4.1 «Di pensieri, di lagrime e d’inchiostro» 11 : quel che ci insegnano i modern
4.1.2 Sistemi di varianti e dinamiche di composizione
La filologia d’autore, come si è accennato, ha tra i propri obiettivi la definizione di macro- sistemi coerenti in cui inserire – e mediante cui giustificare – le singole varianti d’autore attestate dagli autografi. Nelle prossime pagine ci si propone di esaminare i più noti esempi di “sistemi correttorii” ricostruiti dagli studiosi a partire dal lavoro – o meglio, dalla parte di lavoro che siamo in grado, autopticamente, di verificare – compiuto dagli autori sulle proprie opere.
I primi interessi della filologia d’autore intesa come critica delle varianti, si è visto, furono rivolti agli scritti di Ludovico Ariosto. Si è già avuto modo di notare che l’interesse di Debenedetti, tutto ariostesco, in qualche modo privava lo studioso del “distacco scientifico” che poco dopo sarebbe stato manifestato da Contini: nelle pagine del maestro c’è una rievocazione quasi commossa36 dei processi elaborativi del poeta, delle «rare esitazioni, subito vinte» di alcune strofe e dello «scrivere agitato» di altre, dello scorrere spontaneo e disinvolto dei versi «di un giorno d’insolita “facilità”»; si individuano, ma non si mettono mai a sistema, le correzioni fatte sulla scorta di letture, per dirlo con le parole di Contini, «immanenti alla coscienza» dell’autore37. Debenedetti – non era questo il suo
35 Molto da dire ci sarebbe sull’apporto che le tecnologie digitali sono in grado di fornire all’ormai affermata “critica degli
scartafacci”: la digitalizzazione dei materiali ha permesso l’archiviazione di tutto il materiale d’autore (manoscritto, dattiloscritto e a stampa), agevolando la consultazione e l’allestimento della stessa edizione critica. Le edizioni digitali, sempre più numerose e basate appunto sul censimento online dei dati offerti dai materiali d’autore, agevolano non poco l’analisi e l’interpretazione delle varianti, dato che a differenza di quelle cartacee «sfruttano link – interni o esterni all’edizione – e possono contare su una varietà più ampia di marcatori tipografici per segnalare le varie fasi redazionali; vd. almeno Italia-Tomasi 2015 per una panoramica sull’evoluzione e sugli obiettivi della disciplina. Varia ovviamente la tipologia dei metodi applicati, che sono legati di volta in volta alla fisionomia della pagina e al modus operandi dell’autore in questione. Inestimabili risorse in rete sono costituite dalle piattaforme di lavoro e di scambio delle informazioni (ad esempio la piattaforma WikiGadda, dal 2010 legata al portale Filologiadautore.it, che raccoglie i vari progetti dedicati all’opera dello scrittore, o WikiLeopardi, che accoglie attualmente l’edizione critica digitale dei Canti basata sul testo stabilito nel 2006 dal team di Gavazzeni; vd. Giuffrida-Italia-Pinotti 2016, 105-125.Conviene ricordare, a chiusura della sintetica storia della disciplina presentata, la posizione di recente assunta da Claudio Giunta in un articolo significativamente intitolato La filologia d’autore non andrebbe incoraggiata (2011, 104-118). Lo studioso si riferisce in particolare alla critica esercitata sui testi dei contemporanei, colpevole di risvegliare un certo numero di passioni dannose, come quella «feticistica per gli autografi, gli originali, i cimeli» che non hanno nessuna utilità se non contribuire a produrre edizioni tanto costose quanto ingombranti e scarsamente fruibili, o «quel genere di curiosità che confina col pettegolezzo» che sarebbe quella per gli scritti inediti e/o non pensati per la pubblicazione.
36 Che culmina nel «qui mi par di veder l’Ariosto che, interrotto il lavoro, va a rileggere le note iniziali della scena di cui
sta preparando le ultime battute» (20102, XXVI); uno slancio simile è in De Robertis, «Quasi mi par di vedere (o è
superbia): il Leopardi, ora, per un ultimo accordo, intona meglio quel verbo» (1946, 183).
