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Sulla riconoscibilità di alcune varianti d’autore

4.1 «Di pensieri, di lagrime e d’inchiostro» 11 : quel che ci insegnano i modern

4.2 Sulla riconoscibilità di alcune varianti d’autore

«Noi non possediamo autografi dei classici greci e latini, e nemmeno copie che siano state raffrontate con l’originale», secondo il perentorio assioma maasiano74: è chiaro, dunque, che lo studio della presunta variantistica d’autore non può, in filologia classica, giungere a conclusioni sicure; ma è altrettanto vero che in alcuni casi le informazioni in nostro possesso sulla storia della composizione e della circolazione di un determinato testo ci impediscono di ignorare questa possibilità.

70 Tale intento si esplica nel ricorso al dialetto e ai molti linguaggi settoriali che si mescolano nella pagina di Gadda,

«perché se la realtà si manifesta in forme complesse, la lingua adibita a rappresentarla non potrà che essere una lingua complessa: dialetti, linguaggi tecnici, neoformazioni» (Italia 2017, 90).

71 Italia 2017, 93.

72 Italia 2017, 84-85. Il meccanismo di espansione della prosa gaddiana fu descritto come un procedere per «metonimia

infinita» da Emilio Manzotti (1996), uno dei primi studiosi dei manoscritti dell’autore.

73 Manzotti 1996, 123. 74 Maas 19903, 1.

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Eppure, nonostante tale condizione, a prima vista del tutto proibitiva, il primato nella scoperta dell’importanza delle varianti d’autore va – come è noto – a Pasquali75, e fu un dibattito tra filologi classici quello innescato dalle osservazioni dello studioso a ridosso della pubblicazione della Storia della tradizione e critica del testo76. Purtroppo il dibattito, più che concretizzarsi in una discussione dei criteri metodologici, finì per limitarsi a un irrigidimento delle posizioni – rispettivamente a favore o contro la variantistica d’autore – non sempre privo di preconcetti o di faziosità. Di contributi metodologici di un qualche rilievo ce ne fu, in sostanza, uno soltanto: quello dovuto a Scevola Mariotti.

Commentando alcuni studi di Funaioli su possibili doppie lezioni autentiche nell’Eneide77, lo studioso ammoniva, notando il fatto che per tre delle quattro varianti notate dal Funaioli c’è grande prossimità grafica e fonica: «una tesi come quella del F., specialmente trattandosi dell’opera più letta e studiata della latinità, non può sostenersi soltanto su varianti così leggere, a cui possono aver portato il caso e più facilmente l’opera cosciente od inconscia di intenditori». Tornato sulla questione pochi anni dopo, enunciò con maggior chiarezza il suo contributo metodologico: «è evidente che solo per un caso eccezionalissimo una lezione introdotta dall’autore al posto di un’altra di senso diverso le somiglierà fortemente per la forma o la scrittura»78. Il consiglio, insomma, era evitare di tirare in ballo la variantistica d’autore in presenza di variae lectiones più vicine per grafia che per il senso: anche se mancano precisi argomenti paleografici per imputare la divergenza a un errore di copista, la troppa somiglianza grafica deve mettere in guardia il filologo, soprattutto nel caso in cui la storia della tradizione non attesti rifacimenti d’autore79. Si vedrà tra poche pagine se il criterio enunciato da

75 La sua Storia della tradizione uscì per la prima volta nel 1934, con tre anni di anticipo sui primi studi ariosteschi di

Debenedetti. Si noti che proprio da Pasquali prese le mosse Isella nella prolusione all’insegnamento di Letteratura italiana a Zurigo, successivamente inserita nel volume Le carte mescolate.

