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proprio libro, spedito ai lettori dalla

Gallia togata, e intitolato ad librum suum.

Epigramma III 4, anch’esso rivolto al

proprio libro e intitolato ad eundem.

Epigramma III 4, anch’esso

rivolto al proprio libro, spedito ai

lettori dalla Gallia togata, e intitolato ad eundem. La titolazione di γ è incoerente, perché i due componimenti rivolti al libro non sono consecutivi.

Per Lindsay ci sarebbero altri dati che devono farci escludere spiegazioni alternative (come ad esempio una rimozione, in β, di III 3 per un intervento dell’editore Gennadio): la coincidenza, in αγ, nel titolo di III 3 che data l’articolazione non può essere attribuita al caso135, e la compresenza, nel titolo stesso e nei vv. 1-2, della grafia formonsus in T e nel manoscritto E, che della terza famiglia risulta essere il più fedele all’antigrafo136.

Prova ulteriore sarebbe l’epigramma IX 73, su un umile ciabattino che, partito dalla più miserabile delle condizioni, è riuscito a trasformarsi in ricco proprietario terriero137. I primi versi recitano:

dentibus antiquas solitus producere pelles et mordere luto putre vetusque solum, Praenestina tenes defuncti rura patroni

in quibus indignor si tibi cella fuit.

3 defuncti rura αγ : decepti regna β

135 I lemmi non ricalcano infatti la tipica, essenziale struttura con ad o de e l’accusativo del nome del protagonista, ma

riportano ad eam quae faciem formonsam habuit T2 (faciem monsam T1) e ad eam quae faciem formosam (formonsam E) habet γ. Vd. Fusi 2013a, 87.

136 Vd. Lindsay 1903a, 60 e Fusi 2013a, 88.

137 La sua vicenda diventa per Marziale un pretesto per rammaricarsi del fatto che i suoi stulti parentes, invece, abbiano

148

La lezione di αγ è stata accolta da Lindsay e Gilbert, mentre il testo di β, «senz’altro superiore» per Fusi138, è stato preferito da Heraeus, Izaac, Giarratano e Henriksén139; Schneidewin, Friedländer e Shackleton Bailey optano per la contaminazione tra le due varianti defuncti regna. La lezione della seconda famiglia risulta di gran lunga più espressiva: regna «appare senz’altro più adeguato dello scialbo rura a esprimere l’idea di lusso della tenuta del sutor»140, e il participio decepti contribuisce a gettare una luce sinistra sui mezzi sfruttati dal ciabattino per arricchirsi141. Il ramo β riporta una lezione senz’altro superiore rispetto alla variante concorrente, e l’applicazione del criterio dell’utrum in alterum ci lascia immaginare senza troppi dubbi una corruzione del testo di β in quello di αγ. Ma come spiegare la genesi della lezione presentata da prima e terza famiglia, di gran lunga meno efficace? Certo non si può escludere l’intrusione di una glossa, specie per regna-rura; ma il meccanismo è un po’ meno ovvio per la coppia decepti-defuncti, e purtroppo non sussistono paralleli che supportino l’ipotesi. Un’alternativa possibile all’intrusione concomitante delle due glosse – che, lo si ribadisce, non è inverosimile – è che quella riportata da γ fosse una versione banalizzata, e stilisticamente meno curata, dell’epigramma142. In ogni caso, la poligenesi indipendente delle varianti in αγ, forse non del tutto improbabile se ci limitassimo al solo rura, non è ipotesi credibile: anche per questo caso, una delle poche spiegazioni possibili è che sussista contaminazione tra le due famiglie143.

138 2011a, 125.

139 Nel suo ricco commento ad l. lo studioso si schiera nettamente a favore del testo riportato dal ramo β (2012, 301-302). 140 Ibid.: per l’uso in Marziale del termine regna in riferimento a possedimenti terrieri cf. XII 31, 8 (has Marcella domos

parvaque regna dedit) e 57, 19 (Petilianis delicatus in regnis) ma vd. anche Verg. Ecl. I 69 (post aliquot mea regna videns mirabor aristas?).