37 Un esempio è l’intervento su Proteo (III 44) che, a seguito della modifica, dal mar levò la testa, atto che già Virgilio
aveva fatto compiere a Nettuno nell’Eneide (Aen. I 125-127: emissamque hiemem sensit Neptunus et imis / stagna refusa
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scopo – non organizzò le varianti in macro-gruppi coerenti e motivabili sulla base di processi unitari: l’unica categoria di modifiche analizzata nel suo complesso è quella delle correzioni grammaticali, la cui radice sta nell’influenza che dovettero avere sul poeta le Prose della volgar lingua di Bembo, uscite tra la seconda e la terza edizione del Furioso38.
È possibile rintracciare, nei rifacimenti del poema, sistemi di varianti plausibili? Gianfranco Contini, che prima del saggio del ’37 non aveva mai lavorato su Ariosto né se ne sarebbe più occupato in seguito, riuscì pienamente nell’intento: di seguito, alcuni esempi dei sistemi correttorii individuati dallo studioso, utili a definire in che modo sia possibile ricostruire, almeno in parte, le dinamiche di composizione proprie di un determinato autore.
In primo luogo, esaminando gli autografi del Furioso si desume abbastanza chiaramente che il poeta pensava i suoi episodi già in versi39, e dunque non faceva differenza tra un linguaggio riservato alla poesia e un linguaggio riservato alla
prosa: la funzione strettamente poetica viene riassorbita dai singoli termini quando questa è necessaria all’armonia dell’ottava, ma il più delle volte non è il lessico a essere oggetto di rielaborazione40.
Secondo punto: Ariosto procedeva, nel suo mettere a fuoco l’immagine poetica, per sottrazione – vera e propria “arte del levare” – circoscritta a tutti gli elementi che dovevano parergli inutilmente esornativi. In questo, il poeta assecondava la propria personale elaborazione dei modelli, oscillante tra l’ottava di Pulci e Boiardo, «narrativa, temporale, causale», e quella modificata in senso descrittivo di Poliziano, più ricca di elementi descrittivi e in qualche modo puramente decorativi. Ne consegue che «la maggior parte delle correzioni rappresenta un assorbimento “a spirale” centrale, lirico, dell’enunciato prima continuo, orizzontale»41.
Un’ulteriore osservazione di Contini riguarda l’aspetto metrico: egli rileva la tendenza del poeta a intervenire con lo scopo di “rassodare il verso” nella sua parte centrale, individuando in essa un tempo forte in più.42.
Si rivelò ugualmente fruttuoso il dialogo tra Contini e Giuseppe De Robertis sulle varianti leopardiane, nello specifico su quelle che possiamo riportate dall’autografo della canzone A Silvia. Il manoscritto in nostro possesso non rappresenta una prima stesura della canzone: esso rispecchia piuttosto il modo di comporre di Leopardi43, che normalmente lavorava su una copia del testo in
precedente del antro il capo trasse, fu ben presto liberata anche «dall’ingombrante ricordo virgiliano», e la pericope di testo fu mutata nel più semplice levò la testa.
38 Un esempio è il passaggio dalla proposizione in, in tutti i casi di incontro con un articolo determinativo (in l’altro, in
la terra), a ne. Vd. Debenedetti 20102, XXXI-XXXII.
39 «Con l’Alfieri, con il Leopardi, secondo la tradizione con Virgilio» (Contini 1939, 234-235); diversamente (è solo un
esempio) da Giuseppe Parini, che invece trascriveva ampi estratti in prosa prima di elaborarli in versi (cf. Isella 2009, 115-185).
40 Un esempio in XXXIV 27: su la carretta da lui prima ordita diviene, con ritocco minimo, su la quadriga da lui prima
ordita.
41 Vd. gli esempi in Contini 1939, 236-238.
42 Un caso esemplare è l’evoluzione di IX 31, 4: avendo inizialmente scritto Da quel crudel fu fatto ire all’occaso, il poeta
mutò successivamente in Fu da un tal colpo fatto ire all’occaso, poi in Un colpo tal lo fece ire all’occaso, e ancora in Lo
fece un simil colpo ire all’occaso, decidendosi infine per il definitivo Lo fe’ con simil colpo ire all’occaso (Contini 1939,
236).
