III. Concettualizzazione e conoscenza nelle discipline scientifiche
3.1. L’apporto della Gestalt e degli studi cognit
3.1.1. La concettualizzazione secondo il primo cognitivismo
Lo psicologo sperimentale Clark Hull [1920] fu tra i primi a progettare condizioni quasi- sperimentali per studiare i processi di “astrazione”. Seppure ancora legato alla visione essenzialista e nominalista tipica di Wundt e dei comportamentisti, nei suoi ingegnosi esperimenti basati sull’esposizione di serie di ideogrammi cinesi a soggetti occidentali, giunse alla fondamentale scoperta che questi erano in grado di identificare un concetto già prima di essere in grado di nominarlo; pertanto, attraverso un processo inconscio e ante-predicativo. In seguito Kenneth Smoke [1932], dimostrò che l’astrazione di caratteristiche fisiche comuni a una serie di stimoli individuata da Hull, era soltanto uno tra i processi di concettualizzazione possibili. Più che astrarre o nominare, coerentemente a quanto affermato da Schütz e Cassier (cfr. parr. 1.7 e 2.1), i concetti individuano
3 Trovo tuttavia più corretta la posizione di Schütz che, alcuni decenni prima, rivelò la continuità tra le diverse regioni
definite di senso nel campo di coscienza, ovvero il fatto che il vissuto fenomenico può riguardare qualsiasi livello e tensione di coscienza (cfr. par. 1.2). Pertanto, in certe situazioni, anche un ricordo o una fantasia possono costituire una stimolazione appropriata. Si pensi, non a caso, al contesto di un’intervista in cui venga chiesto al soggetto di raccontare un episodio della sua vita.
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infatti relazioni che possono o meno riguardare caratteristiche fisiche costanti. Smoke rilevò inoltre che, già prima di riuscire a dare un nome a un concetto, i soggetti sono capaci di eliminare gli stimoli nei quali la relazione da esso evidenziata non sia rispettata, e che, come notò Hull, il criterio linguistico non coincide affatto con quello operativo (ovvero la capacità di discriminare tra esempi validi e non validi) che invece spesso lo precede.
Il principale punto di riferimento della psicologia cognitivista è però Jerome Seymour Bruner, il quale, grazie anche a una vastissima attività di ricerca, giunse per primo a integrare le sue scoperte in un sistema teorico articolato e coerente4. Fu egli – assieme ad Allport, Tajfel e Klein – a fare da propulsore al movimento della New Look of Perception5, un filone di studi sulla percezione che si affermò nel secondo dopoguerra facendo propri una serie di assunti:
- ci sono “determinanti comportamentali” quali l’apprendimento, la personalità, gli atteggiamenti sociali e le opinioni, che influenzano il riconoscimento percettivo e che vanno pertanto studiati; - vi è continuità tra attività percettiva e concettuale. Anche la prima è di tipo inferenziale e con essa
l’individuo costruisce il suo mondo percettivo sulla base dell’informazione fornita dai sensi;
- l’attenzione è selettiva. Per comprendere l’acquisizione della conoscenza, così come la concettualizzazione e l’inferenza, bisogna sempre tenere presenti le esigenze dell’azione e gli usi ai quali la conoscenza è finalizzata.
Nel suo interessarsi ai processi cognitivi, Bruner si addentrò in vari ambiti disciplinari affini alla psicologia: dalla pedagogia alla gnoseologia. Rispetto a quest’ultima, l’interesse per il ruolo del pensiero nella percezione lo spinse a studiare a fondo i processi di inferenza e concettualizzazione. Egli affermava che la percezione «può essere vista come un atto di categorizzazione6 che, benché forse silenzioso e inconscio, si fonda su un salto inferenziale dallo spunto ad una classe di identità, e appare come il prodotto di una strategia costituita da una serie di decisioni» [Bruner 1967/1973: 29]. Merita rimarcare come egli denotasse con l’espressione ‘strategia cognitiva’ «uno schema di decisioni nell’acquisto, conservazione e uso dell’informazione, che serve a raggiungere certi scopi, cioè a garantire certe forme di risultati e a garantire contro altre forme di risultati» [Bruner et. al. 1956: 194]. Essa favorisce così l’efficienza: assicura che il concetto sarà acquisito solo dopo un minimo numero di incontri con casi, economizza gli sforzi della memoria e riduce il numero di categorizzazioni sbagliate prima di apprendere la giusta intensione. È tuttavia raro che una strategia cognitiva venga messa in atto consciamente, per cui Bruner offre in merito una delle sue più significative prescrizioni
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Si noterà tra breve come la sua visione dei processi cognitivi, così come le sue indicazioni metodologiche per studiarli, rivelino alcune assonanze con la fenomenologia schutziana – dalla visione pragmatica del pensiero alla necessità di costruire idealtipi per indagarlo.
