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1.3 Aliter non fit liber: l’organizzazione del libro come raccolta

1.3.1 Inevitabile inaequalitas

Una raccolta di epigrammi tematicamente vari aveva, dal punto di vista della composizione, vantaggi e svantaggi e innegabili. Se da un lato al poeta era concesso riutilizzare il materiale a disposizione e sfruttare ovunque possibile i componimenti già pronti, è anche vero che fin dai primi libri si fa evidente la difficoltà di proporre ai lettori raccolte bilanciate, che non rischiassero di stancarli né per mole né per distribuzione delle tematiche. Ne consegue la giustificazione143 al lettore dell’inevitabile disomogeneità a livello qualitativo, ottimamente espressa da I 16:

sunt bona, sunt quaedam mediocria, sunt mala plura quae legis hic: aliter non fit, Avite, liber144.

141 Probabile che siano numeri snocciolati dal poeta con sprezzante disinteresse; ma anche nell’esagerazione ci sarà stato

un minimo di aderenza alla realtà.

142 Sulla struttura delle raccolte di Marziale si vedano in modo particolare Holzberg (1988, 34-49) e Scherf (1998 e 2001).

Studi sulle modalità compositive dei singoli libri sono in Erb 1981 (per il libro I), Garthwaite (1993 e 1998a per il libro IX; 1998b per il libro V; 2001 per il libro II), Merli 1998 (per il libro III), Moreno Soldevila 2004a e Lorenz 2004 (per il libro IV). Sull’organizzazione del liber in relazione all’inserimento di epigrammata longa (per cui cf. infra, 53, n. 178 e 357, n. 10) vd. Scherf 2008 e Canobbio 2008.

143 Con questa battuta, Marziale intende rivendicare la varietà di forme e contenuti che caratterizza il suo libro. Impossibile

che tutto piaccia a tutti: si veda l’affermazione in X 59, 5-6, non opus est nobis nimium lectore guloso;/ hunc volo, non

fiat qui sine pane satur.

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Normalmente, Marziale si preoccupa di ricercare una certa varietas nei contenuti delle sue raccolte; fanno eccezione casi particolari, in cui comunque il poeta si premura di ammonire esplicitamente il lettore, di solito in sede proemiale, circa la natura anomala del liber145.

L’epigrammista, comunque, ammette in numerose occasioni di riservare speciale attenzione all’equilibrio complessivo delle sue raccolte, sia dal punto di vista della qualità che dal punto di vista del contenuto. In modo particolare, sono gli inevitabili mala plura a spuntare più volte come motivo ricorrente. Si veda ad esempio VII 81:

“triginta toto mala sunt epigrammata libro.” si totidem bona sunt, Lause, bonus liber est.

È inevitabile che nel complesso della raccolta finiscano versi meno rifiniti di altri; l’importante è che ce ne siano anche di buoni! L’ammissione che non tutti gli epigrammi saranno di qualità eccelsa – che va considerata puramente ironica, in un poeta consapevole del proprio talento come lo era Marziale – non è sempre pacifica: all’inizio della sua carriera Marziale avverte la preoccupazione con molta più urgenza e il timore di esser criticato dai lettori lo pone sulla difensiva, portandolo a sfidare ironicamente il suo pubblico a far di meglio146.

Altra conseguenza inevitabile della produzione di libri di una certa estensione e di contenuto vario è l’inaequalitas, ovvero la disomogeneità – nella forma e nel contenuto – difesa con forza in VII 90:

iactat inaequalem Matho me fecisse libellum: si verum est, laudat carmina nostra Matho. aequales scribit libros Calvinus147 et Umber:

145 Ad esempio il libro V, primo ad esser formalmente dedicato all’imperatore Domiziano, era per forza di cose esente da oscenità, come il poeta non manca di annunciare in V 2. Identico e opposto il caso del libro XI, sfrenato nunc demum redit animus per la morte del tiranno: Marziale chiarisce più volte al lettore che si trova davanti al libretto più licenzioso che abbia mai scritto.