43 Lo notarono già lo stesso De Robertis (1946, 178) e, per i testi in prosa, Besomi (1979, LXI-LXII); ma vd. soprattutto.
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pulito cui aggiungeva solo in un secondo momento varianti e correzioni. In effetti le numerose varianti registrate a margine lasciano supporre, proprio in virtù della loro posizione, l’esistenza di almeno un altro autografo, da cui il poeta le avrebbe copiate per tenerle a mente: non si tratta di correzioni immediate o di piccole rivoluzioni compiute sulla scia dell’ispirazione, quanto piuttosto di una “fotografia” dell’evoluzione – ormai quasi compiuta – del testo. Per quanto già le bellissime, ispirate pagine di De Robertis cogliessero molto del lavoro di Leopardi sui propri versi, spettò ancora una volta a Contini (1947) la definizione esatta degli spostamenti compensatori di termini e di significato, successivamente noti come “implicazioni” leopardiane. Le sostituzioni e le giustapposizioni – in alcuni e casi veri e propri accumuli – di varianti alternative, di cui De Robertis aveva, caso per caso44, esaltato il progressivo movimento verso la perfezione poetica, sono per Contini «spostamenti in un sistema, e perciò involgono una serie di spostamenti con gli altri elementi del sistema e con l’intera cultura linguistica del lettore»45.
Il filologo seppe distinguere ben tre tipologie differenti di “implicazioni”: modifiche che rinviano a un passo del medesimo componimento, modifiche che rimandano a passi del Leopardi stesso ma di poesie differenti, e infine modifiche che traggono la propria fonte da passi esterni alla produzione del poeta (letture recenti, loci cari alla sua formazione, e simili); «ma le implicazioni sono implicazioni anche perché i tipi s’intricano fra loro, e per esempio un compenso interno trova al di fuori riscontri similari»46.
Vediamone alcuni esempi, al fine di definire più concretamente come lo studio “per sistemi” possa essere proficuamente applicato agli scartafacci di Leopardi.
Già De Robertis si era soffermato a commentare la catena di interventi operati dal poeta all’inizio della terza strofa: gli
studi leggiadri erano stati in un primo momento gli studi miei dolci (con variante lunghi), mentre le sudate carte venivano
inizialmente definite dilette; il passaggio quasi brusco dal lasciando al d’in sui veroni […] porgea l’orecchio era stato ammorbidito dal poeta con l’aggiunta di due versi (ove il tempo mio primo/ e di me si spendea la miglior parte) che avevano, oltre a quello puramente metrico (aggiunta di una coppia simmetrica e di una rima baciata alla strofa), il fine di connotare in modo ancor più soggettivo gli evocati studi del poeta47. Contini andò oltre, trovando dei paralleli a tali
processi sostitutivi. Leopardi aveva scritto di studi dolci (corretto in noti) nel Primo amore (v. 76) e, di nuovo, di studi
men dolci (con variante lieti) nei versi Al conte Carlo Pepoli, (v. 138): entrambi i componimenti sono del 1826. Ma nella
lirica Risorgimento, scritta appena pochi giorni prima di A Silvia (aprile 1828), al v. 110 la variante dolci (inganni) vinse
44 Con pochissime, vaghe formulazioni di carattere generale; vd. ad esempio «al Leopardi capitò spesso di togliere, per
sfoltire (l’operazione più fruttuosa, sempre, del correggere); ma qualche volta anche d’aggiungere» (De Robertis 1946, 184); o le note sulle correzioni grammaticali, ivi, 188.
45 Contini 1947, 191 (=1970, 41). 46 Ivi, 192 (= 1970, 42).
47 Dell’aggiunta successiva dei due versi resta traccia in una serie di prove trascritte nel quarto foglio dell’autografo:
«quattro righe fitte, uguali, e dimostrano, al modo calmo della scrittura, d’esser state ricopiate da un altro foglio o da appunti sparsi» (De Robertis 1946, 184); cf. Peruzzi 1981, 423-433.