76 La reazione immediata fu un discreto entusiasmo da parte dei filologi classici; entusiasmo forse eccessivo, che fu

saggiamente ridimensionato dall’autore stesso nella seconda edizione della Storia della tradizione (1952): «mi sarà lecito confessare che del principio che non a caso avevo collocato ultimo dei dodici, la possibilità di varianti d’autore, sembra a me si sia, particolarmente da classicisti intelligenti ma senza intimità con la tradizione, abusato anche là dove le condizioni della tradizione non consentivano di usarlo legittimamente. […] Tradizioni così ricche, così vicine (o talvolta identiche) agli originali, così autentiche, come quelle di certi scritti del Petrarca e del Boccaccio, anche del Parini e del Foscolo, suscitano problemi di tal genere che sarebbe temerario porli a manoscritti disgiunti dall’originale da intervalli di secoli e secoli» (Pasquali 19522, XXI). Il filologo aveva fatto un passo indietro rispetto alle formulazioni della prima

edizione già nella Preghiera, datata 1937: «Io credo ora di sapere […] che varianti d’autore, frequenti in scritture medievali, rinascimentali, più moderne, in opere dell’antichità sono molto più rare di quanto allora credessi» (261). Sull’accoglienza poco più che gelida riservata dal fronte tedesco (Maas e Jachmann in particolare) all’approccio di Pasquali in generale e alla questione della variantistica d’autore in particolare, vd. Bossina 2010 e Canfora 2012.

77 Funaioli riferì ben quattro casi di divergenza fra il codex Mediceo e il Palatino: IV, 497: superimponant M :

superimponas P; IV, 564: varioque irarum fluctuat aestu M : variosque irarum concitat aestus P; VI, 486, frequentas M

: frementis P; XII, 520, munera P : limina M.

78 Mariotti 1950, 26 = 2000, 540. Sulla base di questo criterio, Di Giovine avviò i suoi studi sulla presunta variantistica

d’autore in Ausonio (1990).

79 L’atteggiamento di Mariotti rispetto alla questione non poteva comunque dirsi di chiusura: ancora un anno dopo, pur

riconoscendo che il criterio delle varianti d’autore è ben più produttivo nello studio dei testi dei moderni, riconobbe come «il filologo classico debba avanzare il dubbio di variante d’autore anche quando non possa darne una dimostrazione assolutamente probante, che rimane il più delle volte impossibile […]. Ma, s’intende, l’obbligo della dimostrazione spetta

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Mariotti possa considerarsi effettivamente valido, e soprattutto quanto risulti applicabile alle riconoscibili varianti d’autore moderne. Quel che qui preme sottolineare è che quello appena citato fu praticamente l’unico criterio generale che un filologo classico abbia mai formulato in merito alla questione; come si è già avuto modo di osservare, il “dibattito” critico intorno alla questione si è più che altro configurato come un’oscillazione tra l’impeto anche eccessivo e l’atteggiamento che Mariotti stesso definì ‘jachmanniano’: la tendenza a escludere del tutto la possibilità, nella ricerca quasi frenetica di ipotesi alternative80.

Ma quali caratteristiche ha e quanto è riconoscibile una variante d’autore? Cosa accadrebbe se, privati dei preziosissimi autografi a nostra disposizione per lo studio degli autori moderni, ci trovassimo a giudicarne le varianti applicando i rigidi criteri metodologici che ci imponiamo per le varianti classiche? Si tenterà di stabilirlo, con qualche esempio, nelle prossime pagine.

Partiamo da una sommaria verifica dell’efficacia del “rasoio” di Mariotti, che imporrebbe di escludere dal novero delle possibili varianti d’autore tutte le lezioni graficamente (o fonicamente) troppo simili. Lo studioso stesso, nell’enunciare il criterio, indicò pochissimi casi, da lui stesso individuati, di contravvenzione alla norma. I primi due consistono nella sostituzione, in A Silvia (v. 22), di percotea (la faticosa tela) con percorrea e un passaggio de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese (1964), dove la parola sfoghi è variante soprascritta a svaghi; si noti che i termini concorrenti presentano una certa affinità di significato per quanto non esprimano di certo un concetto identico. Il

