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Problematizzazione e sviluppi del programma cognitivista

III. Concettualizzazione e conoscenza nelle discipline scientifiche

3.1. L’apporto della Gestalt e degli studi cognit

3.1.2. Problematizzazione e sviluppi del programma cognitivista

Il programma bruneriano, più che condurre a leggi generali del pensiero, ha il merito, secondo Legrenzi [1983], di aver individuato alcune costanti della mente umana: il fatto che i soggetti non agiscono a caso o meccanicamente, ma secondo strategie; la loro maggior facilità a manipolare determinate relazioni logiche rispetto ad altre7; la tendenza a inferire regole o principi soggiacenti ai modelli, che consentono di trasferire l’apprendimento a problemi diversi. In sintesi, i suoi esperimenti, come quelli dei suoi successori, offrono evidenze empiriche all’idea che «le nostre capacità di ragionamento variano in funzione del materiale impiegato, del contesto e del tipo di istruzioni fornite […] Ciò vanifica la speranza millenaria di elaborare un sistema logico-formale che riproduca il nostro concreto modo di ragionare. Oggi sappiamo che non si può descrivere il nostro pensiero se non tenendo conto delle caratteristiche di “cosa” e di “come” si pensa» [ivi: 333].

L’autore osserva però che, una volta introdotto il concetto di cultura nel discorso sul pensiero, tutte queste situazioni sperimentali, comprese quelle bruneriane, divengono artificiali e riduzionistiche in quanto la distinzione tra cosa rappresenta o no un concetto nella vita quotidiana è spesso molto più ambigua e sfumata. In merito egli riprende la molto dibattuta questione sul riconoscimento dei colori alla quale ho accennato per bocca di Eco e di Lotze (cfr. parr. 1.5 e 2.1). Le ricerche effettuate a riguardo da Brown e Lenneberg [1954] permettono di intravedere nel campo cromatico delle “zone innominabili”, alle quali nessuno, o soltanto pochi soggetti, riescono a dare un nome; così come zone sulla cui etichetta i soggetti si trovano in disaccordo. Essi riconobbero inoltre, come fece Schütz ispirato dalle riflessioni degli scettici, il carattere probabilistico del riconoscimento, per cui, come intuibile, la determinatezza di un nome è massima nei punti focali e diminuisce allontanandosi da essi. Tuttavia il processo di attribuzione del nome dipende tanto dalla competenza linguistica del soggetto quanto dal contesto culturale più ampio nel quale si collocano gli stimoli. Secondo la citata

7 Egli vide ad esempio come vi sia una generica difficoltà a usare le informazioni provenienti da casi negativi, così come le

strategie basate sulla falsificazione. Egli motiva queste osservazioni in maniera simile a Schütz, affermando che nella vita di tutti i giorni ci affidiamo a regole che ci sono utili a risolvere i nostri problemi senza metterle in discussione, a meno che la situazione non ci costringa a farlo. Questa comune tendenza alla verifica, utile forma di economia cognitiva, starebbe tuttavia alla base del conformismo e degli stereotipi.

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ipotesi Sapir-Whorf, i linguaggi naturali non solo riflettono la cultura del parlante ma influenzano i suoi modi di pensare e di agire. Questa tesi fu in seguito ridimensionata proprio da indagini come quelle di Brown e Lenneberg che dimostrarono come – seppur vi siano gradi diversi di riconoscibilità di un referente tra diversi soggetti e gruppi, per cui quelli che hanno un vocabolario più ricco daranno prestazioni migliori in termini di riconoscimento – i processi cognitivi sottostanti non sono qualitativamente differenti tra individui e gruppi diversi.

Su un piano più generale potremmo concludere che la dimostrazione a) di come la precisione di comunicazione di un medesimo nome dipende dal contesto d’uso e b) di come variabili linguistiche influenzino le prestazioni in compiti di riconoscimento, è ancora una volta una conseguenza del fatto che il linguaggio è il prodotto di una comunità umana che vive in un certo ambiente. Solo in questo quadro ha senso parlare di influenza del linguaggio su processi cognitivi individuali: non si tratta, infatti, di un’interazione con meccanismi a base biologica, come ad esempio i processi percettivi, bensì con prestazioni più vincolate culturalmente, quali i processi di riconoscimento [Legrenzi 1983: 342].

Pertanto, le citate ricerche empiriche di Hull, Smoke e Bruner non sarebbero riuscite a dar conto del funzionamento delle categorie nella vita quotidiana. Esso è molto più complesso e coinvolge strumenti più raffinati dei semplici meccanismi fisiologici di percezione individuati dalla Gestalt o dei processi strategici logico-argomentativi del primo Bruner. Essi vanno ricercati in complessi intrecci di sfumature, somiglianze e analogie; ad esempio in quelle che Wittgenstein [1953] chiamò “somiglianze di famiglia” per sottolineare come determinate caratteristiche concettuali sfumino come quando ci si sposta tra individui lungo gli assi del loro “albero genealogico”.