146 Cf. II 8, 8: haec mala sunt, sed tu non meliora facis. «La difficoltà di fare un libro tutto buono è dovuta alla vastità dell’impegno che comporta uno sforzo rappresentativo che voglia andare al di là della singola occasione momentanea, per aderire in modo più complesso alla realtà» (Citroni 1968, 272). Il verso conclusivo dell’epigramma II 8 ha ricevuto, in realtà due diverse interpretazioni: “tu non scrivi versi migliori dei miei, e pertanto non hai il diritto di criticarli” (appoggiata da Ker 1919; Izaac 19612; Norcio 1980; Ceronetti 1979; Shackleton Bailey 1993; Scàndola 20002; Watson-

Watson 2003), o, in alternativa “tu non rendi i miei versi migliori criticandoli”, proposta da Friedländer (1886) e appoggiata da Hutchinson (1993, 24, n. 43). La proposta di Friedländer fu aspramente criticata da Housman, che la trovò «not merely wrong but obviously and perversely wrong» (1906, 234 = 1972, 715). Sul punto vd. il commento di Williams 2004, 52.

147 È lezione di βγ, mentre T, unico codice della prima famiglia a riportare l’epigramma, ha Calvianus; Schneidewin

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aequalis liber est, Cretice, qui malus est.

Il poeta sta sostanzialmente ribadendo quanto già affermato in I 16, peraltro con la ripresa del termine malus, stavolta riferito – anche in questo caso, difficilmente si tratterà di autocritica genuina – al complesso del libro. Marziale non ha dubbi sul fatto che la scarsa omogeneità negli argomenti dei suoi epigrammi sia un bene: essa ha il vantaggio pratico di consentirgli l’eventuale riutilizzo del materiale più disparato e difficilmente corre il rischio di stancare il lettore148.

Converrà ricordare, sempre a questo proposito, la replica a Sabello, che si vanta di essere un compositore raffinato (VII 85, 3-4):

laudo nec admiror. Facile est epigrammata belle scribere, sed librum scribere difficile est.

La varietas negli argomenti è difesa anche nella prefazione al libro VIII ove Marziale, spiegando che il libretto – dedicato a Domiziano – sarà meno osceno dei precedenti, coglie l’occasione per giustificare, davanti al lettore e soprattutto davanti al più illustre dei suoi lettori, il suo modo di dosare e selezionare idee e tematiche149:

hic tamen, qui operis nostri octavus inscribitur, occasione pietatis frequentius fruitur. Minus itaque ingenio laborandum fuit, in cuius locum materia successerat: quam quidem subinde aliqua iocorum mixtura variare temptavimus, ne caelesti verecundiae tuae laudes suas, quae facilius te fatigare possint quam nos satiare, omnis versus ingereret.

In questo caso la variazione della materia è presentata come omaggio adulatorio alla (presunta) modestia di Domiziano, che potrebbe stancarsi di sentirsi elogiato ben prima di quanto Marziale potrebbe esaurire le sue lodi; va comunque tenuto presente che in questo caso la capacità di

148 Significative le osservazioni di Casaceli: «è questa l’enunciazione di un principio che aveva trovato formulazione teorica in un autore di ormai sicura appartenenza al I sec. d. C., l’Anonimo del Sublime, col quale sotto più aspetti Marziale sembra concordare. Egli si compiace da un lato che i suoi libri siano esenti dalla piatta uniformità di chi mai eccelle, mentre è consapevole dall’altro che solo chi si eleva può a tratti cadere, per cui in un’opera che contiene molti epigrammi sarà facile trovare dei difetti» (1993, 23). Citroni (1968, 271) ha rilevato che non si trova in nessun altro autore di età flavia un simile rifiuto per il criterio dell’aequalitas, che è anzi considerata favorevolmente da Quintiliano in autori – per l’appunto non epigrammatici – come Virgilio e Apollonio Rodio; «Marziale vi è portato naturalmente dalla spinta, che abbiamo vista in lui vividissima, per un’adesione varia e multiforme ai molteplici aspetti della realtà quotidiana». Lo stesso personaggio di VII 90, Matone, viene chiamato in causa per lo stesso motivo anche in X 46: Omnia vis belle, Matho, dicere, Dic aliquando/ et bene; dic neutrum; dic aliquando male. L’inaequalitas come tratto costitutivo della propria opera è difesa da Marziale anche in VII 81.

149 Sul passo cf. il ricco commento di Schöffel (2001, 51-78). Su modestia e fastidium nella prefazione al libro vd.

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raggiungere un sapiente effetto di mixtura è presentato da Marziale come risultato acquisito con l’esperienza (da contrapporre pertanto all’atteggiamento difensivo manifestato in II 8).

