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Scartafacci e varianti: dai campioni alle categorie

4.1 «Di pensieri, di lagrime e d’inchiostro» 11 : quel che ci insegnano i modern

4.1.1 Scartafacci e varianti: dai campioni alle categorie

Come giustamente osservato da Pasquali, per chi si propone di studiare la variantistica d’autore nelle tradizioni antiche sono estremamente preziose le acquisizioni della filologia d’autore sulle carte di lavoro degli autori moderni: riferendosi agli «scettici, quelli che scrollano le spalle anche di fronte a seconde edizioni così evidenti come in Eusebio, rimaste così distinte nella tradizione come in Ausonio», lo studioso trovò opportuno «rimandar questa gente a testi il cui originale non brilla come una stella, a distanza irraggiungibile, ma è vicino, è talvolta conservato in una biblioteca pubblica e accessibile comodamente»12.

Gli studi di filologia d’autore sono acquisizione tutto sommato recente: si susseguirono a partire dal terzo decennio del secolo scorso i contributi e gli scambi di vedute – non di rado polemici – che ne scandirono genesi e definizione in quanto autonomo filone scientifico. Se ne ripercorrono brevemente, qui, le tappe principali.

Per quanto l’attenzione ai rifacimenti d’autore – attenzione sporadica e metodologicamente poco organizzata – si fosse manifestata negli studiosi già da qualche secolo13, una data importante si può fissare al 1937, con la pubblicazione dell’edizione critica dei frammenti autografi dell’Orlando furioso curata da Santorre Debenedetti. Debenedetti non si limitò a riprodurre fedelmente gli autografi14, segnalando le aggiunte, le correzioni e le sostituzioni del poeta così come questi le aveva

11 Petrarca, TrC, III 117. 12 19522, 438.

13 Pioneristico il caso dell’Actius (1495-96), dialogo di impostazione retorica e filologica in cui Giovanni Pontano discusse

i versi del proprio poema astronomico Urania riportandoli in doppia redazione. Un caso di “auto-critica” che fornì a Bembo un modello per il confronto tra varianti nel commento alle Rime di Petrarca (nelle Prose della volgar lingua, 1525; cf. Marti 1967, 57-63) per le dipendenze di Bembo da tale impostazione di metodo vd. Belloni (1992) e Italia-Raboni (2010, 19). Di notevole importanza il lavoro di Federico Ubaldini (1642) sul noto “Codice degli abbozzi” petrarchesco (Vat. Lat. 3196): lavoro che sostanzialmente mirava a riprodurre l’aspetto dell’autografo tramite specifiche soluzioni tipografiche; vd. infra, 165. Negli anni immediatamente precedenti la definizione metodologica della “critica degli scartafacci” si segnalano, tra le altre, l’edizione dei Promessi Sposi di Giuseppe Lesca (1915), che si caratterizzava per l’attenzione al passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana, e quella dei Canti leopardiani curata da Francesco Moroncini (1927); sull’edizione Lesca, vd. Isella 2009, 39; sul testo del Fermo e Lucia cf. ivi, 277-301. Si noti che secondo Italia (2016a, 42) è proprio con l’edizione Moroncini che si può far coincidere ufficialmente la nascita della filologia d’autore.

14 «Un bel fascio di Ariosto inedito» (Contini 1939, 232), «un’edizione per l’appunto di abbozzi, a diverso grado di

elaborazione» (Isella 2009, 11). Ariosto sottopose a continui rimaneggiamenti il suo poema, che tra la prima (1516) e la terza edizione (1532) passò da 40 a 46 canti, arricchendosi di ben quattro episodi: la storia di Olimpia (IX-XI), la Rocca

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affidate alle sue carte: ebbe soprattutto il merito di tentare di individuare, per tali correzioni, motivazioni verosimili15. Quello applicato da Debenedetti allo studio delle varianti ariostesche è molto diverso dal metodo che sarebbe stato proprio del suo più illustre allievo, Gianfranco Contini: il primo costituisce uno studio diacronico del fare poetico, con i suoi ripensamenti e i suoi passaggi intermedi16, mentre il secondo prende in esame – lo si vedrà infra – i sistemi in quanto fenomeni di ‘sincronia’.