a chi sostiene l’esistenza di queste varianti e la dimostrazione non consiste nel provare che due lezioni non sconvengono all’autore, ma che è impossibile o improbabile ascrivere ad altri la modificazione del testo originario». Una prima reazione alla breve nota di Mariotti su Funaioli e sull’Eneide fu un altrettanto breve articolo di Colonna (1948, 277-278), volto a precisare che «il rilievo metodico fatto dal Mariotti in proposito – che non si possa parlare di varianti d’autore, quando le lezioni sono tra loro troppo vicine per la forma o la grafia – pecca d’incompletezza, e potrebbe indurre facilmente a conclusioni affrettate ed erronee chi volesse applicarlo integralmente nello studio dei testi». La proposta conclusiva di Colonna fu generica ma indiscutibile: potranno esser sospettate di essere d’autore solo le varianti attestate da una tradizione a ‘recensio aperta’ – ma sull’accezione, tutt’altro che univoca, di ‘recensio aperta’ già in Pasquali si è espresso Alberti (1979, 1-2) – oppure le lezioni riportate come varianti marginali nel manoscritto che per tale tradizione funse da archetipo. Allo stesso tempo, Colonna fece luce su di un’altra, importantissima fonte di possibili varianti d’autore: la tradizione indiretta. Citazioni di autori antichi possono restituire versioni differenti del testo, che da un lato portano su di sé il sospetto di derivare da banali errori di memoria, ma che allo stesso tempo risultano in qualche modo ‘protette’ dalla loro antichità, e pertanto degne di nota. Mariotti, comunque, replicò brevemente alle osservazioni di Colonna in un articolo uscito nel 1950 (= Mariotti 2000, 540-543), in cui ribadiva che il criterio da lui proposto doveva comunque essere applicato «ogni volta che non intervengano in maniera decisiva motivi contrari: testimonianze esterne, abitudini particolari di questo o quello scrittore, ecc…».

80 Monito in seguito ricordato da Timpanaro (1997, 239), che ebbe modo di esprimere il suo punto di vista sulla

variantistica d’autore trovandosi a recensire l’edizione, curata da Di Giovine, del Technopaegnion di Ausonio (è noto che proprio a proposito di questo autore, nel 1941, Günter Jachmann aveva parlato di varianti d’autore alla stregua di stramberie alla moda tra i filologi). Lodando l’approccio di Di Giovine, «cauto, ma non pregiudizialmente ostile alle varianti d’autore», Timpanaro riaffermò con chiarezza che il criterio non costituisce e non deve costituire una fuga dalla responsabilità di scegliere la sola lezione autentica – così l’aveva considerato Jachmann – ma semplicemente uno scenario che è d’obbligo tenere in considerazione di fronte a determinate caratteristiche di trasmissione. Dalle sintesi presentate da De Nonno (1998, 221-239) e più di recente da Dorandi (2007, 124-139) emerge con chiarezza lo scetticismo dominante, almeno nell’ultimo ventennio, tra i filologi classici. Fu profetico in questo senso Colonna: «Né ritengo improbabile che in un domani più o meno lontano, nessuno vorrà più credere alle varianti d’autore: tant’è che anche la filologia è soggetta ai corsi e ai ricorsi della moda!» (1948, 277). Sull’attitudine degli studiosi nei confronti della presenza di varianti d’autore in Marziale si veda Appendice, 173-188.

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terzo caso, la sostituzione di ergo con virgo nel De partu virginis del Sannazaro (II, 45) costituiva un ancor più raro caso di rimpiazzo con un termine graficamente molto simile ma concettualmente lontanissimo81. Occorre premettere che la proposta fu formulata nel 1947, quando la critica delle varianti aveva appena iniziato a muovere i primi passi: il filologo non poteva assolutamente contare sull’abbondanza di materiale attualmente disponibile. Tuttavia, a prescindere da quanto le varianti concorrenti risultino vicine anche per senso, sono davvero abbondanti nei manoscritti d’autore i casi che contraddicono la norma da lui enunciata82.