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l’originario leggiadri, che fu invece aggettivo prescelto per gli studi di A Silvia. A sua volta, la sostituzione di dilette in
sudate trova una spiegazione nella sudata virtude di A un vincitore del pallone (v. 4) e nei sudori estremi (variante
prescelta dal poeta contro le angosce estreme) del Sogno (v. 41)48.
Un buon esempio di “compenso a distanza” è l’inserimento del rimembri al v. 1, inizialmente sovvienti, corretto in
rammenti a uno stadio intermedio: l’espunzione di sovvienti al primo verso è direttamente collegata all’elaborazione del
v. 32, quando sovviemmi di cotanta speme; è chiaro che l’intento di Leopardi è «evitare la ripetizione, sia pure a qualche intervallo»49. Altro tipico caso di compenso a distanza è l’alternanza di varianti presentata rispettivamente ai versi 12 e
50: al v. 12 un iniziale dolce avvenir fu corretto in vago, e, parallelamente, al v. 50 la speranza mia vaga mutò in dolce. Ai pochi esempi tratti dal ricchissimo saggio continiano aggiungiamo due osservazioni più recenti, dovute a Paola Italia.
La Ricordanza fa parte della prima stesura – o “primo tempo” – degli Idilli, insieme all’Infinito e allo Spavento notturno50.
La versione originaria del testo, ai vv. 10-11 recitava O mia diletta Luna. E pur mi giova / La rimembranza, e ‘l noverar
l’etate; in un momento cronologicamente prossimo a tale prima fase, il poeta corresse rimembranza in ricordanza,
«introducendo una parola che diventerà strutturante per la macchina della memoria leopardiana, fino a venire recuperata, come noto, nei canti pisano-recanatesi, in forma quasi programmatica, ossia Le ricordanze»51. Ora, l’introduzione della
variante ricordanza innescò la modifica del titolo, originariamente La Luna, cui la stessa mano aggiunse, come alternativa,
o La Ricordanza52.
Passiamo a un altro autore, e conseguentemente a nuovi sistemi e a nuove dinamiche di composizione. Il “Codice degli abbozzi” (Vat. Lat. 3196) consente di seguire, sulla base di varianti, cancellature e correzioni, la genesi di molti componimenti del Petrarca volgare, nonché di avvicinarci allo scrittoio del poeta grazie alle numerose note personali trascritte a margine del testo53: esso
48 Scritte rispettivamente nel novembre del 1821 e tra la fine del 1820 e la prima metà del ‘21: ma «mai Leopardi prova
la minima repugnanza a un sudore letterale o metaforico, segno di proba fatica o della colluttazione suprema» (Contini 1947, 194 = 1970, 44); per le varianti di A un vincitore del pallone cf. Peruzzi 1981, 125-138; per Il sogno, cf.ivi, 293- 314.
49 Contini 1947, 195 (=1970, 44)
50 In un primo momento Leopardi scrisse La Luna, poi corretto in La Luna o La Ricordanza, l’Infinito e lo Spavento
notturno; il secondo tempo coincide con la sola stesura de La sera del giorno festivo e con la correzione dei primi tre
idilli, corredati di alcune varianti alternative. La terza fase del lavoro comportò l’aggiunta degli ultimi due testi, Il Sogno e La vita solitaria. Sui “tre tempi” della raccolta vd. Italia 2016b, 147-183; per un quadro delle correzioni nella stesura de La luna, cf. Peruzzi 1981, 287-292.
