Cap II: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia
II.2. Dal periodo liberale agli anni Trenta: la storiografia militare e propagandistica
II.2.3. Raffaele Ciasca
Un altro volume rappresentativo del periodo fascista è quello dello storico Raffaele Ciasca, Storia
coloniale dell’Italia contemporanea, pubblicato nel 1938. Viene considerato un testo piuttosto
accurato ed esaustivo dal punto di vista della raccolta delle fonti rispetto agli altri testi coevi e utilizza anche gliAtti parlamentari: è per questo che è stato spesso sfruttato come riferimento attendibile anche dagli storici nel periodo successivo al ‘45, seppur caratterizzato ad un ricorso continuo alla retorica fascista e ai pregiudizi razzisti.
L’introduzione è volta a giustificare la necessità per uno Stato europeo di possedere delle colonie, quale simbolo di prestigio internazionale: a suo avviso, come si era visto dopo la Grande Guerra, riferendosi alla Germania, uno Stato senza colonie a livello internazionale non contava niente. Lo storico quindi bolla come una necessità politica il possesso delle colonie, anche per l’Italia, in questo rifacendosi totalmente all’ideologia fascista. Con questa affermazione, Ciasca cerca inoltre di fornire una giustificazione anche alla guerra italo-etiopica: «per la metropoli, le colonie sono oggi base della robustezza economica, campo precipuo della razza oltre i confini nazionali, fondamento e
66 Ibid., p. 457. 67 Ibid., pp..455-456.
55 strumento di potenza e di prestigio politico. (…) un paese che ha perduto le sue colonie è un paese economicamente e politicamente minorato (…), le colonie possono pesare in modo decisivo finanche sul destino della loro metropoli68».
Questo concetto fondamentale viene comprovato dall’importanza che le colonie assunsero nella Grande guerra: secondo Ciasca, il conflitto prese avvio dal dissidio anglo-tedesco per il primato coloniale e marittimo ed ebbe conclusione con una serie di accordi che privarono la Germania dei territori extraeuropei, indebolendo la sua posizione politica internazionale69.
A partire dalle direttive di Mussolini rivolte agli storici affinché cercassero le origini del colonialismo italiano, così come i suoi colleghi, anche Ciasca si dedicò allo studio di presunti progetti espansionistici fin dall’Italia preunitaria, arrivando perfino ad attribuire un progetto espansionistico anche a Cavour:
Proposta simile venne avanzata (…) al Cavour, il 12 febbraio 1859 dal missionario Mons. Massaia (…), ufficiato da Cristoforo Negri (…), di esplicare una certa attenzione perché fosse facilitata la conclusione di un “trattato di amicizia, navigazione e commercio coi vari principi di Abissinia o almeno col più potente del paese” (…). Appena otto mesi dopo, un altro missionario, il padre stella (…), proponeva al Cavour la fondazione di una colonia agricola sarda nel paese dei Bogos. L’una e l’altra proposta, nonostante per allora non fossero attuate, perché urgeva il più grave problema della nostra unificazione nazionale, testimoniano l’interesse del Cavour alla fondazione delle colonie, sia quale avviamento a sciogliere la questione penitenziaria, sia a finalità agricole e ad avviare relazioni commerciali fra il regno del Piemonte e l’Abissinia70.
Questa affermazione sarebbe stata smentita alla fine degli anni ’70 dallo storico Angelo del Boca, come dirò più avanti. In Ciasca si nota una continua ricerca dell’origine del colonialismo italiano: secondo la logica del regime fascista, un inizio così fumoso avrebbe dovuto essere giustificato con la ricerca di solidi inizi. Ciasca voleva dare al colonialismo dei solidi natali di cui il popolo italiano potesse andare fiero e che potesse esibire con orgoglio, tanto da affermare che i progetti di espansione fossero piuttosto antichi, sostenuti persino dai protagonisti dell’unità di Italia, in particolare Cavour. Chiaramente, si trattava di un’affermazione errata, non suffragata da alcuna documentazione, dal momento che il testo non contiene note che rimandino a documenti che
68 R.Ciasca, Storia coloniale dell’Italia contemporanea, Hoepli, Milano, 1938 (XVI) p.8. 69 Ibid., p.9.
56 provino questa teoria. La conseguenza fu che questa affermazione si andò ad aggiungere alla mitologia sul colonialismo italiano.
