le ipotesi di Lazarus Geiger sull’evoluzione del senso cromatico6 sostenesse che tutti i fenomeni originari della lingua non abbiano tratto il loro punto di partenza dall’intuizione oggettiva dell’essere ma da quella soggettiva dell’agire; così la funzione sociale del linguaggio come mezzo di comprensione sarebbe resa possibile dalla forma sociale dell’agire.

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Come abbiamo visto, la produzione segnica consiste di tutti i processi necessari a produrre e interpretare segni, di tutte le forme di manipolazione del segnale e, più in generale, di tutto ciò che riguarda il processo comunicativo.

6 A partire dalla constatazione che nelle lingue antiche i nomi sono pochi e imprecisi – e a seguito di un’analisi

dell’impiego dei termini cromatici in testi antichi di varia provenienza – Geiger [1861] affermò che l’evoluzione dei termini riferiti ai colori poteva essere intesa come un riflesso della storicità della percezione sensibile e quindi come un capitolo della vicenda evolutiva dell'uomo. Le sue tesi, sviluppate in un’epoca di forte attenzione alla dimensione psicologica della cultura, furono subito oggetto di vivace dibattito.

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Come abbiamo visto, uno degli assunti fondamentali della filosofia di Cassirer è che il linguaggio non segue mai soltanto il carattere delle impressioni sensibili e delle rappresentazioni, ma si contrappone a esso con azione indipendente. Così, oltre alla socialità e all’intento comunicativo del linguaggio, anche la sua stessa autonomia contribuirebbe a spingere le classificazioni verso strutture sistematiche e condivise. Per le regole della congruenza che vigono nella logica e nella struttura grammaticale del linguaggio, le distinzioni concettuali che vengono fatte nel nome si trasferiscono da questo alla totalità delle forme linguistiche. Similmente, secondo Schütz [1932/1974: 59], il linguaggio «ipostatizza in un certo modo i vissuti sui quali si dirige lo sguardo come comportamento e quindi fa di questa stessa direzione dello sguardo un predicato». Esso amplia le possibilità di comunicazione intersoggettiva grazie al fatto che armonizza i significati degli oggetti che rappresenta e, contemporaneamente, i sistemi di rilevanze a essi connessi; entro certi limiti li oggettivizza7. Questo passaggio costituisce uno spartiacque fondamentale per la nostra analisi. Si rende infatti per la prima volta necessario considerare l’elemento dell’intersoggettività e socialità della conoscenza, il fatto che essa è in larga parte derivata è socialmente distribuita.