Alcuni ottimi esempi sono nel “Codice degli abbozzi” di Petrarca. Il v. 96 del Trionfo d’Amore, nella versione definitiva suona: e con un riso, per più doglia darme. L’endecasillabo ebbe genesi travagliata: la prima parte suonava inizialmente per suo solazzo (con variante diletto) poi mutato in e sorridendo e finalmente stabilizzatosi nel definitivo e con un riso. Quel che qui ci interessa, però, è che a margine di doglia Petrarca tracciò l’appunto vel noia: un termine dal suono estremamente simile. Il sonetto 146 del Canzoniere (O d’ardente virtute ornata et calda) al v. 3 recita o sol già d’onestate intero albergo; nell’autografo postillato del poeta, a intero è affiancata la lezione integro, graficamente molto prossima alla prima. Meno simili, ma rilevanti almeno per l’omeoteleuto, due varianti riportate nel componimento 23 (la celebre canzone Nel dolce tempo de la prima etade): al verso 69, della dolce ed acerba mia nemica, l’aggettivo acerba presenta come variante superba.

Si potrebbe obiettare che i casi fin qui discussi, tratti come sono dagli abbozzi di Petrarca, costituiscono varianti genetiche, ovvero varianti prodotte contestualmente alla stessa elaborazione – dunque non aggiunte a un testo dalla fisionomia già stabile, come accade per le varianti evolutive – e che pertanto la somiglianza fonica è dovuta al fatto che vengono prodotte in un lasso di tempo minimo, dichiaratamente con intento sostitutivo83. Verifichiamo pertanto la validità del “rasoio” di Mariotti su varianti sicuramente evolutive, derivanti dalla correzione d’autore occorsa in un momento cronologicamente ben definito e di parecchio successivo alla prima composizione: le modifiche di Leopardi intervenute tra un’edizione e l’altra della sua opera e gli interventi di Gadda sul pamphlet antifascista Eros e Priapo, scritto nel biennio 1944-45 ma pubblicato, con significative modifiche, solo nel 196784.

81 Vd. Mariotti 1950, 26 = 2000, 540: «è evidente che solo per un caso eccezionalissimo una lezione introdotta dall’autore

al posto di un’altra di senso diverso le somiglierà fortemente per la forma o la scrittura».

82 Lo stesso Mariotti, in un saggio uscito nel 1985 (ora in Mariotti 2000, 559) si trovava ad ammettere l’inapplicabilità

del metodo da lui stesso enunciato su alcuni abbozzi di Petrarca (si tratta di una serie di scolii al testo dell’Africa, pubblicati da Fera nel 1984) di fronte a varianti d’autore quasi identiche come cara e rara (VII 399) o convincti e coniucti (V 550).

83 L’avvertimento è naturalmente valido per tutti gli altri esempi petrarcheschi presentati infra, tratti dal Vaticano Latino

3196.

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L’ultimo canto di Saffo fu pubblicata per la prima volta con le Canzoni del 1824, poi inclusa nei Canti fiorentini del ’31 e nella Starita del ’35; tra un’edizione e l’altra, non mancarono variazioni d’autore. Al v. 20, la terra fu definita roscida nel ’24 ma divenne rorida già dalla fiorentina del ’31; al v. 44, il poeta mutò le malcaute voci in incaute tra l’edizione del ’31 e quella del ’3585. La canzone Ad Angelo Mai fu scritta e pubblicata nel 1820, ma Leopardi non cessò di lavorarci attorno negli anni successivi: e così, al v. 59, l’aere divenne aura nella Napoletana del 183586. Ancora un esempio leopardiano: al v. 4s. de L’infinito, l’interminato spazio era inizialmente infinito: in assenza di testimonianze autografe, vista la somiglianza grafica tra i due termini, difficilmente penseremmo alle due lezioni come varianti d’autore: in questo caso, invocando come motivazione anche il possibile condizionamento dato dallo stesso titolo della lirica, saremmo probabilmente tentati di mettere a testo la variante rigettata dal poeta87.