51 Italia 2016b, 189.
52 Altra implicazione leopardiana, che questa volta coinvolge verosimilmente le letture del poeta, è al v. 8, che in prima
stesura suonava Il tuo viso apparia, perché dolente/ era mia vita. Nel corso del “secondo tempo degli idilli” i tre componimenti già redatti dal poeta subirono una serie di correzioni, tra cui, in questo passo, la correzione di dolente in
travagliosa. L’aggettivo travaglioso, come rilevato da Italia, era poco comune, ma compariva – e di questo tenne
certamente conto Leopardi – in un passo cruciale dell’Orlando Furioso, immediatamente prima della dolorosa scoperta, da parte dell’eroe, del luogo in cui Angelica e Medoro avevano inciso ovunque, a memoria del loro amore, i loro nomi: «Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo / e v’hebbe travaglioso albergo e crudo» (XXIII 101, 6). Possiamo considerare senz’altro la variante frutto della memoria poetica di Leopardi, soprattutto in considerazione del fatto che, come rileva Italia, il termine travaglioso figura anche nella traduzione dell’Eneide di Caro (II 486-488): «cerca loro altre terre, ergi altre mura;/ ché dopo lungo e travaglioso esilio/ l’ergerai più di Troia altere e grandi». Si noti che per Contini (1947, 201 = 1970, 50), in A Silvia, il percorrea la faticosa tela (v. 22) risente senz’altro del virgiliano arguto tenuis percurrens
pectine telas (Aen. VII 14), e che a tale osservazione Mariotti (1985, 106 = 2000, 558) aggiunse la segnalazione di Georg.
I 293s., interea longum cantu solata laborem/ arguto coniunx percurrit pectine telas (il soggetto è la moglie dell’agricoltore) probabilmente anch’esso presente a Leopardi.
53 Si tratta normalmente della data e dell’orario in cui le poesie venivano trascritte, qualche volta di segnalazioni di
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contiene 57 poesie (o parti di esse) poi assorbite dal Canzoniere e 12 che invece ne furono escluse, due capitoli dei Trionfi (uno non integrale), quattro poesie scritte da altri autori e indirizzate a Petrarca, un frammento di epistola (Fam. XVI 6). Il manoscritto, si è già visto, suscitò l’interesse di parecchi studiosi54: merita di essere ricordato il lavoro di Federico Ubaldini, che pubblicò nel 1642 Le Rime
di Messer Francesco Petrarca estratte da un suo originale55. Nella prefazione Al cortesissimo lettore, lo studioso chiarì l’intento dell’edizione – «solo si è copiato diligentemente l’Originale»56 – e diede conto dei criteri editoriali seguiti al fine di riprodurre graficamente l’aspetto stesso del codice: il tondo per riprodurre «quello che l’autore lasciò per all’ora senza cassare» e il corsivo per rendere «o quelle cotali composizioni che non sono sue, come avviene ne’ due primi Sonetti, e se elle sono, quelle che sono da lui medesimo cassate»; in «corsivo picciolo» le varianti alternative o gli accumuli di potenziali modifiche registrate dal poeta tra una riga e l’altra. L’attenzione alla riproduzione dell’autografo e dunque per i processi elaborativi del poeta era dichiarato con orgoglio da Ubaldini, persino difeso dalle eventuali obiezioni: «laonde non è da ascoltare coloro, che mi sgridano, ch’io habbia pubblicando quest’Originale, estratto dalla madre un embrione con vestigi mal conosciuti d’umanità, e che in cambio di giovare io cerchi di nuocere alla fama del Petrarca, mostrando alla luce quello, che egli stesso avea condennato alle tenebre»57.
Dopo tre secoli di silenzio, l’interesse per il “Codice degli abbozzi” si riaccese con la nascita della filologia d’autore: le varianti annotate da Petrarca furono studiate anche in questo caso da Gianfranco Contini, cui si deve il primo tentativo di metterne in luce le dinamiche d’insieme, di
spesso di espressioni di soddisfazione (frequentissima è hoc placet, ma vd. Segre 2008, 134). Si noti la diversità dei fogli autografi di Ariosto, in cui figurano «soltanto, qua e là, lettere ordinatrici, lineette accanto ai versi che domandano nuove cure, richiami e rimandi. Tutto quello che il poeta dice a sé stesso, in tanto scrivere, è un appunto di tre parole: lascia una
stanza. Nient’altro. Sono pagine silenziose, di puro lavoro» (Debenedetti 20102, XXII). In ogni caso, il Vat. Lat. 3196
costituisce una preziosità per gli studi petrarcheschi, poiché non era usanza del poeta conservare i suoi abbozzi; sappiamo dalle sue stesse parole che la maggior parte delle prove poetiche veniva data alle fiamme eccetto poca parte, preservata «non illorum dignitati sed meo labori consulens» (Fam. I 4); per alcune considerazioni sull’autografia in relazione all’opera di Petrarca cf. Bologna 1986, 289-335. Per una descrizione del manoscritto Vat. Lat. 3196 vd. Vattasso 1908, 11-15.