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Esso fu storicamente determinante nella ripresa dei temi principali di questo studio, in quanto ravvivò il dibattito sui concetti di set e di attenzione, così come sull’importanza dell’esperienza passata nell’organizzazione percettiva, seppure – riconosce in seguito lo stesso Bruner [1960] – attraverso errori sperimentali piuttosto grossolani.
6 Con ‘categoria’ egli denota una «regola per classificare gli oggetti come equivalenti» [Bruner 1967/1973: 46], la cui
appropriatezza si rivela nella capacità di compiere adeguate predizioni. Essa prescrive pertanto le proprietà da considerare, la combinazione degli stati sulle proprietà possibili, il peso delle diverse proprietà sull’inferenza categoriale, i limiti di accettazione entro cui devono ricadere le proprietà. Egli afferma inoltre che, ceteris paribus, prevarrà la categoria più accessibile, data la predisposizione dell’organismo a operare rispetto agli eventi più probabili.
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metodologiche: il modo migliore per risalire a essa consiste «nel paragonare ciò che un soggetto effettivamente fa con un insieme di strategie razionali o ideali e nel determinare il procedimento migliore. Domandiamo allora a quale strategia il soggetto si conformi maggiormente» [ivi: 195].
Questo procedimento – che indaga la concettualizzazione similmente a come la sociologia comprendente ricerca la motivazione dell’azione sociale, ovvero costruendo idealtipi (cfr. par. 3.2) – viene ripreso e ampliato da molti cognitivisti, che lo ritengono l’unica via possibile per uscire dalla contraddizione per la quale l’oggetto di studio della scienza psicologica sono processi in larga parte inconsci. Legrenzi [1983: 379-80] lo riassume efficacemente così:
Immaginiamo […] che lo psicologo faccia questo ragionamento: “il processo sottostante questa prestazione (poniamo che concerna la competenza linguistica del soggetto) è inconscio ma se funziona nella maniera m dovrò necessariamente avere i dati x. Ora in assenza di dati x si ricava necessariamente che la mente non funziona secondo l’ipotesi m”. Tale è infatti lo status epistemologico che caratterizza la fondazione teorica di tutte le ricerche sulla memoria semantica da noi presentate.
La svolta epistemologica cognitivista, rispetto al comportamentismo, consiste pertanto nel ritenere il comportamento osservato, non come un fine, ma come un mezzo per risalire ai processi che lo determinano. A titolo di esempio, Bruner compì una serie di ricerche con l’obiettivo di far apprendere ai soggetti un concetto già presente nella mente del ricercatore. Questi presentava un cartoncino – con un immagine recante una serie di caratteristiche di forma e colore particolari – come caso positivo del concetto; a seguire altri cartoncini con caratteristiche in parte differenti limitandosi a segnalare se si trattasse di casi positivi o negativi del concetto da apprendere e registrando quindi le strategie e i tempi di tale acquisizione. Bruner individua così una serie di strategie cognitive come la “messa a fuoco conservativa”, che, economica e sicura, permetterebbe ai soggetti di scoprire l’intensione di un concetto attraverso due semplici passaggi.
a) il soggetto considera una caratteristica alla volta del primo oggetto visualizzato (il caso positivo) e mostra al ricercatore un altro oggetto che non la presenta;
b1) se il risultato della variazione porta a esito positivo, l’attributo variato è irrilevante;
b2) se esso conduce a esito negativo, l’attributo variato partecipa invece all’intensione del concetto. Come Polanyi, il francese ritiene l’apprendimento di un concetto un processo irreversibile che presuppone la definizione di un criterio di associazione, sia esso implicito o esplicito; così vale per le strutture cognitive e per ogni teoria sulla realtà formulata per mezzo di esse.
Una buona teoria, ovvero un buon sistema di codificazione sia formale che probabilistico, dovrebbe consentire di andare al di là dei dati sia in prospettiva che in retrospettiva. Torniamo indietro – operiamo una riconversione dei nostri schemi – e ordiniamo dati che prima sembravano privi di
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rapporto tra loro. Aspetti da tempo privi di una collocazione logica diventano ora parte di un nuovo modello. D’altra parte andiamo avanti nel senso che abbiamo nuove ipotesi e predizioni riguardo ad altre cose che dovrebbero stare in un certo modo, ma che non abbiamo ancora verificato. Al termine di questo lavoro di riorganizzazione in base al nuovo sistema di codificazione teorica, tutto sembra ovvio, se i conti tornano [Bruner 1967/1973: 311].
Rinveniamo così nelle strutture cognitive individuate dal francese dinamiche assimilabili a quelle che Trier e Schütz riscontrarono rispettivamente nei ‘campi semantici strutturati’ e negli ‘schemi della nostra esperienza’ (cfr. par. 1.5).