141 «Crimen tecte notat» (Heraeus 19762, XLI), su cui si veda il commento di Shackleton Bailey: «meaning, I suppose,

that the freedman had put his patronus out of the way. That reads in too much. Better to think of Cic. Fam. 5.16.4 hoc

tamen non dubitans confirmare possum, ea misceri, parari, impendere rei publicae quae qui reliquerit nullo modo mihi quidem deceptus esse videatur, thus annotated: “‘Cheated’ of his due, i.e. his expectation of life» (1989, 141). Tale uso

di decipio non è raro nei Carmina Latina Epigraphica di tipo funerario (si veda ad es. CLE 649, 5: praeclarus studiis,

primis deceptus in annis, ma paralleli ulteriori sono in Henriksén 2012, 302, n. 5), ma secondo il più recente commento

di Henriksén «there is certainly also a mention of ‘fooled’, since the shoemaker has not used his inheritance in a way that his patron could possibly have intended» (2012, 302). In ogni caso, è palese la banalità della lezione defuncti, che si limita a constatare un dato di fatto, ovvero la morte del precedente padrone (vd. Fusi 2011a, 126).

142 Per casi simili vd. infra, 198-201.

143 Certo non si può escludere la presenza di un sub-archetipo in comune; ma è piuttosto chiaro che «l’ipotesi di

contaminazione tra le due famiglie, entrambe originarie della Francia, meriti qualche considerazione in più dell’altra, anche perché tra le due famiglie sono ben più numerosi i Trennfehler, gli errores separativi» (Fusi 2011a, 128). La direzione della contaminazione, per quanto lo studioso non specifichi per questo caso la sua posizione in merito, è verosimilmente da ritenersi – come per gli altri esempi discussi – dalla prima alla terza famiglia. Sia nel caso in cui

defuncti rura si spieghi come il risultato dell’intrusione di glosse esplicative, sia nel caso in cui si ammetta la presenza di

una differente versione del testo del componimento, andrà posta in rilievo l’inferiorità del testo riportato da α (poi confluito in γ).

149 3.2 Le moderne edizioni degli Epigrammi

L’edizione di Marziale del 1842, curata da Schneidewin, fu la prima ad esser fondata su moderni criteri filologici144: nonostante le peculiarità della tradizione degli Epigrammi, Schneidewin si servì del termine “archetipo” per definire i rispettivi capostipiti delle tre famiglie; attribuì scarsissima importanza alle lezioni dei recentiores pur riconoscendo l’importanza di testimoni come

PQF, umanistici e interpolati; tracciò uno stemma del Liber Spectaculorum145. Nei lunghi e

dettagliatissimi Prolegomena, l’editore diede conto dell’accurato lavoro svolto su un centinaio di manoscritti e più di 70 edizioni. Come si è già visto, Schneidewin fu il primo a capire che i manoscritti che riportano l’opera di Marziale si possono ripartire in tre famiglie indipendenti, e per quanto avesse scarsissima conoscenza della famiglia β (basti pensare che non gli era noto il Lucensis), ne riconobbe il valore rispetto alla terza, il cui archetipo doveva già essere ampiamente interpolato. Ovviamente l’immane lavoro di Schneidewin aveva anche parecchi punti deboli: l’editore non disponeva di collazioni di P fino al libro IV, mentre di Q conosceva soltanto qualche lezione isolata; non si era reso conto che F fa più parte della terza famiglia che della seconda; tenne pochissimo conto di E, che è il testimone migliore e più antico della terza famiglia146. Se il conspectus siglorum dell’edizione arriva a presentare sessanta testimoni, collazioni imprecise della maggior parte di essi impedirono a Schneidewin di riconoscerne il singolo valore e dunque di determinare la lezione genuina.