La ricerca dei cosiddetti “precursori” spinge gli studiosi a collocarvi anche un insieme eterogeneo di personaggi che si recarono in Africa nella prima metà dell’Ottocento e che «avevano scritto il loro nome lungo le inesplorate vie del continente nero71». Vi erano tra questi missionari, esploratori,
studiosi e commercianti, che presero l’iniziativa, data l’immobilità della classe dirigente: «sdegnosi dell’inazione i cui le condizioni politiche della penisola ponevano i più ardenti, molti italiani, pieno l’animo e la mente dell’insegnamento mazziniano di una nostra missione da compiere, di nostra civiltà da propagare, di Mediterraneo caduto in straniero dominio da rendere italiano (…), si davano ad aprire commerci con popoli lontani». Questi personaggi erano mossi dall’amore per la patria: «profondo sentimento religioso, amore del sapere, avventura si mescolarono all’amore patrio. (…) È una bella pagina del nome e del valore dell’Italia. Fu un largo contributo di pensiero e di opere72».
E ancora: «erano religiosi e scienziati, nel cui petto batteva un palpito di italianità73»
Secondo lo storico, le imprese africane di questi personaggi dovevano essere ricordate con orgoglio, perché raramente gli altri europei si dedicarono in modo così solerte all’esplorazione di questi luoghi; inoltre queste esplorazioni erano volte ad affermare una presenza dominante dell’Italia in quelle regioni. Ma il vero contributo di questi primi esploratori, secondo Ciasca, sarebbe stata nel fatto che stavano preparando, anche inconsapevolmente, la strada per l’espansione italiana: «sapevano di lavorare per la patria lontana e sognata grande, preparavano accortamente, talvolta pur senza proporselo, le possibilità di una nostra penetrazione economica in quel vasto paese africano74». Ciasca afferma che il loro lavoro fu prezioso per la penetrazione economica italiana
futura: si impegnarono spinti dal patriottismo, ma di fatto senza sapere davvero quale preziosa strada avrebbero aperto all’Italia. Più avanti sostiene infatti: «se le missioni divennero affermazioni di italianità, esploratori, viaggiatori e studiosi furono i missionari dell’idea di patria75».
Frequente in questo caso e anche in molti altri il riferimento alla grandezza del passato dell’Italia come potenza scopritrice, commerciale e conquistatrice di popoli: un concetto che faceva parte della retorica fascista, con la quale si voleva catalizzare l’attenzione degli italiani sulle colonie, 71 Ibid., p. 30. 72 Ibid., p.41. 73 Ibid.p.52. 74Ivi. 75 Ivi.
57 attraverso la rievocazione di un passato glorioso. Gli italiani dovevano essere orgogliosi del proprio passato e della propria origine, senza sentirsi in difetto rispetto alle altre nazioni europee e ai loro impero, molto più grandi di quello italiano.
Sulla storia del colonialismo italiano pesa, tuttavia, il ritardo con cui vennero progettate e intraprese le campagne di conquista: perché l’Italia si era gettata solo alla fine dell’Ottocento nello scramble
for Africa? A discolpa del governo italiano si poteva dire che le intenzioni c’erano (Cavour), ma che
non si potevano attuare: «finché il programma nazionale non venne attuato, nessun’altra finalità venne intesa o poté imporsi al paese76».