Purtroppo gli studi di Debenedetti subirono un arresto forzato: con le leggi razziali del 1938 lo studioso perse la cattedra di Filologia romanza all’Università di Torino e la direzione del «Giornale storico della letteratura italiana»17. La rilevanza del suo lavoro fu comunque tale da innescare la pubblicazione del saggio-recensione Come lavorava l’Ariosto di Contini, «fulminato dalla novità dell’opera»18. Il punto fondamentale, in queste pagine, è la distinzione tra un modo di guardare all’opera letteraria «per così dire statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risultato»19, e un modo dinamico, che la studia e rappresenta in quanto processo costantemente in fieri e «perenne approssimazione al valore»20. Tale divisione poneva la nuova disciplina inevitabilmente in contrasto con l’estetica crociana, per quanto – o forse la motivazione fu proprio questa – i sistemi di modifica

di Tristano (XXXII-XXXIII), Drusilla e Marganorre (XXXVII) e le vicende di Ruggiero e Leone, che concludono il poema (XLIV-XLVI): sulla natura di tali ampliamenti vd. Bologna 1983, 403-420 e Debenedetti 20101, XIII-XXII. Le

carte di Ariosto erano state oggetto di interesse già nel XVI secolo, rispettivamente da parte di Simone Fornari ne La

sposizione sopra l’Orlando furioso di messer Ludovico Ariosto (1549), da Giovan Battista Pigna nel capitolo III del suo

trattato I romanzi (1554), e da Lodovico Dolce nella sezione “Delle cose degne d’esser notate nell’Ariosto”, nei Modi

affigurati (1564): da rilevare che, in tali studi, l’intervento del poeta era percepito esclusivamente come miglioramento di

una poco efficace lezione iniziale (di cui andava a ogni costo dimostrata la “bruttezza”); si tratta di un’impostazione già presente negli studi di Bembo e Daniello sugli scritti di Petrarca. Il più vicino precursore di Debenedetti fu Giuseppe Lisio, che fornì degli autografi un’edizione completa di apparato (con tanto di varianti commentate): un saggio del lavoro, limitato ai primi due canti, fu presentato da Lisio nel 1909, ma la stampa completa rimase in bozze fino alla morte dello studioso (1912); cf. Segre ap. Debenedetti 20102, VI.

15 Su cui vd. infra, 161-162.

16 «Ci sta dunque innanzi l’Ariosto mentre compone, e nei momenti più diversi. Così, quelle che potremmo chiamare le

sue abitudini di lavoro ci diventano, alla lettura, quasi familiari, e persino qualche volta riusciamo a sorprendere i suoi processi fantastici, ora nel momento germinativo, ora nel loro svolgersi fino alla loro piena attuazione» (Debenedetti 20102, XII).

17 «È qui che può essere istruttivo confrontare la storia come fu con la storia come avrebbe potuto essere. Perché di questi

due tipi di analisi, quello di Debenedetti non ha avuto immediatamente seguito per i motivi esterni che abbiamo già visto. Si può immaginare invece che il ‘metodo Debenedetti’ e il ‘metodo Contini’ avrebbero avuto ognuno i suoi fautori in un mondo pacifico e normale e si sarebbero sviluppati fianco a fianco, certo con riflessi reciproci. (…) Se però non si può cambiare il passato, le sue potenzialità ci aiutano forse a capire meglio il presente. Nel nostro caso, possiamo dire che mentre l’articolo di Contini inaugura la critica delle varianti d’autore, l’edizione di Debenedetti è un’edizione genetica, e anticipa di qualche decennio la critica genetica francese» (Segre ap. Debenedetti 20102, VIII). Per i rapporti tra filologia

d’autore italiana e critique génétique francese vd. almeno Segre 1998, Italia-Raboni 2010, 26-28 e Italia 2016a.

18 Segre ap. Debenedetti 20102, VI. Il pezzo di Contini, in un primo momento uscito sulla rivista «Il Meridiano di Roma»,

fu in seguito raccolto nel volume Esercizi di lettura (del 1939, uscito in versione ampliata nel 1982). Osservò Isella «che poi gli enunciati dello statuto teorico del nuovo metodo debbano essere cercati in un “esercizio di lettura”, anziché in pagine di speculazione aprioristicamente astratta, è indizio, sin dalla soglia, di un abito che s’imparenta da vicino allo sperimentalismo empirico di ogni seria operazione scientifica, senza peraltro che ciò suoni rinunzia a elaborare, funzionalmente alla consecuzione degli atti concreti, anche una propria teoria» (2009, 11-12).