54 Sono già stati ricordati (vd. supra) gli studi in merito di Pietro Bembo, che si era procurato, oltre al “Codice degli
abbozzi”, anche il Vaticano Latino 3195, che ne è fondamentalmente la copia in pulito, confrontando così le due redazioni. Bernardino Daniello, fedelissimo studioso delle Prose di Bembo, fu autore di un commento alle Rime di Petrarca (pubblicato nel 1541 e poi di nuovo nel ’49) che si differenzia dai precedenti proprio per l’attenzione riservata agli “scartafacci” del poeta. Lo studio delle varianti aveva al tempo interesse esclusivamente didattico: documentare l’ascesa di Petrarca alla perfezione costituiva allo stesso tempo una proposta di esercitazione poetica (si tratta di un’impostazione che non manca neppure nel volume di Ubaldini). Una menzione agli autografi piuttosto rilevante è infine nella Vita di
Petrarca di Ludovico Beccadelli (1563-1564).
55 Il testo riprodotto nel 1642 fu ristampato nel 1750 e utilizzato da Muratori come base per il proprio commento al testo
di Petrarca; in generale, l’edizione Ubaldini rimase fondamentale fino alla diplomatica fornita da Appel nel 1891. La portata del lavoro di Ubaldini, annoverato da Segre (2008, 159) tra quelle «invenzioni che, giungendo troppo precoci, sono invisibili per i contemporanei, salvo rivelarsi e rivelare la loro importanza dopo lungo tempo», fu riconosciuta già da Debenedetti, che gli assegnava, tra i provenzalisti del XVII secolo, il primo posto (1935, 365); è proprio dal lavoro di Ubaldini, peraltro, che Debenedetti trasse ispirazione nella rappresentazione grafica degli abbozzi d’autore.
56 Ubaldini 1642, VI.
57 Ivi, V-VI. «Interessante la metafora dell’embrione, che pare anticipare le metafore di ambito genetico» (Segre 2008,
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seguito sintetizzate.
Negli abbozzi di Petrarca «l’assetto stilistico è quasi statico, e pertanto le innovazioni non influenzano, in genere, l’assetto complessivo»58; ciononostante, è possibile rintracciare qualche tendenza generale. C’è, come primo esempio,
l’inclinazione di Petrarca a comporre iniziando per accumulo di coppie sinonimiche, «doppioni, appena più che endiadi»59, progressivamente sfoltite durante il processo d’elaborazione. Si veda in merito il caso di una delle prime
varianti in cui il lettore del Codice ha modo di imbattersi: la trasformazione dei versi60
O diletto e riposto mio tesoro Di mie tenere frondi or qual pianeta T’invidiò il frutto, e più saldo lavoro?
che a seguito dell’intervento del poeta assumono altro aspetto:
Di mie tenere frondi altro lavoro, Credea mostrarti, e qual fiero pianeta Ne invidiò l’un a l’altro, o mio tesoro?
L’ultimo verso fu ulteriormente ritoccato in Ne ’nvidiò ’nseme, o caro mio tesoro; dopo un’ulteriore modifica, il vocativo si stabilizzò nella forma o mio nobil tesoro. Si nota immediatamente il riassorbimento della perifrasi o diletto e riposto
mio tesoro nel più sintetico o mio nobil tesoro, così come è evidente la scomparsa della coppia sinonimica frutto e lavoro,
con assorbimento del primo termine da parte del secondo. Sempre a proposito di questi versi, Contini notò come la