Qualche altro esempio dall’opuscolo gaddiano. Nel paragrafo intitolato La collettività subisce l’incanto non tanto del maestro quanto dell’Istrione, l’armirato e pilota nostro, divenne dopo la correzione del 1967 l’ammiraglio pilota nostro; nello stesso capitolo, i poveri e perseguitati amanti fu corretto dall’autore in poveri e perseguiti, mentre insufflando passò a insuffando; ancora, l’empito spermatoforo fu cambiato in spermatoforico.

Molti dei casi riportati oppongono coppie di termini che sono poco più che allotropi sinonimici: questo dimostra che la sostituzione, da parte dell’autore, di un termine con uno molto vicino per la forma o la scrittura non è affatto, come credeva Mariotti, «un caso eccezionalissimo». Si tratta, anzi, del tipo di varianti più frequenti nei manoscritti d’autore; tutti casi che non reggerebbero, se vi applicassimo, al fine di stabilirne l’autenticità, il “rasoio” teorizzato dallo studioso: lezioni alternative d’autore vicine per grafia e suono, sia che il loro significato sia relativamente simile – ci si riferisce in particolare alle coppie doglia/noia o acerba/superba nel “Codice degli abbozzi”, o alla sostituzione di interminato con infinito nel manoscritto leopardiano – sono abbondanti nei manoscritti d’autore, tanto come varianti genetiche quanto come varianti evolutive, sia nei testi poetici (com’era prevedibile, date le rigide leggi metriche e foniche) che nella prosa.

Provata la scarsa efficacia del “rasoio” sugli scartafacci in nostro possesso, passiamo all’analisi dei ritocchi d’autore sicuri in base ad altre categorie in base a cui siamo abituati a classificare le varianti riportate dai testimoni dei testi antichi.

85 Cf. Peruzzi 1981, 225-248. 86 Cf. Peruzzi 1981, 67-106. 87 Cf. Peruzzi 1981, 271-274.

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In parecchi casi, varianti che riflettono le esitazioni del poeta nella scelta di un vocabolo potrebbero facilmente esser scambiate per mere banalizzazioni o glosse intruse. Nell’autografo della canzone A Silvia, al v. 20, l’originario balconi fu sostituito con veroni, «per nient’altro, forse, che un gusto d’antico e pellegrino»88: ma il secondo termine è di gran lunga meno banale del primo e forse, trovandoci di fronte alla coppia di lezioni senza aver visto l’autografo, difficilmente ricondurremmo la prima alla mano dell’autore. Lo stesso vale per la sostituzione operata da Leopardi al v. 55 (mia lagrimata speme!): in questo caso, non soltanto il testo definitivo è tratto da un originario lacrimata, che la mano del poeta corresse definitivamente sulla Starita del ‘3589, ma lo stesso lacrimata deriva da sfortunata, le cui prime lettere, poi cancellate, erano svent90. Anche in questo caso penseremmo verosimilmente a una banalizzazione dell’unica lezione lagrimata, di cui quasi certamente ci parrebbe corruzione anche la variazione d’autore lacrimata.

Negli abbozzi del Trionfo d’amore di Petrarca ci sono almeno due casi esemplari di variae lectiones d’autore che hanno tutta l’aria di risultare dall’intrusione di una glossa o da banalizzazione più o meno spontanea: al v. 2 del sonetto I vidi in terra angelici costumi (Rvf 157) la perifrasi celesti bellezze riporta come lezione originaria divine bellezze, che è ben più comune e che forse, senza poter vedere l’autografo, scambieremmo semplicemente per glossa. Il v. 89 del Trionfo d’Amore (quando una giovinetta ebbi dal lato) suonava, alla prima stesura, quand’io vidi un’angelica fanciulla, con variante bella giovinetta. Ora, in mancanza degli abbozzi d’autore – e in questo caso, forse, anche della versione definitiva del verso, in cui resta traccia di una delle due stesure provvisorie – difficilmente ammetteremmo la possibilità che entrambe le lezioni derivino da un’esitazione del poeta.