Con eccezionale modernità, comunque, Schneidewin riconobbe che «quaedam varietates scripturae vetustissimae esse videntur et, si non a poeta ipso profectae, certe iam ipsius aetate subortae»147; il riferimento era in particolare al libro X – che, come si sa per certo, Marziale pubblicò

144 Le edizioni di Marziale dei secoli precedenti sono passate in rassegna dallo stesso Schneidewin nei Prolegomena (XI-

LIII); vd. anche Izaac (19612, XXXIII-XXXVII) e Citroni (1975, XXXIX, n. 3). Sono tre gli incunaboli, tutti risalenti

agli anni ’70 del XV secolo, si contendono il titolo di editio princeps: la veneta curata da Giorgio Merula, prima edizione a stampa di Marziale secondo il catalogo Flodr che la data al 1469-73, ma terza, in quanto stampata nel 1472, secondo l’IGI; l’edizione anonima uscita a Ferrara (per i tipi di André Belfort), che riporta la data del 2 luglio 1471; l’edizione romana, anonima, che risulta princeps secondo l’IGI (viene datata al 1470); sulla questione vd. Carratello 1973 e più recentemente Canobbio 2011a, 46. Sicuramente posteriore alle tre edizioni menzionate è la romana curata da Perotti – ma uscita anonima – che reca la data del 30 aprile 1473 (su questa edizione vd. Della Corte 1986, 97-107); si tenga presente che fu in aspra polemica con Perotti l’autore del primo commento organico agli Epigrammi, Domizio Calderini (i suoi

Commentarii furono pubblicati a Roma il 22 marzo del 1474); per un vivace – ma molto beve – riepilogo della polemica

tra i due vd. Dalla Corte (1986, Premessa). La prima Aldina di Marziale è del 1501; una seconda, migliore della prima secondo il giudizio di Schneidewin (1842, XXXVII), uscì nel 1517. Per la descrizione delle prime edizioni a stampa degli

Epigrammi vd. Fusi (2006, 93-94) e Vellardi (2014, 18-22). Tra XVI e XVII secolo, miglioramenti importanti al testo

furono apportati dalle edizioni di Gruter (1596; 1602), Ramirez de Prado (1607) e soprattutto Scriverius (1619), che per Fusi «rappresenta il livello più alto toccato dagli editori prescientifici di Marziale» (2006, 94). Si segnala infine che i numerosi interventi sul testo dovuti a Niklaas Heinsius sono raccolti in un esemplare dell’edizione S. Gryphius (1553), conservato a Leida.

145 Schneidewin 1842, CXXXI. Sull’uso della terminologia lachmanniana in Schneidewin cf. Citroni 1975, XXXIX, n.

1; sulla validità del metodo vd. Timpanaro 20033, 55.

146 Sui limiti dell’edizione Schneidewin vd. Lindsay 1901, 353-354. 147 Schneidewin 1842, VII.

150

due volte – ma è bene mettere in rilievo il primato dell’intuizione di Schneidewin nella formulazione della teoria delle varianti d’autore in Marziale, la cui paternità si attribuisce normalmente a Lindsay. L’edizione di Friedländer del 1886 presenta un apparato critico «stranamente saltuario»148, ma sappiamo che le collazioni su cui si basò erano più ampie e rigorose; nell’introduzione, poi, Friedländer incluse il prezioso studio sulla cronologia dei singoli libri di epigrammi (nel quale riassunse e corresse gli studi precedenti di Stobbe e Mommsen); affermò e più decisamente dimostrò che i tre capostipiti delle tre famiglie derivano da tre edizioni antiche, ma compiendo un passo indietro rispetto al suo predecessore «sembrò invece lasciar cadere quasi completamente (I, 92s.) l’ipotesi, cautamente avanzata da Schneidewin, che in qualche caso le varianti possono risalire all’autore stesso»149. È del 1886 anche la teubneriana di Gilbert150, che pur migliorando notevolmente il livello della constitutio textus, giovò poco allo studio sui testimoni di Marziale e sui loro reciproci rapporti151.