Eleanor Rosch [1973], sviluppò e confermò empiricamente quest’intuizione riprendendo, per poi problematizzarli, i due principi di categorizzazione comuni al paradigma cognitivista:

- il primo, quello di economia cognitiva, afferma che il compito dei sistemi categoriali sarebbe di fornire la massima informazione con il minor sforzo cognitivo possibile;

- il secondo, di origine gestaltista, assume invece che il mondo percepito ci arriva come un’insieme di informazioni strutturate piuttosto che di attributi arbitrari e imprevedibili.

L’autrice condivide inoltre la natura pragmatica dei processi di categorizzazione e sottolinea come il sistema di categorie esistenti nella società influenzi la nostra definizione degli attributi di una classe. Secondo lei però, i sistemi categoriali hanno una dimensione verticale e una orizzontale, come abbiamo visto nel caso delle strutture pre-assertorie marradiane (cfr. par.1.7). Quella verticale riguarda il livello di inclusività di una categoria; quella orizzontale riguarda la segmentazione delle categorie al medesimo grado di inclusività.

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I due principi di base della categorizzazione, una spinta verso l’economia cognitiva combinata alla strutturazione del mondo percepito, hanno implicazioni sia in merito al livello di astrazione delle categorie formate da una cultura sia alla struttura interna di queste categorie una volta formate [Rosch 1978: 4, tda].

Le implicazioni dei due principi di categorizzazione per la dimensione verticale è che non tutti i livelli possibili sono ugualmente utili; piuttosto, il livello base della categorizzazione sarà il livello più inclusivo (astratto) al quale le categorie riescono a rispecchiare la struttura di attributi percepiti nel mondo. Riguardo alla dimensione orizzontale, i due principi implicano che, al fine di aumentare il potere discriminante e la flessibilità delle categorie, esse tendono a essere definite in termini di prototipi8 o di esempi prototipici che presentino gli attributi più rappresentativi degli oggetti in esse inclusi e non presentino quelli degli oggetti da esse esclusi. Rosch notò come il trattamento di elementi centrali rispetto a quelli periferici migliori sensibilmente la prestazione, ovvero, di come banalmente la classificazione di un esemplare sia molto più agevole qualora esso sia altamente rappresentativo della categoria9. Allo stesso modo vide come un concetto sia appreso meglio qualora ne vengano presentati esemplari tipici. Queste ricerche, secondo Marradi [2001], si proposero e riuscirono a criticare la dottrina classica della categorizzazione mostrando come il criterio di mutua esclusività sia spesso disatteso nella vita quotidiana, dove vengono più spesso formulate classi dai confini vaghi e permeabili, nelle quali diversi referenti godono – come per i colori in Brown e Lenneberg – di maggiore o minore centralità.

Robin Lakoff [1973] ha affrontato le medesime problematiche dal punto di vista del linguaggio. Anche lui sostiene che, a differenza della visione che caratterizzò la prima generazione di cognitivisti, la concettualizzazione è un processo sfumato e complesso; aggiunge che esistono però strumenti linguistici che ci permettono di trattare concetti e categorie che, non sono solo dotati di gradualità interna, ma anche di contorni sfumati e imprecisi10.

Ma a un’imprecisione nelle definizione dei termini, non corrisponde per forza un concetto dall’intensione confusa. Può anche darsi infatti che di certi concetti si abbia un’idea molto chiara, specificabile in poche componenti, seppure si manifestino serie difficoltà nel destinare o meno un referente alla classe corrispondente. Legrenzi [1983: 359] segnala come tale difficoltà possa derivare da molteplici fattori come «il condividere solo parzialmente le caratteristiche indicate dalle

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Ricordiamo infatti come, secondo la dottrina dell’universale primo di Lotze (cfr. par. 2.1), risulti impossibile richiamare alla mente ad esempio i concetti puri di colore o di suono (universali primi), in quanto di per sé privi di referenti. Pertanto, il termine ‘colore’ o ‘suono’ rievocheranno un singolo colore o suono (o una serie degli stessi), cioè gli universali secondi.

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Ciò a seguito di un esperimento [Rosch 1973] nel quale chiese ai soggetti di ordinare una serie di referenti in base alla loro maggiore o minore tipicità rispetto a un dato concetto – ad esempio pettirosso, gallina e pinguino in riferimento al concetto di uccello.

10 Legrenzi [1983] cita l’esempio degli “aggettivi modificatori”. Lakoff osservò che, quando usiamo espressioni come

“piccolo uomo”, significa che nella nostra testa abbiamo già un’idea approssimativa sia della statura media degli uomini sia del suo possibile campo di variazione; custodiamo una sorta di curva gaussiana di tale proprietà nella nostra memoria semantica. L’aggettivo ‘piccolo’ o ‘grande’, che Lakoff chiama ‘modificatore’, ci informa su quale lato della curva considerare.

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componenti […] o anche, semplicemente, nel non avere a disposizione sufficienti informazioni sull’oggetto di cui è in questione l’appartenenza al concetto. Bisogna dunque distinguere tra i processi psicologici che determinano una certa competenza, quella per cui sappiamo cosa sia – ad esempio – una sedia, e i meccanismi decisionali che ci permettono di stabilire quali siano gli oggetti designati da questo termine del lessico». Ci possono pertanto essere, come abbiamo visto nel paragrafo 1.7, vari criteri attraverso i quali è possibile compiere una classificazione; ciò che invece risulta universale, a detta di molti psicologi e linguisti, è la natura gerarchica dei legami tra concetti.