Altro cruccio dell’autore, che teme continuamente di stancare il suo pubblico150, è la brevitas, intesa talvolta come ridotta lunghezza del libro, talvolta come ridotta estensione degli stessi epigrammi151. Le raccolte brevi sono esaltate in più di un componimento152, ma è emblematico il caso di II 1, che ha conclusione piuttosto amara:

ter centena quidem poteras epigrammata ferre, sed quis te ferret perlegeretque, liber? at nunc succincti quae sint bona disce libelli.

hoc primum est, brevior quod mihi charta perit;

deinde, quod haec una peragit librarius hora, 5

nec tantum nugis serviet ille meis; tertia res haec est, quod si cui forte legeris

sis licet usque malus, non odiosus eris. te conviva leget mixto quincunce, sed ante

incipiat positus quam tepuisse calix. 10

esse tibi tanta cautus brevitate videris?

ei mihi, quam multis sic quoque longus eris!

I molteplici vantaggi della breve raccolta (essa non stanca né il copista che cura l’edizione del libretto né il lettore) si accompagnano all’ammissione, ricorrente in Marziale, della sua capacità di produrre, all’occorrenza, molti più versi di quelli che sceglie poi di inserire nei suoi libri153.

150 «Ma mentre per il poeta augusteo il problema si pone soprattutto sul piano intellettuale di un fraintendimento dei

contenuti, poiché il libro potrebbe capitare nelle mani di persone incompetenti, nella più sperduta delle province africane o spagnole o essere adoperato dagli scolari per le loro esercitazioni rischiando, in ogni caso, di non essere compreso, per Marziale si tratta più modestamente di un problema di lunghezza, di ‘quantità’ di versi e quindi di mancanza di successo» (Borgo 2001, 500-501).

151 A tale aspetto si lega la riflessione del poeta sulla legittimità dei suoi epigrammata longa (per cui vd. infra, 53, n. 178 e 357, n. 10) per cui si veda, ad esempio, VIII 29, 1: disticha qui scribit, puto, vult brevitate placere. / quid prodest brevitas, dic mihi, si liber est?; sulle dinamiche tra epigrammata longa e breves libelli si tenga a mente quanto osservato da Canobbio, per cui «Marziale intende in realtà far convivere nella sua opera le due antitetiche dimensioni del breve e del longum sfruttando la dinamica microtesto/macrotesto tipica delle raccolte poetiche strutturate e in particolar modo di quelle augustee: il microtesto, l’epigramma, tradizionalmente breve, ammette, in virtù della Kreuzung con la poesia minore latina, la dimensione del longum; il macrotesto, il libro, naturalmente longum, mira invece a essere un brevis libellus» (2008, 190).

152 Si allude alla brevitas come tratto caratterizzante della poesia di Marziale in I 45, IV 82, VI 65, VIII 29, X 1, X 59,

XII 4, XII 61. Sulla brevitas in Marziale vd. almeno Casaceli 1993, Borgo (2001; 2003, 47-57), Vallejo Moreu 2008, 288-291.

153 Per un’analisi dettagliata del componimento vd. Borgo (2001, 500-506) e Williams (2002, 21-26). Un altro esempio è

IV 89, epigramma conclusivo del libro, ove il poeta finge di trattenere a stento il libretto che vorrebbe continuare a riversare epigrammi sul suo pubblico; «ironically, this is one of Martial’s shorter books» (Moreno-Soldevila 2006, 541). Il gioco sulla brevitas, in questi ed altri epigrammi, coinvolge ovviamente anche il lettore: alla garanzia tutto sommato

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Un epigramma di interpretazione piuttosto incerta, ma fondamentale, dal momento che concilia la riflessione dell’autore sulla lunghezza della propria raccolta con il problema del riutilizzo del materiale, è I 45:

edita ne brevibus pereat mihi cura libellis, dicatur potius “Τὸν ἀπαιμεβόμενος”.

Si tratta di uno dei componimenti che meglio esprimono, da parte del poeta, la difficoltà nel mettere insieme una raccolta di una certa consistenza senza che la varietà del contenuto ne risenta: l’epigramma si situa infatti subito dopo un componimento in cui Marziale sviluppa il tema della ripetizione tematica (I 44, in cui il poeta rivolgendosi a Stella, replica alle eventuali lamentele dell’amico per il fatto di avergli inviato per due volte versi sul ciclo delle lepri e dei leoni).