Nel 1903 uscì, finalmente, l’edizione che non ha mai smesso di essere il punto di riferimento negli studi sul testo di Marziale: quella di Wallace M. Lindsay152. L’opera uscì contemporaneamente all’importante studio preliminare The ancient editions of Martial, che includeva in appendice un’accurata collazione dei manoscritti LE. Senza dubbio il merito fondamentale di entrambi i lavori di Lindsay è una conoscenza più approfondita della seconda famiglia di manoscritti: Lindsay non si limitò a collazionare il codice L ma gli attribuì anche il titolo di codex optimus153; collazionò Q e restituì credito a un importante testimone della famiglia, ƒ, a torto sottovalutato dagli editori precedenti154; indagò e ricostruì con una certa chiarezza i rapporti sussistenti tra i codici della terza famiglia. Lindsay fu peraltro il primo a segnalare chiaramente in apparato che le lezioni che si tentava di ristabilire erano quelle dei tre subarchetipi (segnalati, in modo un po’ scomodo, con le sigle AABACA, poi sostituite, per la prima volta negli apparati di Duff ed Heraeus, dai più immediati αβγ)155.Sul problema della variantistica d’autore in Marziale, la posizione di Lindsay è chiara: il

148 Citroni 1975, XLI. Vd. anche Lindsay 1901, 354: «Friedlaender, in accordance with the plan of his edition, has supplied

an apparatus criticus only for a selected number of passages; and Gilbert’s small Teubner edition is no more generous».

149 Citroni 1975, XLI.

150 Nel 1896 uscì una seconda edizione, lievemente modificata.

151 «Per quanto riguarda la tradizione manoscritta sembra che il Gilbert non abbia fatto altro che utilizzare il materiale di

Schneidewin (salvo che per Q e F, di cui ebbe a disposizione le collazioni che il Friedländer si era procurato per la sua edizione). Del resto l’apparato è troppo succinto e sommario, e risulta di scarsa utilità» (Citroni 1975, XLI).

152 A vent’anni dalla pubblicazione, Housman scriveva: «students of Martial now live in an age which has begun by

professor Lindsay’s edition of 1903, one of those works which are such boons to mankind that their shortcomings must be forgiven them. All that energy could do in the investigation or skill and industry in the collation of MSS was done, and the fruits of this labour were condensed in an apparatus criticus of the most admirable lucidity» (1925, 199 = 1972, 1099).

153 Vd. Lindsay 1901.

154 «Con questi tre nuovi testimoni il testo della II famiglia, prima noto quasi esclusivamente da P, poteva finalmente

essere costituito con relativa sicurezza: un vantaggio decisivo, per il testo di M.» (Citroni 1975, XLII).

155 Anche se, come nota Citroni, «l’apparato acquista una chiarezza e una agilità che sono state giustamente apprezzate,

ma anziché registrare lo stato effettivo della tradizione manoscritta, offre la ricostruzione del testo delle tre “edizioni antiche”, condotta su un fondamento che il lettore non è in grado, caso per caso, di valutare. Lindsay registra le lezioni dei singoli codici solo nei casi in cui egli giudica incerta la ricostruzione del capostipite della famiglia (…) Questo

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filologo era assolutamente persuaso che nel testo abbondassero lectiones alternative che potevano risalire alla mano stessa del poeta, e non mancò di fornirne, nel saggio collaterale sulle antiche edizioni del testo di Marziale (1903b), un elenco «amplissimo, certo esagerato»156.

Gli editori successivi (Giarratano 1919-21, Izaac 19612 e soprattutto il più recente, Shackleton Bailey 1990) hanno manifestato scarsissima attenzione per la recensio157; fa parzialmente eccezione Heraeus, la cui teubneriana (1925) in molti casi corregge errori e omissioni di Lindsay, rigettandone anche alcune congetture in favore delle lezioni tràdite158. Sulla questione delle varianti d’autore, tuttavia, lo studioso si mostrò molto più scettico – «troppo», secondo Pasquali – del suo illustre predecessore.