Nel testo di Ciasca sono presenti anche riferimenti negativi ai governi liberali: come detto precedentemente, la retorica fascista si impegnava a marcare il distacco dalla precedente politica, fallita clamorosamente con la sconfitta di Adua: «ma all’indomani della raggiunta unità (…), problemi non meno ardui si imposero all’Italia, specialmente da quando, morto il Cavour, uomini meno alti di lui presero in mano il timone dello stato77». Il testo prosegue con la descrizione dei
programmi politici dei governi liberali: non si volevano definire dominatori, ma «amici ed aiutatori (…), più che un programma di azione politica, dettato da una visione realistica delle genti semi- barbare con cui eravamo venuti in contatto, era un insieme di principi di equità e di probità politica, di patria, di autonomia dei popoli, concetti millenari della nostra civiltà. (…) le dette affermazioni (…) costituivano un programma buono, se mai, per un paese civile, non per uno in gran parte profondato nella barbarie78». Secondo Ciasca, i governi liberali conducevano delle politiche errate
nei confronti degli indigeni, perché si ostinavano a concepirli uguali ai popoli europei, non tenendo conto invece del fatto che fossero dei popoli barbari, del tutto ignari dei valori della civiltà, di cui, ovviamente, era portavoce l’occidente, quindi incapaci di assimilarvisi.
La classe politica italiana era definita troppo romantica, sentimentale e priva di capacità pratiche adatte a preparare una spedizione di conquista, tenendo conto del poco impegno profuso dal governo per risolvere alcune questioni nelle colonie: per esempio, per molto tempo non si riuscì a risolvere la questione della baia di Assab, per «mancanza di energie79». Nell’Italia da poco unita,
«pochissimi videro il valore politico delle colonie, pochissimi intesero che esse sono fondamento e
76 Ibid., p..22. 77 Ibid, p.23. 78 Ibid., p.27. 79 Ibid., p.28.
58 strumento di potenza, espressione di dominio della razza fuori dai confini nazionali80». Quindi i
governi liberali, ma in genere pochi in Italia, non capirono quale era il vero significato delle colonie, cioè la dominazione di una razza superiore su una inferiore.
E ancora: «incertezza, mancanza d’un chiaro programma e d’una volontà tenace a servizio di essa, si riscontrarono nei primi passi della politica italiana in eritrea81». Il prestigio italiano in Africa fu
diminuito anche dal comportamento del governo italiano dopo la spedizione Porro, in cui il governo italiano guidato da Di Robilant si convinse per il non intervento, per non distrarre l’Italia da scacchieri più importanti, quando invece si doveva intervenire per vendicare l’uccisione dei soldati della spedizione per ordine dell’emiro dell’Harrar.
La sconfitta di Dogali fu causata dalla nostra impreparazione e dalla violenza di ras Alula. I 10000 uomini di ras alula attaccarono e uccisero i 500 italiani di de Cristoforis. Le cifre, come sappiamo dalle ricerche recenti, sono gonfiate dalla retorica. Dogali fu la prova che la politica di penetrazione pacifica aveva fallito e che gli eserciti che affrontavano l’Italia erano forti, ben organizzati e bellicosi, una popolazione «animata da odio contro l’Italia e da barbara ferocia». Ciasca si lamenta della faciloneria con cui l’Italia si era apprestata a iniziare l’espansione militare in Africa, perché ciò dimostrò l’impreparazione degli eserciti e dell’Italia tutta. Il che porta anche ad una contraddizione, perché se da un lato Ciasca si lamentava perché il colonialismo italiano fu tardo e non ci furono nei governi dell’immediato post unità dei progetti di annessione, da questo lato invece sembra invitare i governi a ritardare l’impresa. E’ presente il tema del grande interesse dell’opinione pubblica di mantenere quelle terre e di vendicare i morti, tema grande e spesso utilizzato dalla retorica fascista: «la quasi unanimità della pubblica opinione, pur deplorando Dogali e le cause che ci avevano portato colà, intese chiaramente che non potevamo abbandonare quelle terre dove i nostri morti imponevano di essere vendicati».
Ciasca inoltre riabilita la figura di Crispi: «l’ingresso di Crispi nel ministero, come significò più vigile difesa degli interessi materiali e morali dell’Italia nel mondo, e proposito di potenziare nel nostro popolo il sentimento di dignità nazionale, di fierezza, di coscienza della propria forza, di fede nel proprio destino, così significò pure il proposito di più energica nostra azione in Africa82». Crispi fu,
secondo l’autire, il vero fautore della politica coloniale italiana e fomentatore di uno spirito italiano
80Ibid., p.91. 81 Ibid., p.133. 82 Ibid., p.145.