Occorre valutare brevemente le difficoltà interpretative dell’epigramma, prima tra tutte il nesso edita cura, che per Citroni potrebbe esser letto sia come “le mie fatiche di poeta, pubblicate in brevi raccolte” sia come “la fatica che ho dedicato alle brevi raccolte”154. Ci sono elementi a sostegno della prima interpretazione: il participio edita fa pensare primariamente

alla pubblicazione, mentre cura può ben designare, per metonimia, l’oggetto della cura e dunque gli epigrammi stessi155.

In alternativa, cura potrebbe conservare il suo significato originario e la seconda proposta esegetica si baserebbe su nessi, relativamente ben attestati, quali edere operam o edere curam; l’unica difficoltà è data dal fatto che si tratta di un’espressione estranea all’uso di Marziale, autore che tende ad avere e soprattutto a utilizzare ciclicamente i suoi costrutti prediletti. Poiché la prima lettura pare quella più ovvia – o comunque meno bisognosa di esser argomentata –sarà forse più logico intendere cura come metafora del proprio lavoro di poeta. Conviene interpretare di conseguenza il participio

edita come un riferimento alla pubblicazione, ovvero alla diffusione dei propri iscritti presso un pubblico più vasto; i libelli cui si fa riferimento sono qui le raccolte di Marziale pensate per esser distribuite ai lettori di Roma156.

Qualche problema di interpretazione è offerto anche dal secondo verso del distico. Per giustificarsi, Marziale riporta, secondo un uso tipico dell’epigramma greco157, un’arcinota formula omerica (che ricorre 26 volte nell’Iliade e 44 volte

nell’Odissea)158.

La proposta interpretativa secondo cui Marziale starebbe sostanzialmente difendendo la brevitas delle sue raccolte a fronte dell’estensione ricercata a suon di inutili ripetizioni, è stata in parte modificata da studiosi successivi che hanno ritenuto

amara – come si è detto supra, Marziale è ben conscio delle proprie capacità poetiche – di non voler annoiare il suo pubblico si aggiunga il fatto che in diversi componimenti la brevitas sia esaltata come pregio determinante della propria poesia (vd. supra, n. 162).

154 1975, 149.

155 Si vedano i paralleli, censiti da Citroni (ibid.), nello stesso Marziale: I 66, 5; I 107, 5; IV 82, 3; X 2, 1.

156 È questa anche l’interpretazione di Scàndola (20002), che traduce «per evitare che a causa della brevità dei libretti

pubblicati la mia opera vada perduta, la si riempia piuttosto di “e a lui di rimando”».

157 Marziale deriva tale tecnica in particolare da Lucillio; per Weinreich (1928, 161), I 45 sarebbe ispirato a un epigramma

lucilliano poi andato perduto.

158 Vd. Howell (1980, 208). Friedländer (1886, 192) pose un punto interrogativo alla fine del distico facendone una

domanda rivolta direttamente al lettore: deve forse Marziale ampliare i suoi libretti con un formulario di frasi fatte, come si fa nei poemi omerici? La proposta fu appoggiata da Barwick 1932, 77, n. 14.

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che il poeta stia piuttosto giustificando le proprie ripetizioni. L’idea fu esposta per la prima volta da Gilbert159, che finì

per proporre, nella sua edizione degli Epigrammi, di leggere l’epigramma insieme al precedente160. L’idea fu ripresa da

Prinz161, che rilevò come la formula omerica fosse passata a designare canonicamente qualcuno che si ripete in

continuazione. In effetti pare più verosimile che il cruccio di Marziale fosse il riutilizzo del materiale162, che fino a quel

momento aveva avuto senso in quanto parte di raccolte più brevi, fatte circolare privatamente.

Insomma: Marziale difficilmente rinunciava a inserire nella sua raccolta i versi già prodotti, preferendo non di rado rifondere l’abbondante materiale a sua disposizione nelle raccolte da pubblicare, talvolta senza darsi eccessiva cura di mascherare le sovrapposizioni; in alcuni casi, possiamo individuarle con una certa sicurezza.