La questione della variantistica d’autore viene invece affrontata piuttosto di petto da Giarratano, che già nelle prime pagine della prefazione ammette: «fieri potuit ut editio illa, quae post Martialis mortem vulgata est sive inter versus sive in marginibus varias ipsius poetae lectiones referret et ex iis quae potissime visae essent editores, qui postea secuti sunt, eligerent»159. Un tratto piuttosto curioso della ricostruzione di Giarratano è che nelle pagine della praefatio viene data per scontata l’esistenza di un’edizione dei libri I-VII, curata da Marziale in persona tra 93 e 94, e di un’altra che comprendeva i libri VIII-XI, fatta uscire poco dopo il rientro in patria; una terza edizione degli Epigrammi sarebbe secondo Giarratano uscita poco dopo la morte del poeta. In realtà non ci sono dati per pronunciarsi con certezza su nessuna di queste ipotetiche

apparato sintetico, con la sua chiarezza, nasconde in realtà al lettore – ed ha nascosto agli editori successivi, con qualche eccezione per Heraeus – molte delle discordanze tra i testimoni delle singole famiglie; e risulta anche nascosto il fatto che probabilmente anche il Lindsay non doveva avere una conoscenza veramente completa e precisa di tutti i codici su cui si fonda la sua ricostruzione del testo delle tre famiglie» (1975, XLIV). Il filologo britannico dichiarò chiaramente le sue intenzioni già in preparazione all’edizione: «the first require therefore for an apparatus criticus of Martial is the presentation of the readings of each of these three rival versions, wherever they differ from each other» (1901, 353). L’impostazione che Lindsay diede all’apparato è rimasta la stessa nelle edizioni critiche successive (Heraeus, Giarratano, Izaac e Shackleton Bailey), ma è stata recentemente messa in discussione dalla lodevole tendenza dei commentatori delle singole raccolte –così, almeno, Citroni 1975, Coleman 2006, Fusi 2006 e Canobbio 2011 – a ricollazionare i singoli codici e a dar conto in apparato di tutte le varianti presentate dai testimoni. Non sono mancate le polemiche in merito; si veda la posizione di Shackleton Bailey, che nella sua prefazione al testo bollò come superfluo il lavoro svolto da Citroni sui codici del liber I: «in primi libri editione (1975) M. Citroni singulorum ex βγ familiis codicum discrepantias accuratius protulit; qua diligentia hoc tamen profectum est, ut posteriores ne litus ararent moneri possent» (1990, XI); a tali parole sarà sufficiente far seguire le osservazioni di Parroni (ap. Fusi 2006, 10): «ciò che soprattutto irrita è l’indifferenza e il disprezzo per i dati materiali, che porta a fenomeni di ‘persistenza dell’errore’. P. es. Citroni aveva segnalato che il cod.

A della terza famiglia è il Leid. Voss. Lat. O 56 e non Q 56 e che il recenziore C è il Leid. Voss. Q 89 e non F 89, eppure

tali errori non sono scomparsi né nella teubneriana di Shackleton Bailey né nei successivi commenti». Sulla necessità di ricollazionare i testimoni degli Epigrammi vd. anche Fusi 2011a, 123-124.

156 Citroni 1975, XLII; l’eccessivo entusiasmo di Lindsay fu ben messo in luce già da Pasquali, che ricordava con prudenza

che la variantistica d’autore deve in ogni caso costituire l’extrema ratio della critica testuale (19522, 419).

157 Quasi tutti seguono per lo più l’apparato di Lindsay, talvolta quello di Heraeus. Per l’edizione Izaac si vedano le non

troppo benevole recensioni di Housman (1931a, 81-3 = 1972, 1172-1174; 1934, 187-189 = 1972, 1239-1240) cui fa da contraltare quella fin troppo bonaria di Spaeth (1932b, 278-280).