Può esser utile anche la menzione di una variante alternativa riportata negli autografi delle Rime amorose di Torquato Tasso91: al v. 7 del sonetto XXI (Fuggite egre mie cure, aspri martiri), che nella redazione finale suona Gli occhi infiammati di celeste ardore, riporta per la prima parte la variante i lumi accesi; in questo caso, se non conoscessimo la redazione definitiva, non soltanto stenteremmo a classificare la divergenza come esito di varianti d’autore, ma probabilmente propenderemmo per considerare i lumi accesi (che è nella prima stesura) come versione definitiva, in quanto difficilior.

88 De Robertis 1946, 185.

89 «Questione non solo di latino ma di suono, d’un suono amaro» (De Robertis 1946, 187).

90 Per le modifiche collegate (dunque implicazioni) di sfortunato in sventurato e viceversa, nel Sogno (v. 90), ne La vita

solitaria (v. 13) e nel canto Per una donna inferma (v. 43), vd. Contini 1947, 199; cf. Peruzzi 1981, 90 e 321.

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Un ultimo esempio, stavolta in prosa, viene dalle bozze dell’Isola di Arturo di Elsa Morante92. Nel paragrafo Suicidio (capitolo 5), il protagonista, nel pieno della tensione emotiva scatenata dall’attrazione per la matrigna Nunziata e dalla competizione con quest’ultima prima per l’affetto del padre e poi per quello del fratellino Carmine, progetta di togliersi la vita. La modalità prescelta è l’assunzione sonniferi, gli stessi che il padre assume regolarmente:

Avendo interpellato ripetute volte mio padre e anche il farmacista sui loro effetti, sapevo che, al di là della dose prescritta, esse, da semplice sonnifero, si trasformavano in un veleno, il quale poteva anche provocare la morte! La prima volta che avevo inteso da lui questa cosa, io avevo sbarrato gli occhi sul suo uso; e lui, al mio sguardo parlante, s’era messo a ridere: no, m’aveva subito rassicurato, su questo niente paura. Lui si atterrebbe sempre alla dose prescritta: non voleva far piangere il mondo, orbandolo di Wilhelm Gerace!

Il testo riportato costituisce la versione definitiva di questa sezione, che risulta dagli autografi ampiamente rimaneggiata. Ci interessa in modo particolare l’ultima frase. Morante iniziò scrivendo non voleva affatto, poi cassato per non intendeva privare, a sua volta mutato in non aveva mai; la frase si assestò provvisoriamente nella forma non gli verrebbe mai la fantasia di orbare il mondo, privandolo di Wilhelm Gerace, ulteriormente rimaneggiata in non voleva orbare (corretto in funestare) il mondo, e finalmente giunse alla versione definitiva non voleva far piangere il mondo, orbandolo. Ora, concentrandoci in particolare sul passaggio orbare-funestare-far piangere, in assenza di autografi sarebbe a dir poco problematico stabilire se si tratti o meno di varianti d’autore; peraltro la progressiva semplificazione dei termini, che qui risponde chiaramente all’intento della scrittrice di filtrare la realtà attraverso il linguaggio del protagonista, poco più che bambino, contraddice in pieno il principio della lectio difficilior.

Un’altra categoria: non mancano, negli autografi dei poeti e degli scrittori in nostro possesso, alcuni esempi che mettono in crisi il concetto di esclusione di varianti che parrebbero risultare da guasti meccanici. Un caso esemplare è ancora nelle Rime di Tasso: in mancanza della preziosa testimonianza dei manoscritti, posti di fronte alla coppia di varianti del sonetto XXXII (Ove tra cari balli in loco adorno), v. 11, restar mill’occhi a lo spirar d’un lume/ a lo sparir d’un lume,