19 Contini 1939, 233. 20 Ivi, 323.

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e correzione colti da Debenedetti e Contini sugli autografi del Furioso non fossero affatto in contraddizione con le tesi formulate dallo stesso Croce sull’armonia ariostesca21.

Fu poi pubblicato nel 1943 – ma era stato scritto già da due anni – il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in cui Contini discuteva nel dettaglio e sulla base di abbondanti esempi i processi elaborativi del poeta22. Ma lo scritto uscì «quando l’attenzione generale era assorbita dai tragici avvenimenti che insanguinavano il mondo. Cadde quindi nel silenzio più assoluto»23.

Il dibattito vero e proprio – «relativamente sottotono, anche con curiosi aggiramenti»24 – fu intrapreso da Benedetto Croce, che nel 1947 pubblicò un saggio dall’eloquente titolo Illusioni sulla genesi delle opere d’arte documentabile dagli scartafacci degli scrittori25. Non si trattava di una reazione esplicita allo scritto continiano, bensì – ma neanche questo veniva citato direttamente – a un saggio di Giuseppe De Robertis, a sua volta in contrasto col giudizio negativo di Ernesto Giacomo Parodi sull’edizione Lesca dei Promessi Sposi26. Il termine “scartafacci”, qui usato in senso dispregiativo, al fine di sottrarre ogni importanza al ruolo delle carte autografe per la critica letteraria, fu riutilizzato da Contini stesso in un’orgogliosa rivendicazione di metodo: si tratta del celebre saggio La critica degli scartafacci, pubblicato in due tempi sulla «Rassegna d’Italia» e formalmente rivolto all’oscuro Nullo Minissi, autore di un’agguerrita noterella contro la neonata disciplina27. Il saggio di Contini, all’apparenza tutto volto alla confutazione delle tesi di Minissi «era una ferma replica, da pari a pari, allo stesso Croce, al quale (con l’ingegnoso espediente dello scambio del destinatario) si impartiva una lezione, per così dire, di ortodossia crociana»28. La reiterata dichiarazione del fatto che il valore può riscontrarsi tanto nell’opera compiuta e licenziata quanto nel testo considerato nel suo farsi eliminò l’opposizione al crocianesimo, facendo piuttosto della nuova scienza una sua coerente

21 Espresse nel celebre saggio Ariosto, poi pubblicato nel volume Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920). 22 Vd. infra, 164-167.

23 Isella 2009, 234. 24 Segre 2008, 108.

25 Nei «Quaderni della Critica». Si riporta la conclusione del filosofo: «credete che le correzioni che si fanno nel

manoscritto siano sempre modificazioni o miglioramenti di una prima forma? Spesso non sono altro che la prima e sola forma della quale con segni convenzionali sulla carta si era posta l’esigenza, invitando sé stessi a soffermarcisi dopo che sarebbe stata trattata la linea generale della pagina o del componimento, la quale non si voleva smarrire o lasciare raffreddare» (1947, 94). Nello stesso anno, Contini faceva uscire il suo Implicazioni leopardiane, in risposta alle felici osservazioni dell’amico De Robertis sulle varianti di A Silvia; vd. infra, 162-164.

26 La recensione di Parodi era uscita nel 1916 su «Marzocco». «Ma non è possibile che Croce non abbia anche pensato al

Saggio d’un commento delle correzioni al Petrarca volgare di Contini. Dunque: De Robertis attacca Parodi alludendo

senza nominarlo a Croce; Croce attacca De Robertis e probabilmente Contini senza fare il loro nome» (Segre 2008, 109). A prescindere dal valore della posizione assunta da Contini nel dibattito col crocianesimo, si noti che quelli dell’edizione Lesca sono «balbettii» anche per Italia (2016a, 50).

27 Intitolata Le correzioni e la critica e uscita su «Belfagor» (gennaio 1948), nella rubrica Noterelle e schermaglie.

L’autore «senza aver letto l’originario articolo di Contini su Ariosto ma basandosi solo sulla divulgazione derobertisiana, aveva bollato la nuova critica, e il suo corifeo, come inutili e dannosi alla cultura italiana» (Italia-Raboni 2010, 24).