158 A suo tempo, Housman ritenne Heraeus «probably better qualified for editing Martial than anyone else in the world»

(1925, 199 = 1972, 1099). Citroni, comunque, ha osservato: «Heraeus ha portato al testo di M. importanti contributi, dovuti specialmente alla sua grande esperienza linguistica ed in particolare alla sua invidiabile conoscenza del latino tardo e volgare, ma per quanto riguarda propriamente la tradizione manoscritta egli stesso dichiara apertamente di aver desunto quasi sempre le lezioni dall’ed. del Lindsay, salvo saltuarie verifiche su collazioni inedite che gli furono messe a disposizione dal Lindsay stesso, e che gli consentirono, ad ogni modo, di correggere alcuni errori delle edizioni precedenti» (1975, XLIII).

159 19512, VI. Giarratano spiega così, ad esempio, le varianti nei nomi propri, per quanto includa piuttosto frettolosamente

152

edizioni160: l’unica certezza, come si è visto supra, è il prototipo comune di edizione da cui l’intera tradizione avrebbe

ereditato l’ordine dei libri e la sola seconda versione del libro X.

Si è visto come il più recente editore degli Epigrammi, D.R. Shackleton Bailey, abbia dichiarato il proprio disinteresse per la recensio definendo la presunta inutilità dell’immane lavoro di collazione operato da Citroni per il suo commento al liber I161; la sua edizione si segnala in particolar modo per numerose scelte testuali in controtendenza rispetto a quelle dei predecessori. Per quanto riguarda la possibile presenza di varianti d’autore, il giudizio è inflessibile: «trium recensionum lectiones varias ad poetam non redire ex ipsarum natura certo certius est»162. Si vedrà infra come tale aprioristico rifiuto della possibilità, in sede di valutazione delle varianti, sia tanto pericoloso quanto lo è l’eccessiva indulgenza al criterio.

160 In particolare sulla raccolta che doveva comprendere i libri I-VII vd. Dau (1887, 76), la cui ipotesi ha incontrato il

favore di Immisch (1911) e Lehmann (1931); cf. supra, 76-77 e 86.

161 Come si è detto, l’esempio di Citroni è stato fortunatamente seguito da studiosi come Coleman (2006), Fusi (2006) e

Canobbio (2011a).

153

155

4. Una premessa metodologica

Quello di Lindsay fu praticamente l’unico tentativo di considerare nella loro globalità le numerose varianti “sospette” nella tradizione di Marziale1: la maggior parte degli studiosi si è limitata a toccare il problema affrontando singoli casi, e mostrando di preferire – la tendenza è sorprendentemente diffusa – spiegazioni non sempre economiche all’ammissione di residui interventi autoriali (o editoriali) nella tradizione2. Eppure va detto che nel caso di Marziale, considerati i dati a nostra disposizione sulle modalità di diffusione e di pubblicazione che caratterizzano, fin dalle origini, la formazione del suo corpus, sarebbe sorprendente non trovar traccia alcuna di varianti che ci attestino le fasi più remote di tali processi.

Definire la genesi di varianti che chiaramente non derivano da guasti meccanici è sempre problematico e potenzialmente rischioso: l’ipotesi di ritocchi consapevoli coinvolge immediatamente il concetto di volontà d’autore (o di editore), che con ogni evidenza è troppo labile per fornire una solida base alle ipotesi esplicative3. Come dimostrare con certezza assoluta le motivazioni che avrebbero condotto a una data modifica? Problematico interpretare la psicologia di chi intervenne sul testo, specie quando le varianti divergono non tanto per contenuto quanto dal punto di vista strettamente stilistico; è inoltre necessario, nella formulazione di ipotesi di questo tipo, essere in possesso di dati sicuri sulla storia del testo e sul modus operandi dell’autore o dell’editore. La mole del materiale moderno ci consente di ragionare sulle numerosissime varianti d’autore organizzandole