59 di conquista e orgoglio per la patria e la sua storia. La sua politica avrebbe apportato anche una strategia razionale e meno azzardata di quella dei governi precedenti.
Nel saggio spiccano i commenti negativi e razzisti sugli etiopici: essi sono descritti come un popolo contrassegnato da una barbarie insita nella propria natura, della quale hanno dato prova in occasione delle battaglie della prima guerra d’Africa infliggendo un trattamento crudele ai sopravvissuti italiani. Gli etiopici sono inoltre definiti subdoli, traditori e falsi: «gli abissini hanno il vizio di fare guerra con nelle mani «le palme della pace83», cioè ingannano l’avversario cercando di
intavolare trattative prima di dichiarare guerra; Menelik viene descritto come un «freddo e simulatore, all’occorrenza ardito e temerario». Più avanti, Ciasca sostiene che il ras e futuro negus «lusingava le potenze presentando sé come persecutore dello schiavismo – un lacciuolo e nulla di più, teso alla buona fede europea»: sappiamo che uno dei temi ricorrenti della retorica fascista era quello di giustificare l’invasione dell’Etiopia con il proposito di sconfiggere lo schiavismo: il fascismo adduceva quindi una giustificazione morale all’occupazione, che veniva quindi condotta contro un popolo che si dimostrava arcaico e tradizionale. Oltre a questo, la corte di Menelik avrebbe manifestato una grande ostilità verso l’Italia84. L’incidente di Ual Ual, a questo proposito, viene visto
come una provocazione da parte etiopica: con questa premessa, il governo fascista si sentiva giustificato ad ignorare la procedura di arbitrato invocata dall’Etiopia e si sentiva giustificato ad intervenire.
Per quanto riguarda la Libia e le popolazioni, Ciasca si premurò di elencare in un lungo capitolo tutte le migliorie apportate alla colonia dopo la cacciata dei turchi. Nel volume sostiene inoltre che le popolazioni libiche accolsero favorevolmente l’arrivo degli italiani e che donarono a Mussolini la “spada della islamica”85.
La politica da noi instaurata in Libia, che poggia sul valore eterno della nostra civiltà, romana e cattolica, ma che non disconosce e vuole anzi far rifiorire il culto e la cultura islamica (…), richiama attorno al Tricolore popolazioni già a noi ostili, oggi mosse da apprezzabile fervore di collaborazione. Lo si è visto in occasione della guerra per la conquista dell’impero, alla quale la popolazione libica ha largamente partecipato; lo si constata quotidianamente nella simpatia con la quale la gioventù accetta di organizzarsi sotto i segni del Littorio; ha avuto simbolica espressione nell’offerta, a nome del mondo musulmano, della spada al Duce, nelle accoglienze
83 Ibid., p.32. 84 Ibid., p. 485.
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straordinariamente calorose che il supremo rappresentante del governo italiano, ha ricevuto (…), in Libia, da ogni ordine di cittadini86.
Un vero linguaggio retorico e apologetico viene utilizzato nel capitolo dedicato alle imprese fasciste in Africa, quindi alla riconquista della Tripolitania e della Cirenaica e all’invasione dell’Etiopia. Spicca per queste imprese la «risolutezza del governo centrale87» a condurre operazioni che ottennero i
risultati che i governi liberali non erano riusciti a raggiungere, con le loro politiche insicure e poco decise. Ovviamente, non viene fatta menzione di quanto rimanesse ancora da conquistare della Libia.
Ciasca loda l’invasione e la conquista italiana come una delle più grandi battaglie del colonialismo, che aveva sconfitto definitivamente il negus in soli sette mesi. Vanta la grandezza, la bellezza e la ricchezza dell’impero appena conquistato, più grande del territorio italiano. L’Italia aveva finalmente vendicato la sconfitta subita ad Adua: «dopo quindici secoli, riappariva così l’impero sui colli fatali di Roma88».