Sempre a partire dal linguaggio, contributo fondamentale al superamento del comportamentismo è stato offerto da Naom Avram Chomsky [1957], attraverso il suo concetto di competenza linguistica che, in linea con la visione di Polanyi e Marradi (cfr. par. 2.2.2), denota un intricato insieme di regole, processi, informazioni, che è considerato parte essenziale della nostra mente, ma del quale al contempo non siamo affatto coscienti. Già Neisser [1967: 206] si domandava se fosse davvero plausibile «supporre che l’intero apparato grammaticale, soltanto oggi scoperto un po’ alla volta dai linguisti, venga acquisito da bambini di età inferiore ai tre anni senza sforzi e soltanto grazie all’esperienza passata». Così la Gestalt affermò che le strutture organizzative della percezione sono innate; motivo per il quale fu trasversalmente osteggiata. Tempo dopo Chomsky ha corroborato l’ipotesi: il linguaggio si apprende ma le strutture organizzative del campo sono innate.

Come in questa sede, capita spesso pertanto di trovare il nome del linguista americano tra quelli dei cognitivisti; lo psicologo Dario Romano [1978: 51] afferma infatti che «la procedura da lui seguita nello studio delle lingue naturali possa costituire un contributo per conferire maggiore concretezza e operatività a un tema centrale della nostra tradizione disciplinare: quello della coscienza, della mente o come altrimenti lo si voglia chiamare».

Le leggi dell’organizzazione percettiva, oltre a essere trasversali alle modalità sensoriali, varrebbero pertanto anche nel linguaggio. Così, secondo Chomsky, la meta della linguistica è analoga a quella della psicologia: descrivere le regole con le quali, a partire dalle parole di una data lingua, si costruiscono frasi corrette; ovvero i meccanismi mentali (le “intuizioni del parlante”) che permettono al’individuo di formulare frasi e di capirle11

. Questa scoperta ha permesso così a Chomsky di dimostrare – non sperimentalmente, ma attraverso il metodo fenomenologico – il principale assunto della linguistica di von Humboldt (cfr. parr. 2.1.1 e 2.2.1), ovvero che l’unità fondamentale del linguaggio è la frase (non la parola o il morfema). Egli elaborò così una serie di modelli linguistici basati sulla frase. A questo assunto non sono mancate comunque anche evidenze sperimentali, come ad esempio i lavori di Fodor e Bever [1965], che evidenziarono la corrispondenza tra unità sintattiche e percettive. Tuttavia la visione fortemente strutturalista di Chomsky lo spinse a ricercare a lungo una forma esaustiva di “grammatica trasformativa”, un sistema di regole sintattiche che permettesse di

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Egli ha inoltre indicato un modo per studiare la mente così concepita, simile a quello proposto dai cognitivisti (cfr. par. 3.1.1): costruire un modello esplicito, dettagliato e coerente degli aspetti della mente che si vogliono studiare, il quale avrà in genere relazioni piuttosto indirette con le manifestazioni esterne che pure costituiscono il controllo empirico del modello.

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formulare tutte le frasi possibili di un linguaggio naturale a partire dalla competenza linguistica universale.

Illustrando i risultati di una ricerca che mostra la grande varietà inter-individuale nell’intensione dei concetti, Marradi [2001] ha toccato tuttavia un nervo scoperto del paradigma cognitivista. Egli riconosce l’importanza dei risultati ottenuti ma osserva come, nemmeno la seconda generazione di cognitivisti abbia sottolineato a sufficienza la soggettività dei rapporti di somiglianza istituiti attraverso la concettualizzazione e la denominazione. Invece, conclude, «non c’è nulla nelle cose che ci indichi come devono essere concettualizzate e come devono essere nominate» [ivi: 118].

Il cognitivismo pare così restare in molti casi troppo legato alle sue esigenze iniziali:

- rivendicare, in opposizione al comportamentismo, la possibilità di studiare scientificamente i processi cognitivi;

- ridimensionare, a differenza della psicanalisi, il ruolo delle pulsioni emotive nel pensiero.

Questa fiducia nella possibilità di esplicitare i processi cognitivi considerando la soggettività come uno tra tanti fattori intervenienti appare molto chiara in tutta l’opera dello stesso Bruner. Ad esempio, nella descrizione di una nota ricerca condotta con Goodnow e Austin [1956], l’autore elenca e illustra le “condizioni che influenzano il processo di conseguimento di un concetto”, ovvero: la definizione del compito, la natura dei casi incontrati, la natura della convalida, l’anticipazione delle conseguenze del categorizzare e la natura delle restrizioni imposte. Questa tendenza riemergerà peraltro in seguito, quando illustrerò i presupposti epistemologici della tecnica di conceptual mapping elaborata dal cognitivista Joseph Novak [1984].