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declinazione29; conseguenza necessaria, «l’analisi delle varianti d’autore non poteva essere fatta per campioni, ma per categorie, per linee correttorie, per direzioni, il cui scopo era una descrizione caratterizzante, in senso dinamico, della poetica dell’autore stesso»30.

Se lo scontro – bellicoso, ma mai apertamente dichiarato – si chiuse apparentemente qui, non terminarono i contributi allo sviluppo della nuova critica. Nella Nota al testo premessa alla sua edizione del Racconto italiano di ignoto del Novecento (1983), Dante Isella, allievo di Contini negli anni del suo insegnamento a Friburgo, operò un’importante distinzione per la «lenticolare decifrazione del tenace, tormentato lavoro dello scrittore sulla sua pagina». Le annotazioni di Gadda furono infatti organizzate e ripartite tra apparato genetico, «che registra tutti gli accidenti e le fasi successive attraverso cui si sgroviglia e si giustifica la lezione ultima», postille, ovvero «le osservazioni scritte un po’ ovunque, con le quali Gadda è solito postillare il già fatto o il da farsi: espressioni di scontento o di soddisfazione, avvertimenti o consigli a se stesso; e anche dubbi», e varianti alternative, che sono propriamente le lezioni tra cui lo scrittore «non sa decidersi, o comunque non dà a intendere per segni certi di sapersi decidere»31.

La distinzione si rivelò tanto adeguata che in seguito ne fu esteso l’uso non soltanto all’edizione di tutti gli scritti gaddiani, ma anche a quelli di altri autori. Nel 1987, nella raccolta di saggi Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore32, Isella rifuse molte delle preziose acquisizioni a lui dovute, frutto degli studi sulle carte di numerosi autori (tra cui Tasso, Parini e Manzoni): delle numerose, felici enunciazioni teoriche del grande filologo si ricordino almeno l’importanza attribuita alle varie fasi redazionali, la distinzione – rimasta fondamentale – tra apparato genetico ed evolutivo, la necessità di adeguare gli stessi apparati alle modalità correttorie dell’autore.

Gli ultimi anni del secolo scorso hanno visto, in gran parte per iniziativa dello stesso Isella (scomparso nel 2007), un vero e proprio fiorire di «cantieri di lavoro filologico»33: è legato agli anni dell’insegnamento a Pavia il laboratorio sui trattati manzoniani (Della lingua italiana fu curato nel 1974 da Poma e Stella; gli Scritti letterari e linguistici e gli Scritti letterari nel 1991, rispettivamente per le cure di Danzi-Stella e Ricciardi-Travia); nel 1993 uscirono le Rime amorose34 di Tasso a cura di Gavazzeni, Leva e Martignoni; a un’edizione dei Malavoglia di Verga attese nel 1995 Ferruccio

29 «Non si trattava di scendere in campo per opporre alla teoria dominante un’altra teoria; o, quanto meno, non fu questa,

storicamente, la strada scelta da chi, vari anni più tardi, poté definire la sua operazione come lo sforzo di “riuscire postcrociani senza essere anticrociani”» (Isella 2009, 11).

30 Italia-Raboni 2010, 25.

31 Isella ap. Gadda 1983, XXXIV-XXXV.

32 Titolo cui si deve, tra l’altro, la formulazione che passò a designare la disciplina nel suo complesso; precedentemente

si parlava, con Avalle (1972, 33), di “fenomenologia dell’originale”. La raccolta di saggi fu ripubblicata, in forma estesa, nel 2009 (per le cure di Silvia Isella Brusamolino, che si attenne nella redazione dell’indice alle ultime volontà paterne), con il titolo Le carte mescolate vecchie e nuove.

33 Italia-Raboni 2010, 32.

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Cecco, mentre gli Inni sacri di Manzoni furono editi nel 1997 da Gavazzeni e Albonico. È del 2006 l’edizione critica del Fermo e Lucia, prodotta per l’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni da un gruppo di lavoro guidato dallo stesso Isella; nello stesso anno, un team diretto da Franco Gavazzeni ha svolto il medesimo lavoro sui Canti di Giacomo Leopardi35.